martedì 27 agosto 2024

RITROVARE LA CALABRIA E LA POESIA CON FRANCO COSTABILE ( di Bruno Demasi)

    Nel centenario silenzioso della nascita di Franco Costabile, un poeta di cui tutti dovremmo conservare nella memoria almeno qualche verso, tornano ad affiorare mille echi e suggestioni sullo stato dell’Arte in questa terra di Calabria magnifica e tossica, dolcissima e amara fino al pianto. Quando infatti  si parla, si legge o si scrive di poesia, si cade spesso nel tranello di cercare a tutti i costi il poeta più rappresentativo di uno stile, di una regione, di un contesto geografico o letterario: ne nascono classifiche imbarazzanti e mai veritiere, che non rendono giustizia a nessuno, soprattutto alla poesia, ma fanno almeno affiorare i mille limiti di quella che Croce con un pietoso eufemismo definiva la “Non poesia” dilagante. Per me c’è un solo modo per comprendere se, leggendo o ascoltando dei versi ( non parole in libertà) , ti trovi davvero dinanzi a quella sintesi di suoni e di immagini che ti trafiggono l’anima, ti riportano dalla tua fanciullezza gli aneliti che hanno impregnato la tua esistenza, riproponendoti continuamente quella vita e quella terra sempre cercate e mai trovate davvero.

     Ricordo che quando conobbi per la prima volta le liriche di Franco Costabile, anziché avvertire ( come spesso accade in questi casi ) la fretta di completarne la lettura alla meno peggio, provai l’urgenza di rileggerle, di riassaporarle, di cercarne altre ancora, a loro volta da gustare e poi rileggere, chiedendomi sorpreso se fosse proprio vero che la Calabria avesse partorito una mente e un cuore simili. Una mente e un cuore tanto grandi da stupire persino Ungaretti che mai si era sbilanciato a giudicare ed apprezzare altri poeti diversi da sè e che di Franco Costabile fu paterno ed intenso ammiratore, come scrisse in alcuni versi del  suo ricordo estremo che divenne  in seguito  l’epitaffio scolpito sulla tomba del Poeta  dopo sua prematura scomparsa:

“Con questo cuore troppo cantastorie”
dicevi ponendo una rosa nel bicchiere
e la rosa s’è spenta a poco a poco
come il tuo cuore, si è spenta per cantare
una storia tragica per sempre.


 
    Franco Costabile nasce a Sambiase (oggi Lamezia Terme) il 27 agosto del 1924, conoscendo fin da piccolo l’amarezza dell’abbandono del padre che lasciò la famiglia per andare a insegnare in Tunisia, rifiutandosi di tornare anche davanti ai reiterati inviti della moglie. Compie gli studi a Nicastro e Vibo e quelli universitari a Messina e poi a Roma. Nel 1950 pubblica a proprie spese il suo primo libro di poesie, Via degli ulivi. Nel 1953 sposa Mariuccia Ormau, sua ex allieva. Da questo matrimonio nascono le figlie, Olivia e Giordana . Sono anni duri per il poeta, che ancora nel 1961 lavora come docente precario nella scuola. In questo stesso anno pubblica La Rosa nel bicchiere, una raccolta di poesie, che aveva visto la luce nel corso degli anni Ciquanta su varie riviste: alla RAI viene fatta una lettura dei suoi versi da parte di Valeria Moriconi. Mariuccia intanto si trasferisce a Milano portando con sé le due figliole: è un secondo distacco, un secondo abbandono familiare a ridosso del quale si rompono definitivamente i rapporti col padre lontano, mentre nel 1964 muore la madre, affetta da un male incurabile. Il 14 aprile 1965,  Franco si toglie la vita.

    Se il numero delle pubblicazioni fosse direttamente proporzionale alla grandezza di uno scrittore, penseresti che Franco Costabile abbia pochissimo da dire alla letteratura italiana e a quella calabrese. Mai invece, come nel suo caso, la povertà di pubblicazioni rivela una grandezza poetica tanto dirompente che non solo i manuali di letteratura dovrebbero aggiornarsi radicalmente a valorizzare , ma il mondo della scuola, quello calabrese più che mai, dovrebbe rinunciare a mille convenzioni inutili per farla conoscere a tutti gli alunni. A me rammarica soltanto di non avere qui e ora lo spazio, il tempo e la vista per riportare uno ad uno tutti i suoi versi, nessuno escluso perché nessuno é posticcio o riempitivo o superfluo!

     Franco Costabile, di cui meritoriamente oggi Rubbettino Editore  pubblica  l’opera poetica proprio col titolo “La rosa nel bicchiere”, parla  proprio dal cuore della vera Calabria, evoca  perdite che nessuno mai ha rimpianto,  usanze e umiliazioni inaccettabili e supinamente accettate, dà voce e parola ai silenzi inauditi della nostra gente, alle ferite sempre sanguinanti e nascoste , ai dolori e alle ironie che distruggono quotidianamente questa terra: 
 
SCALPITA LA MULA
Dorme il gallo
e continua la luna
oltre i canneti.
Una lanterna
già nel vicolo è accesa
scalpita la mula:
è l’alba calabrese
che ruba al contadino
anche il sonno.

LA ROSA NEL BICCHIERE
Un pastore
un organetto
il tuo cammino.
Calabria,
polvere e more.
Uova
di mattinata
il tuo canestro.
Calabria,
galline
sotto il letto.
Scialli neri
il tuo mattino
di emigranti.
Calabria,
pane e cipolla.
Lettera
dell ‘ America
il tuo postino.
Calabria,
dollari nel bustino.
Luce
d’accetta
l’alba
dei tuoi boschi.
Calabria,
abbazia di abeti.
Una rissa
la tua fiera
Calabria,
d’uva rossa
e di coltelli.
Vendetta
il tuo onore.
Calabria,
in penombra,
canne di fucili.
Vino
e quaglie,
la festa
ai tuoi padroni.
Calabria,
allegria
di borboni.
Carrette
alla marina
la tua estate.
Calabria,
capre sulla spiaggia.
Alluvioni
carabinieri,
i tuoi autunni,
Calabria,
bastione
di pazienza.
Un lamento
di lupi,
i tuoi inverni.
Calabria,
famigliola
al braciere.
Francesco di Paola
il tuo sole.
Calabria,
casa sempre
aperta.
Un arancio
il tuo cuore,
succo d’aurora.
Calabria,
rosa nel bicchiere.

I TINI SONO VUOTI NEL PALMENTO
I tini sono vuoti nel palmento
e la lucerna illumina al padrone
la bocca della donna forestiera.
E si lamenta, piange la chitarra
del massaro.
Fra le raspe dell’uva nella strada
la bambina con il viso di mosto
guarda la luna negli occhi del bove.
E si lamenta, piange la chitarra
del massaro.

TARANTELLA D’ESTATE
Tarantella d’ estate
che fai vibrare
i seni alle ragazze
e ribattere il piede
alla vecchiaia
che sa di baffi
e sigaro toscano,
tu finirai stanotte
con le stelle
se qualcuna
condotta per mano
salirà verso i vigneti in fiore
mentre in giro per l’ aia
Si assaggia
il vino d’una botte antica.

GIORNI RIPOSATI
Monti,
orizzonti,
golfi
di sapienza.
Un passero
cinguetta in calabrese.
Boschi dorati, la nonna è all’arcolaio.
Giorni riposati,
il grano è nel solaio.

AUSTRALIA
Era come te
nella vigna
un giorno di marzo
di vento di sole.
Di tanto, o padre,
non t’è rimasto
che qualche cartolina
a un angolo,
sul vetro della cristalliera.

CALABRIA INFAME
Un giorno
anche tu lascerai
queste case,
dirai addio,
Calabria infame.
Solo
ma leale
servizievole,
ti cercherai
un’amicizia,
vorrai sentirti
un po’ civile,
uguale a ogni altro uomo;
ma quante volte
sentirai risuonarti
bassitalia,
quante volte
vorrai tu restare solo
e ripeterti
meglio la vita
ad allevare porci.


  
     Costabile è anche il poeta dal verso mai casuale e arrangiato, ma sempre misurato, pulito, evocatore, che ti fa immergere profondamente nei luoghi, nei suoni, nei momenti di una storia antica e sempre attuale: i luoghi della poesia e della Calabria  in cui si rincorrono voci e urla secolari di madri accorate che ancora popolano una terra riarsa e avida di pioggia e di pianto. E’ un verso incisivo, breve, dirompente scarnificante come le semplici allegorie spesso evocate che ti ricordano Pavese e le sue colline e i suoi contadini , facendoti quasi capire , come afferma Luigi Tassoni, che “per consonanze storiche, Franco Costabile appartiene a una generazione complessa qual è quella di Pasolini, di Zanzotto, di Cattafi, di Scotellaro, di Sanguineti, di Erba, e a questa mappa di diversità aggiunge le sue differenze. L’elemento che più d’ogni altro lo collegherebbe ai suoi naturali compagni di strada consiste nella forza di un linguaggio che rivendica il proprio essere tagliente, la capacità di pensare alla vita che sta sotto alla vita.”

    Direi  che la vita, “ che sta sotto alla vita” e che rigenera sempre questa terra, in queste liriche è raffigurata in mille  metafore, ma soprattutto  dai numerosi  ritorni del poeta all’immagine degli ulivi, alla loro sacralità  immortale che impregna le balze della Calabria e si contorce nel legno secolare  attraverso valori  sempre smarriti  e sempre ritrovati:

PER ALTRI SENTIERI
Per altri sentieri
torneremo alla piana
celeste di ulivi.
Saremo
dove si leva
l’infanzia dei profumi;
dove l’acqua
non si fa nera
ma vacilla di luna;
dove i passi
avranno memorie di solchi
e le dita di melograni;
dove ti piace dormire
e ti piace amare….
Sono questi gli orti,
i confini per ricordarci.


DAI CAMPANILI
Dai campanili
dipinti di silenzi casalinghi
voce in paese non discende ormai.
Rimane nel cielo di lilla
che si vuota di rondini ogni sera.
Ma basta al cuore
il fumo dei comignoli,
il passo di chi torna
dalla via degli ulivi.


TERRA REALE
Ulivi,
ducati
d’argento.
Ulivi,
costati
di donne.
Sempre
c’è ulivi,
terra reale.

CE N’È DI PAESANI
Ce n’è
di reste d’agli
nelle case,
di cartuccere
e di madonne appese.
Ce n’è di donne
scalze senza pane
a raccogliere frasche
a vendemmiare.
Ce n’è di gente
che zappa e non parla
perché pensa
a un’annata migliore.
Qui tutto
è come prima,
tranne i morti.
Ce n’è
di caporioni
sotto il sole,
di fichidindia
e pistole lucenti,
Ce n’è di ulivi
bruciati nella notte
fucilate
a finestre e balconi…

                                                                                                                 
Bruno Demasi

CAMINI: MIRACOLO VERO DI INCLUSIONE E DI SVILUPPO (di Ornella Pegoraro Ambasciatrice Erasmus+ EDA Calabria)


   Forse più che altrove a Camini, un paese semiabbandonato nella falda estrema ionica della provincia di Reggio Calabria, da cinque anni a questa parte si materializza ogni giorno un vero miracolo di inclusione , di ripopolamento e di sviluppo, senza clamori e flash pubblicitari, senza trionfalismi di sorta, ma col lavoro serio e duro di tanti volontari italiani e di tanti immigrati che vi hanno trovato una casa e una ragione valida di vita. Qui i soldi hanno davvero valore: anche i pochi euro, risparmiati da tutto ciò che potrebbe essere superflua esibizione di quanto  fatto quotidianamente, diventano un valore aggiunto moltiplicato veramente per mille come cibo materiale e spirituale per alimentare non la vanità di pochi, ma la dignità di tantissima gente! Grazie a Ornella Pegoraro per questa preziosa testimonianza  che questo blog si onora di ospitare!
(Bruno Demasi)

 
  Camini è un piccolo borgo calabrese, situato sulla costa Jonica nella zona della Locride, in provincia di Reggio Calabria, un tempo in fase di spopolamento e a rischio di estinzione, ma ora in fase di netta ripresa sociale ed economica grazie al programma di accoglienza e integrazione dei cittadini di paesi terzi attuato dall’Associazione sociale EUROCOOP Servizi Società di Cooperativa Sociale , diretta dal Presidente Rosario Zurzolo. L’Associazione sociale, infatti, nel Luglio 2011, con l’arrivo di un primo gruppo di ragazzi provenienti dalla Costa d’Avorio, coinvolti in attività tradizionali quali il recupero di ulivi abbandonati , ha fondato il centro operativo “Jungi Mundu”(in dialetto locale “Unisci il mondo”), proprio a significare che il piccolo borgo rappresenta un modello di accoglienza e di integrazione di rifugiati.
 
 L’obiettivo, pienamente raggiunto, è quello di favorire l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, offrendo servizi di accoglienza ai migranti, garantendo l’indipendenza e l’integrazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati, oltre che promuovere il turismo solidale.La Cooperativa sta attuando con successo un Progetto, vero e proprio cuore dell’Accoglienza, denominato SAI (ex SIPROIMI ed ex SPRAR), che può ospitare fino a un massimo di 118 beneficiari provenienti attualmente dalla Siria, ma anche da Eritrea, Marocco, Gambia, Nigeria, Mali, Senegal, Pakistan, Sudan, Sud Sudan, Sierra Leone, Tunisia e Libia.

    Gli stessi sono pienamente integrati nel tessuto socio-economico di Camini, un rifugio sicuro per i nuovi residenti che risultano impegnati in botteghe artigiane e diversi laboratori multiculturali: laboratorio di ceramica, arte creativa, liuteria, sartoria, restauro conservativo, del legno, forno di comunità, agroalimentare ristorazione e tanto altro.Pertanto si è creata una sorta di economia circolare costituita grazie ai visitatori che, con il loro contributo per visite turistiche, pranzi, workshop e corsi , sostengono tale realtà virtuosa, rendendo possibile questo percorso inclusivo nel borgo multietnico di Camini, in cui i rifugiati vivono in un clima di condivisione, rispetto, serenità e speranza Ed è proprio nel corso di una mia visita al borgo, che ho avuto modo di conoscere e intervistare Arezo Rashidi, , nostra guida tra i laboratori del borgo, giovane rifugiata in fuga in dall’Afghanistan, arrivata a Camini nel 2022

Intervista a Arezo Rashidi, 19 anni, giovane rifugiata in fuga in dall’Afghanistan


D. Arezo, vuoi raccontare come sei arrivata qui a Camini?

R. Sono scappata dall’Afghanistan con la mia famiglia composta da 9 persone (i miei genitori, io, quattro sorelle e 2 fratelli),attraverso un corridoio umanitario attivato dall’Ambasciata Italiana a Kabul. Grazie al progetto CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), siamo arrivati in Sardegna nel 2021, soggiornando 8 mesi in hotel, ma lì non ho potuto frequentare la scuola, pur essendo obbligatoria. Dopo siamo stati inviati a Camini, nel 2022 senza possibilità di scelta.

D. Qual è stata la tua prima impressione qui a Camini?

R. Avevo tante aspettative riguardo il mio soggiorno in Italia; ma attraverso le mie ricerche su Google, ho visto più montagne e alberi che case. A questo punto mi sono chiesta: “Ma questa è l’Italia? Dove stiamo andando?” Poi siamo stati informati che ,non accettando la sede di Camini, saremmo rimasti tutti in Sardegna, vale a dire senza possibilità sia mia che dei mie fratelli di andare a scuola, per cui non abbiamo avuto altra scelta che accettare.

D. Come ti trovi a Camini?

R. Molto bene. All’inizio non c’è stata la possibilità di andare a scuola, quindi pensavo di trovarmi nella stessa situazione della Sardegna. A Maggio 2022 ci hanno assegnato una casa, sono stata ammessa al terzo anno del Liceo di Scienze Umane a Locri e , posso affermare, che sia io che i miei fratelli abbiamo finalmente trovato la libertà, la libertà di andare a scuola.

D. Sei soddisfatta della tua vita scolastica?

Si, molto. Dopo aver seguito un corso di Italiano A2 a Camini, attualmente frequento il quarto anno del Liceo di Scienze Umane a Locri, che raggiungo giornalmente viaggiando un’ora e mezza in pullman. Inizialmente non sono stata ammessa da alcune scuole ma poi, grazie al supporto di una docente di Italiano, il Liceo di Scienze Umane mi ha accettato subito dal terzo anno. Mi trovo benissimo nella classe in cui sono stata inserita, mi sento pienamente integrata, essendo stata accolta con affetto sia dai docenti che dai compagni che mi aiutano e mi supportano, così come i miei amici a Camini. Anche i miei fratelli finalmente possono andare a scuola: una sorella e un fratello frequentano rispettivamente la terza e seconda media a Riace Marina , un’altra sorella il primo anno del Liceo di Scienze Umane a Locri, altre due sorelline la terza elementare a Camini, infine un fratellino frequenta la scuola dell’infanzia.

D. Cosa fai nel tuo tempo libero?

Non ho molto tempo libero, essendo occupata in quanto lavoro come interprete, collaborando con il tribunale di Locri, nonché come volontaria presso la Cooperativa Eurocoop. Inoltre ho frequentato anche la scuola guida, conseguendo anche la patente. Qui a Camini sono veramente felice, è una seconda casa che ha accettato con affetto me e tutta la mia famiglia.

D. Potresti parlare brevemente della tua vita a Kabul?

R. Là purtroppo le ragazze hanno perso la loro libertà: le scuole sono chiuse da 3 anni, vale a dire dall’entrata dei Talebani. Le ragazze possono studiare appena 6 anni , anziché 12, cioè solo scuole elementari e fino alla prima media, senza conseguire alcun diploma. Per quanto riguarda il tempo libero, esse non hanno alcuna libertà di movimento, possono uscire solo se accompagnate da una figura maschile, persistendo il rischio di essere rubate e/o uccise.

D. Ti ritieni fortunata a essere qua a Camini? Pensi che altri potrebbero avere la tua stessa possibilità?


R. Si, mi ritengo molto fortunata perché non c’è più questa possibilità per altri . Per me e la mia famiglia è stato realizzabile perché abbiamo potuto inserirci nel corridoio umanitario grazie a mia madre che lavorava all’ Ambasciata Italiana a Kabul.

D. Che lavoro fanno i tuoi genitori a Camini ora?


R. Mia madre, dopo aver svolto un tirocinio di laboratorio di tessitura per 6 mesi, sta attualmente frequentando un corso di Italiano A1; anche mio padre sta frequentando un corso di Italiano A1 e ha lavorato nel restauro delle case a Camini.

D. Che prospettive hai per il tuo futuro in Italia?

R. Vorrei proseguire i miei studi dopo il Diploma di Maturità , per poi di iscrivermi alla facoltà di Medicina e Chirurgia, ma ancora non ho deciso in quale settore specializzarmi.

  Arezo, ti ringrazio molto per l’intervista, auguro a te e alla tua famiglia una vita serena in Italia, con l’auspicio che tu possa realizzare i tuoi sogni di una radiosa carriera professionale nel settore sanitario. La tua testimonianza è stata veramente molto significativa per comprendere lo status delle donne all’interno della società afghana, con importanti spunti di riflessione sulle violazioni sistematiche dei diritti umani più basilari in Afghanistan, soprattutto per noi spettatori dei Paesi “privilegiati”.

Ornella Pegoraro


mercoledì 14 agosto 2024

LA FESTA DELL'ASSUNZIONE DELLA THEOTOKOS IN OPPIDO E NEL MONDO ( di Bruno Demasi)



    Anche quest’anno nella liturgia bizantina, ortodossa e greco-cattolica, mercoledì I agosto è iniziata la “quindicina dell’Assunta”, le due settimane di digiuno che precedono la Solennità dell’Assunzione in cielo della Vergine.
    Questo rito di digiuno, antico di mille anni, già presente nella  Oppido bizantina fino all'abolizione del rito greco in Calabria, viene chiamato “piccola Quaresima della Vergine” ed è da alcuni celebrato i quindici giorni precedenti la festa, da altri i quindici giorni successivi, fino alla fine del mese, in coincidenza, il 31 agosto, con la chiusura dell’anno liturgico bizantino.Il mariologo Antonino Grasso, docente all’Istituto di Scienze Religiose ‘San Luca’ di Catania, spiega che “la Quindicina dell’Assunta assume un grande valore ecumenico visto che unisce i cristiani di Oriente ed Occidente nell'unanime venerazione di Maria. Con questa pia pratica i fedeli chiedono alla Madre di Dio anche di intercedere per la pace sulla terra, l’unità delle Chiese, la benedizione divina sulle famiglie e su ogni creatura umana”. Anche per noi occidentali, aggiunge il prof. Grasso, lo scopo della Quindicina dell’Assunta è quello di alzare lo sguardo verso la Vergine glorificata “per sentirla sempre vicina e per rivolgerle fiduciosi la struggente invocazione di aiutarci a risolvere i grandi problemi personali, familiari, nazionali ed internazionali”. Un'invocazione che ricorre in modo reiterato durante il canto del celebre e commovente Inno Akathystos ( cantato in piedi).



    Ma tutto il mese è dedicato alla Vergine - la “stella della nostra speranza” - come la definiva amorevolmente Benedetto XVI; la "Madre di tutti", come la definisce Papa Francesco,  verso la quale si alzano gli occhi al cielo rivolgendole l’invocazione “Santa Maria di Dio, salvaci!”.
       Secondo una tradizione ultracinquantennale, la celebrazione bizantina a Roma ha luogo nella Basilica di Santa Maria in Via Lata presso il Corso: ogni sera, dunque, dal I  al 14 agosto, si invoca insieme la pace sulla Terra, l’unità delle Chiese, la benedizione divina sulle nostre famiglie e su ogni creatura. Una tradizione che nell'antica Theotokos di Hagia Agathè (Oppido)  era particolarmente sentita e celebrata.
 
    Il momento culminante della celebrazione era a Oppidum antico ovviamente la veglia dell’Assunta la sera del 14 agosto nella cattedrale bizantina.
   Lo è però ancora oggi nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore,a Roma, cominciando con il tradizionale lucernario, con processione e canto del Preconio festivo; il canto dell’ufficio delle letture della Solennità con il canto polifonico dei tro-pari russi del Transito di Maria. Infine, la Santa Messa vigiliare presieduta da un prelato di Santa Maria Maggiore, con la partecipazione della Corale delle Suore Compassioniste Serve di Maria.
     E' magnifico che tale tradizione sia stata conservata a Roma, ma lo è anche in alcune chiesette ortodosse calabresi   e, forse, anche in qualche  chiesetta della nostra diocesi...ce lo auguriamo vivamente!
     Buona festa di Maria SS.ma Assunta in cielo a tutti i Calabresi della Piana e, in particolare, agli emigrati che per l'occasione hanno fatto ritorno nella loro terra.

sabato 10 agosto 2024

MESSIGNADI : DAL MISTERO DEL NOME A UN ’ ALTRA STORIA ( di Bruno Demasi )

      Esistono località il cui nome attuale apparentemente non trova riscontri documentabili nel passato più o meno lontano del territorio in cui sorgono. Si ricorre allora a ipotesi, congetture, ricostruzioni che in qualche modo possono avere un fondo di verità o almeno di verosimiglianza. Messignadi è una di queste realtà, oggi frazione del comune di Oppido Mamertina, ieri presumibilmente contesto rurale e commerciale a sé stante avente una vita economica e sociale propria, come tanti indizi lascerebbero intendere. Sulle sue origini il dibattito è vivo, anche ad opera dell’intelligente blog fondato da Filippo Tucci “Messignadi nel tempo”, curato dopo la sua prematura scomparsa dalla consorte  e dal figlio, che tanto impulso ha dato e continua a dare al lavorio culturale di vari studiosi e appassionati di storia e di storie locali. Proprio da questo blog e dalla sua appassionata ricerca di notizie e immagini del passato traggo la foto di apertura di questo articolo: una ragazza messignadese che all’indomani del tremendo sisma del 1908 posa sulle macerie del paese quasi a testimoniare con la freschezza del suo viso e l’armonia della sua figura la composta e dignitosa testardaggine di un intero paese sempre pronto a risorgere dalle proprie ceneri e a superare non solo le tempeste del tempo, ma anche i limiti sociali per riemergere ed evolversi con fatica e impegno tenaci. E’ questa una costante sempre viva nell’animus di Messignadi che ne costituisce il vero volano di sviluppo, di conquista culturale e di progresso , in questi ultimi decenni documentato non solo dall’emigrazione che, se non smette di sottrarre braccia e menti al benessere del luogo, continua a dare altrove esempi di creatività imprenditoriale e di talento, ma anche dall’elevatissimo numero di laureati che  sempre più  sta  facendo da lievito  per le nuove generazioni.

    Sicuramente molto lodevoli i tanti tentativi che in questi anni sono stati e sono ancora fatti per risalire a qualche certezza sull’origine dell’abitato di Messignadi e del suo nome, tante le ipotesi enunciate che, per comodità del lettore, cercherò qui preliminarmente di sintetizzare schematizzando quelle più accreditate:

IPOTESI ZERBI / FRASCA’
    Entrambi questi cultori della cronistoria di Oppido e del suo territorio, sia pure a distanza di oltre mezzo secolo l’uno dall’altro, non si sbilanciano e non si discostano sull’origine di Messignadi: per il primo ( Della città , chiesa e diocesi di Oppido Mamertina e dei suoi vescovi, Roma, 1876, pp142-143), che sembra mutuare la notizia da tale Francesco Sacco, il luogo sarebbe stato un feudo della mensa vescovile di Oppido, mentre il secondo ( Oppido Mamertina - Riassunto cronistorico, Cittanova 1930, pp 229-231) ritiene che Messignadi avrebbe avuto un’origine genericamente medioevale e, pur non riconoscendo ad esso un passato storico degno di rilievo, fa un apprezzamento decisamente cortese verso gli abitanti di questo centro rurale affermando che “ tutti dediti all’agricoltura, sono sobri, equilibrati e di gran cuore”.

IPOTESI MARZANO
    Giovan Battista Marzano, affidando la sua indagine esclusivamente ad un’analisi etimologica del nome , propende per la derivazione greca dello stesso da μεσογειος – mesogeios, mediterraneo, a metà strada. Una congettura sbrigativa e falsamente autorevole ( come tutte le possibili derivazioni, stiracchiate o meno, dal greco o dal latino), ma direi anche del tutto ingenua e aleatoria: a rigori tutti i paesi e gli abitati potrebbero essere considerati infatti geograficamente “terre di mezzo”.

IPOTESI ROHLFS
    Secondo il celebre glottologo tedesco Gerhard Rohlfs il nome di Messignadi altro non sarebbe che la volgarizzazione estensiva del nome indicante appartenenza ad un feudo di una presunta famiglia ” Messineo”. Anche tale congettura, ripresa da Emilio Barillaro, è estremamente fragile, peraltro non suffragata dalla presenza in loco di tale cognome non solo in tempi recenti, ma neanche in epoche passate .

IPOTESI PENSABENE / TUCCI
    Il Pensabene , riprendendo il solco tracciato dal Marzano, propenderebbe per un’ascendenza latina del toponimo che deriverebbe da  Messinnarium, luogo deputato alla coltivazione e all’ammasso delle messi. Ipotesi decisamente suggestiva, pienamente condivisa da Filippo Tucci, l’instancabile raccoglitore di memorie patrie. Potrebbe essere parzialmente fondata: Messignadi cioè 'centro delle messi', luogo di deposito, smistamento e commercializzazione dei prodotti cerealicoli ( e non solo) di cui, come osserva altrove lo stesso Liberti, il territorio potrebbe avere abbondato prima dell’impianto degli uliveti, anche se la sua inequivocabile vocazione economica era legata alla pastorizia in un contesto territoriale collinare e montano prevalentemente boschivo. Probabilmente però l’equivoco di fondo è che il termine Messinnarium non esiste nell’etimologia latina o potrebbe esistere al massimo nei volgari tardolatini se non medioevali.

IPOTESI LANDO
    Don Giuseppe Lando, benemerito e beneamato sacerdote messignadese, nel 1987 nel suo affettuoso studio su  Messignadi edito ed inedito (1987) sull’origine del nome presenta almeno due ipotesi, sposando visibilmente la prima che è poi quella propognata dal Marzano: Messignadi come “ terra di mezzo” in un contesto di villaggi rurali posti a corona intorno al suo sito originario, parzialmente diverso da quello attuale. La sua seconda ipotesi, indubbiamente più peregrina, vorrebbe la derivazione del nome Messignadi da quello del “ fiume Mesima, che corrisponde all'antico Mèsma (forma più antica di Mèdma” immaginando che, “ in tempi storici un gruppo o più abitanti presso il fiume Mesima, per scampare ai pericoli di orde e di incursioni, abbiano cercato rifugio sull'amena altura (metri 350 e più sul livello del mare), alle falde del Monte Pizzunaru, dando al toponimo la loro provenienza”.

IPOTESI FERRANTE
   Interpellato sulla possibile origine di Messignadi da Padre Lando, Don Nicola Ferrante, storico e bibliotecario della diocesi metropolita di Reggio Calabria, cosi si espresse: “Per ciò che concerne Messignadi esso probabilmente deriva da un tale Joannes Mesinus, - di cui parla un atto greco del 1228, riportato da Francesco Trinchera, Syllabus Graecarum Membranarum, Napoli 1895, p.387- oppure da altro cognome simile, quasi certamente greco”(Rip. da G. Lando, ibidem) . Anche questa ipotesi appare estremamente fragile e convenzionale, con tutto il grande rispetto per padre Ferrante e per il Trinchera, da lui chiamato in causa.

IPOTESI FILIPPELLI
     Le ipotesi più recentemente avanzate sono ascrivibili a Orazio Filippelli, appassionato cultore di storie e memorie locali , estensore o comunque curatore , secondo Mirko Tucci, di una pagina dedicata su Wikipedia , dalla quale è possibile attingere altre riflessioni sul significato del termine “Messignadi”: “Le origini di Messignadi risalgono, con relativa certezza, alla Magna Grecia. Nel tempo il nome ha subito alcune variazioni; tra quelle note: Massinado, Messiniade, Mesoignadi, Mesignade. L'etimologia deriva probabilmente dalla parola greca Μεσσηνίάδoς (della Messenia), per cui si potrebbe ipotizzare che il primo nucleo sia stato fondato dagli antichi messeni, provenienti dalla Messenia, regione del Peloponneso, e inizialmente insediatisi a Zancle (antico nome di Messina) intorno al V secolo a.C. È altresì possibile che il nome Messignadi derivi dall'unione del verbo greco μεσόω con il sostantivo ναιαδi, letteralmente tradotto: che sta in mezzo alle Naiadi, divinità mitologiche, ninfe delle sorgenti. Infatti, Messignadi nell'antichità era circondata da corsi fluviali. Dei periodi greco, romano e bizantino non rimangono che fragili memorie. Tra gli anni 1050 e il 1064 Messignadi viene menzionato in alcuni contratti di compravendite e donazioni stipulati nel territorio di Oppido. Lo storico frate Giovanni Fiore da Cropani (1622-1683) nella sua "Calabria Illustrata" scrive che Mesignade ha avuto origine dalle colonie fuggitive delle città destrutte da' mori”.

IPOTESI LIBERTI

   Rocco Liberti , sulla base dei suoi numerosi e approfonditi studi condotti sugli abitati viciniori a Messignadi, e in particolare nel lavoro  Il Natale di Messignadi in Quaderni Mamertini,( n. 68, aprile 2006, pp.31-35), nonché in varie pubblicazioni precedenti e successive ad esso propende per l’ origine medioevale dell’abitato ( probabilmente XI secolo) ipotizzando una sua possibile emanazione da San Martino come era avvenuto, e come egli stesso ha in buona parte documentato, per l’abitato di Terranova. Lo stesso autore , circa la trasformazioni subite dal nome di questo abitato aggiunge con dovizia di particolari: “se in un vetusto documento del 1188 si trova Mesinido, il Barrio e l'Ughelli hanno riportato Mesinado. Il Marafioti, invece, ch'era di Polistena e, quindi, doveva ben conoscere i luoghi circonvicini, si pronunzia per Mesignade. Gli atti vaticani recano Mesignadi (1544), Misignadi (1614), Messignani (1645) ma nelle relationes ad Limina dei Vescovi è d'uopo leggere Messinnadio (1603), Messignadio (1607), Misignado (1666), ancora Messignadio (1666) e, finalmente Messignadi (1675). Si trovano poi Misignadi, in un atto di vendita del feudo oppidese rogato nel 1611 e Missignadi (1589) e Mesignadi (1614) nei relevi, documenti relativi alle successioni feudali. Nei rogiti dei notai si avverte un nitido Messignadi sin dal 1626. Nel sinodo del Diano Parisio del 1670 c'è Misegnadi e Mesignadi, mentre sulla campana grande della chiesa parrocchiale datata 1588 si rinviene Misignadi…”

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  Sono tutte ipotesi che gettano indubbiamente squarci di luce più o meno apprezzabili su un mistero di difficile soluzione perché non suffragato né da testimonianze archeologiche, sia pur minime, né, come si è potuto vedere, da riferimenti documentari anche indiretti. La gran parte di esse dunque è fondata prevalentemente solo sulla  ricerca etimologica che cerca di svelare origine e significato di un nome ancora avvolto nel mistero e che, a mio sommesso parere, non ha alcuna attinenza con derivazioni antiche greche o latine propriamente dette. L’unica suggestiva interpretazione su un’origine di epoca latina molto tarda, comunque postimperiale, potrebbe essere, come si è osservato, l’interpretazione  Pensabene / Tucci che si fonda sull’idea di un territorio messignadese interessato da forti e ricorrenti migrazioni dagli abitati viciniori per ragioni di sicurezza o forse anche produttive e commerciali. Un territorio in cui nei secoli si sarebbe venuto a creare una sorta di emporio sparso e allargato a cui facevano capo i commerci da e per i centri circonvicini e probabilmente anche verso alcuni centri della costa ionica che avevano facile accesso a questo territorio attraverso gli agevoli passi di cui erano disseminati gli antichissimi tratturi montani e collinari.

    Un fatto quindi  è certo: nella carenza di altre informazioni documentarie e/o archeologiche la ricerca etimologica sull’origine del nome e dell’abitato di Messignadi non solo è obbligatoria, ma è addirittura fondamentale, a condizione che non sia peregrina o addirittura fiabesca e che si fondi su dati di fatto certi e, almeno linguisticamente, incontrovertibili.

     L’unico termine preciso delle lingue antiche che delinea graficamente e semanticamente il nome di cui stiamo trattando è il termine ebraico מבולגן che nella nostra dizione italiana suona con impressionante esattezza “messigna” o “messign” , un aggettivo che, grazie anche al suo suffisso, indica appartenenza a una situazione o a un luogo caratterizzati da elementi edificativi sparsi, non organizzati in un ordine minimo, e che ci rimanda a un contesto abitativo nato e cresciuto in maniera del tutto casuale. E se il nome è inequivocabilmente di origine ebraica, si potrebbe anche affermare con relativa sicurezza che l’identità di questo paese con ogni probabilità si è formata in un contesto socioculturale intriso di ebraismo. Non è peregrino e neanche pretenzioso attribuire questa origine al nome di Messignadi perché abbiamo precedenti illustri: la presenza o l’influenza ebraica sono documentabili in maniera eloquente dalle sopravvivenze etnoantropologiche e da una acuta e seria indagine onomastica e linguistica, come fece Franco Mosino per documentare la presenza ebraica a Bagnara (Franco Mosino: Ricerca sugli Ebrei a Bagnara Calabra in età moderna…il metodo storico-linguistico… in Calabria Sconosciuta n. 93/2002). Molti forse sosterranno che non basta questo metodo e che servono prove archeologiche e documentarie, ma, come osserva Vincenzo Villella,” la prova archeologica serve per confermare non per negare una presenza…” (V. Villella: “Ebrei di Calabria, 2024, pag.318). D’altronde, come afferma Sonia Vivacqua (“Calabria” in L’Ebraismo dell’Italia Meridionale peninsulare dalle origini al 1541 Congedo, Galatina, 1996, p.300) “…per alcune località l’unica attestazione della presenza ebraica è costituita proprio dal toponimo”

     Restringendo il raggio d’azione, si possono dunque delineare alcuni corollari di analisi funzionali a questa nuova e finora inedita ipotesi di lavoro:
 
  La prima riflessione possibile è che l’abitato “ sparso e disordinato ” di cui stiamo trattando, non organizzato in forma urbana ed originatosi probabilmente come emporio agricolo-commerciale equidistante da vari importanti centri interni del territorio della tourma delle Saline, verosimilmente esiste fin dalla prima colonizzazione bizantina e l’abbondante presenza di toponimi di derivazione greca (“Barvini”, “Calivia”, “Cumbuzzuni, “Figurella”, “Fodia”, “ Folìa, “Petti”, “Raci” , “Sciana”, “Viddiu” ) potrebbe esserne una testimonianza. L’intera zona in ogni caso , come affermato dal Liberti, nell’XI secolo potrebbe essere stata popolata o ripopolata ad opera di profughi provenienti da centri vicioniori, plausibilmente da San Martino. Mi permetto di sottolineare in proposito un elemento indicativo che potrebbe avvalorare questa ipotesi: il titolo dato alla Madonna patrona della chiesa di San. Martino “Santa Maria della Colomba” è il medesimo attribuito al distrutto convento domenicano in contrada Filèsi proprio a Messignadi ( Convento di Santa Maria della Palomba), edificato quasi sicuramente su una preesistente cappella rurale recante il medesimo titolo.


     La seconda riflessione comporta però un interrogativo spontaneo che sorge allorquando si prende almeno atto che il nome Messignadi è etimologicamente ebraico. Ci si chiede a ragione se e in quale misura gli ebrei ebbero questa forte attinenza con questo agglomerato rurale e commerciale tanto da imporgli pubblicamente il nome che essi adoperavano per indicarlo e col quale poi è passato alla storia. Le risposte possono essere varie e vanno seguite con attenzione. Trattandosi di un sito a vocazione rurale, pastorale e commerciale ( direi anche finanziaria) sostanzialmente libero, sebbene non esente da gabelle e imposizioni tributarie esose, già nell’epoca del suo ripopolamento, può aver goduto della presenza forte e qualificante dell’elemento ebraico, che nei secoli XII – XV vi si potrebbe essere stabilizzato progressivamente concentrandosi infine in una zona bel delimitata della larghissima area rurale disponibile, e cioè la località ancora oggi chiamata dai vecchi “Timpa” (ribattezzata nel 1998, per impulso della locale scuola media di I grado, “Piazza dell’Amicizia”), quella località che costituiva l’accesso a Messignadi per chi vi arrivasse da Oppidum o comunque dal versante sudoccidentale.

   Non è aleatorio pensare che in questo lungo periodo possa essere nata e stabilizzata la denominazione precisa מקום מבולגן = “ messigna” (+ suffisso ) indicante l’appartenenza della “Timpa” a quel grande “posto sparso” in cui da tempo immemore avvenivano liberamente transazioni commerciali di ogni genere. Un contesto in cui si trafficavano beni originariamente rurali o legati alla pastorizia , di cui beneficiava buona parte della Tourma delle Saline, in condizioni tributarie se non inesistenti, mitigate, agevolate o forse addirittura aggirate dalla mancanza di controlli da parte dei governi delle varie città limitrofe o dallo stesso governo centrale bizantino localizzato a vari chilometri di distanza, esattamente a Oppidum, capitale all’epoca della tourma delle Saline, come accertato dal Gouillou (La theotokos de Hagia Agathe, Città del Vaticano, 1972).

 
   Che esistesse un contesto mercantile e culturale fortemente ebraico all’interno del quale poteva ruotare e fare la propria parte l’emporio di Messignadi è ampiamente documentabile: in una lettera a suo tempo pubblicata da Roberto Bonfil (in Sefer zikkaron le-ha-Rav Yiṣḥaq Nissim, IV, Yad ha-Rav Nissim, Gerusalemme, 1985, pp. 185-204), in cui si discute della kašeruth o legittimità per il consumo ebraico di un vino prodotto da ebrei in una vigna di gentili nella zona di Tropea, al termine della missiva, si chiede se sia meglio fondare un beth ha-midraš, ossia una scuola superiore di studi ebraici, o una sinagoga «a Tropea oppure a Oppido» (Oppido Mamertina). ( Abraham David, Recensione a Cesare Colafemmina, in The Jews in Calabria, Brill, Leiden - Boston 2012; pp. 712) Una notizia importantissima che indica con chiarezza quanto doveva essere importante e grande la comunità ebraiaca che esisteva sul territorio oppidese e su quello circostante. A confermare questa notizia ne giunge poi un’altra: un frammento epigrafico in lingua ebraica, rinvenuto nel 1948 tra le pietre di un muro a secco della vecchia Oppido , attesta appunto la costruzione, o il restauro, di una sinagoga. Il frammento è datato 5156 (= 1395-96 ), un periodo in cui le comunità ebraiche erano in Calabria in ripresa dopo la crisi provocata dagli Angioini alla fine del secolo precedente (Cfr.C. Colafemmina , Gli ebrei nella Calabria meridionale, pp. 170-172.)

    D’altra parte, che il grande territorio all’interno del quale poteva operare l’emporio messignadese fosse intriso di cultura ebraica è testimoniato da alcuni indizi di cui non si può tacere: a brevissima distanza da Messignadi, oltre la fiumara, oggi denominata Mazzi, insisteva ed insiste tutt’ora l’abitato di Tresilico, una delle cui contrade reca ancora il nome di “Judeca”; in territorio di Oppido ( che fino al terremoto del 1783 distava dall’attuale sito di Messignadi, all’incirca appena otto chilometri) è documentata l’esistenza di un “Passo del giudeo”(Liberti: Gli Ebrei nella piana di Terranova - “Alba della Piana”, 2007). Inoltre la presenza ebraica anche in Messignadi rientra ampiamente in un legame profondo esistente tra il Sud e l’ebraismo. G. Lacerenza afferma in proposito che “Scintille ebraiche in Calabria sono più consapevoli di quanto non si creda”(G.Lacerenza: Atti Convegno Int. c/o L’Orientale Napoli, 22/23 novembre 2010). E Cesare Colafemmina non esita ad affermare che “il Meridione d’Italia è stato una delle aiuole più vivaci dell’ebraismo della diaspora”( The Jews in Calabria, op cit. pag. 16).

    La “Timpa”, tra i tanti toponimi messignadesi, molti dei quali di origine neogreca, rimane un luogo ancora oggi particolarmente presente nella tradizione messignadese e la sua denominazione non deriva semplicemente dalla caratteristica orografica del terreno fortemente in declivio verso il “Raci”. Viene spontaneo ricordare che durante il periodo di presenza ebraica in Calabria, mentre nei centri maggiori i quartieri dedicati venivano denominati “Judeche” e si trovavano conglobati entro la cinta muraria urbana, nei centri minori gli stessi quartieri si trovavano fuori o ai margini della città. Gli stessi nei contesti linguisticamente interessati dalla cultura araba, venivano chiamati mellah, melie, melle, mede ( ne abbiamo un'infinità in tantissimi centri dell'attuale Piana di Gioia Tauro) ; nei contesti esenti da volgarizzazioni linguistiche arabe venivano invece chiamate “timpe” e non indicavano, come si diceva, soltanto le caratteristiche orografiche del terreno in declivio su cui sorgevano. Erano invece precisi luoghi deputati ad alcune importanti attività, quali la concia delle pelli, la tintura dei tessuti, la compravendita degli animali di allevamento e lo svolgimento di una gamma impressionante di attività nelle quali le maestranze ebraiche eccellevano: fabbricazione di calzari, di otri, pettini, botti , barili; azioni di sensali, sarti, ferraioli, trafficanti in panni, vino, olio, sapone, latticini, cera, miele.. La “timpa” di Messignadi avrebbe  anche degli illustri ascendenti in tal senso: La " Timpa"  di Benestare; “Il luogo in cui gli ebrei si insediarono a Conflenti Soprano è detto ancora oggi Timpa..."  (V. Villella, op. cit. p. 306). A Nicastro invece esisteva ( ed esiste ancora) il “Timpone” ebraico dove l’abbondanza di acque consentiva lo svolgimento delle attività artigianali di cui s’è detto, sostanzialmente monopolizzate dagli ebrei dimoranti nello stesso luogo.

    Questa plausibile presenza ebraica , peraltro testimoniata anche da molti cognomi di sicura ascendenza ebraica ancora oggi presenti in Messignadi, potrebbe essere stata un fatto reale ed in crescita costante almeno dal XII al VX secolo, periodo maggiore della sua densità. L’ ultimo quarto del Quattrocento vide infatti un significativo aumento della popolazione ebraica calabrese, ulteriormente incrementato verso la fine del secolo dall’arrivo dei rifugiati dalla Spagna nel 1492 e, nell’anno successivo, dalla Sicilia. Poco dopo la situazione degli ebrei iniziò a deteriorarsi finché, nel novembre 1510, Ferdinando d’Aragona emanò il decreto di espulsione anche dal Viceregno per gli ebrei e i neofiti, espulsione poi completata da Carlo V nel 1541. ( Abraham David, ibidem) ;

  
  Cade proprio in questo frangente, nello sbandamento determinato dal decreto espulsivo firmato da  Ferdinando d’Aragona e la necerssità che il maggior numero possibile di questi ebrei, altrimenti costretti a lasciare tutto e a scappare, depauperando di colpo l’economia locale, si convertisse alla fede cattolica, la fondazione del convento domenicano nel 1513 in contrada Filesi a Messignadi. Non è neanche un caso che tale fondazione sia avvenuta quasi certamente su una preesistente piccola struttura religiosa rurale di origine basiliana e sotto l’episcopato di Mons. Bandinello Sauli, vescovo delle diocesi unite di Oppido e Gerace e futuro cardinale fortemente zelante la conversione della popolazione ebraica residente nel Sud al cattolicesimo. La motivazione ufficiale della fondazione di tali conventi, come osservano sia Frascà che lo Zerbi, era quella di soddisfare uno scopo prettamente filantropico: dare un tetto temporaneo ai pellegrini ” in peregrinorum domum et hospitium”, ma il sito del convento in via di fondazione era assolutamente distante dalle rotte seguite dai pellegrini nei loro spostamenti. D’altronde la fondazione di un convento tanto importante sottintendeva almeno altre due ragioni molto più realistiche e abilmente taciute: la necessità di evangelizzazione di un coacervo numeroso di persone che ormai vivevano nel luogo dove esercitavano le loro attività e i loro traffici e la volontà in alto loco di ricorrere alla predicazione per la conversione alla fede cattolica di un numero di mercanti e artigiani ebrei che sicuramente era elevato. Non dimentichiamo che proprio negli stessi anni della fondazione del convento , più precisamente nel primo quarto del XVI secolo, la propaganda antiebraica con accuse di ogni genere raggiunse il suo culmine, tanto da indurre la Santa Sede a promuovere ogni azione di catechesi possibile rivolta agli ebrei, specialmente da parte degli ordini mendicanti, e, in ispecie, dai Domenicani.

    Quanto e come ciascuno di tali possibili scopi sia stato soddisfatto dalla presenza dei Domenicani in Messignadi può essere oggetto di ulteriori indagini, ma già fin d’ora possiamo presumere che essi siano stati onorati dai frati predicatori con grande cura, com’era loro costume. Il convento divenne presto un faro, non solo per i modi e i tempi della possibile conversione al cattolicesimo dell’elemento ebraico presente nel territorio, che ci sfuggono, quanto per l’elevazione sociale e culturale di un territorio fino a quel momento abbandonato a se stesso e che, grazie alla benefica influenza dei frati, andava assumendo lentamente una propria identità. Messignadi iniziava a superare faticosamente quel carattere di disordine e di casualità abitativa, civile e sociale che per molti secoli lo aveva oppresso , in contraddizione con la sua grande e intelligente operosità, ma che, secondo la parlata ebraica, gli aveva anche dato un nome misterioso, rimasto immutato nonostante il terribile sconvolgimento tellurico del 1783 che lo aveva votato all’annientamento insieme a quello del “ suo” convento.

                                                                                                                        Bruno Demasi