domenica 27 gennaio 2019

LE PROFONDE RADICI EBRAICHE SULLE RIVE DELLO STRETTO DI MESSINA

di Felice Delfino
 
 ( Nella Giornata della Memoria, quasi  completamento giusto di essa -  ammesso che la Memoria possa circoscriversi a un solo giorno all'anno -  è doveroso  affidare alla penna del giovane studioso Felice Delfino, decisamente uno dei più  seri e quotati storici dell'Ebraismo nel Meridione della Penisola, una rigorosa quanto commossa rievocazione inedita della sorte degli Ebrei che in passato hanno dato un enorme contributo di civiltà e di cultura alle terre intorno allo stretto di Messina e ai due vasti entroterra.  B. Demasi)
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   Lo Stretto di Messina, nella sua secolare storia, racchiude uno scrigno di memorie e di tesori: avvenimenti storici, epiche battaglie navali, che hanno sancito la fine di alcune dominazioni e l’inizio di nuove ere. Nel variegato sfondo di questa ricchissima cornice riecheggiano anche antichi miti e leggende: il forzuto Ercole che nuota nel tentativo di raggiungere il vitello fuggito dalla mandria di Gerione, da cui il ricordo di questa terra in Vitulia o quello di Italia dal leggendario re Italo della stirpe enotre. Anche gli abissi sottostanti a queste acque sono state i benevoli custodi di numerosi reperti archeologici. I bronzi di Riace o altre ricchezze del panorama culturale locale sono stati rimossi dalle sabbie che li hanno preservati dalla corrosione, altri probabilmente sono ancora presenti ma in attesa di una eventuale scoperta, magari sensazionalistica.
   Indubbiamente, le acque dello Stretto costituirono e rivestono tutt’oggi una funzione preminente: il transito, tra la parte culminante dello stivale e l’isola. Anche la comunicazione marittima tra sponda calabra e sicula fu sicuramente attrattiva per migliaia di mercanti, esploratori, viaggiatori, ambasciatori, soldati, prigionieri di guerra che qui giunsero in circostanze disparate e per ovvie ragioni. Coloro i quali si apprestavano ad attività

di scambio si avvalsero dell’opulento potenziale, istituendo qui empori commerciali, sicuri di ottenere vantaggi, nelle loro finalità prettamente lucrative. Varie etnie si sono succedute e si sono ben radicate nel territorio costiero, trasmesso usanze, culti, lingua: elementi eterogenei spesso antitetici e contrastanti che si sono integrati, metabolizzati e amalgamati perfettamente all’interno della tradizione e nel panorama folkloristico. Aspetti di significativa importanza che hanno condizionato con incisività la vita dei territori limitrofi anche nelle epoche successive. Un’antica tradizione palestinese ricorda come ai tempi del primo re d’Israele Geroboamo, Dio pose una piccola capanna dovente ospitare i profughi della Casa d’Israele in esilio. Questa capanna nell’interpretazione moderna è da individuarsi nel Sud Italia.
   Qui, nel Meridione, la vita degli Ebrei sarà caratterizzata da alterne vicende. Se da un lato furono i garanti di una ingente ricchezza finanziaria e meritevoli di aver monopolizzato il mercato, specialmente quello della seta, dall’altro furono anche denigrati in più occasioni. La fiamma dell’antisemitismo arse per secoli e fu alimentata progressivamente dall’odio, dall’invidia cresciuta “come cattiva erbaccia da estirpare” nel cuore dei cristiani, i quali guardavano con diffidenza e con pregiudizio una religione i cui adepti erano accusati di essere tutti carnefici e responsabili della crocifissione di Gesù. Quegli stessi cristiani che, tra l’altro, avevano notato di essere irrimediabilmente minacciati nei loro affari, dall’abilità di un popolo, come quello ebraico, che si è sempre distinto per impegno, tenacia e valore, non fortuitamente, ma per meriti propri ed evidentissimi. Terribili, feroci, implacabili i capi d’accusa che pendevano ed oscillavano inesorabilmente sulla loro testa come un’affilatissima spada di Damocle: deicidio, strozzinaggio, in particolare, oppure, in altre circostanze, di essere gli untori portatori delle epidemie pestilenziali.
   Tali preconcetti, accrebbero nell’immaginario popolare collettivo, una nomea tanto malvagia ed ingiusta quanto infondata di popolo ostile. Questa distorta visione delle cose, come un velo da rimuovere, teneva celata agli occhi della popolazione cristiana la verità. Certamente non si può negare che i mercanti cristiani furono letteralmente surclassati dai loro antagonisti ebrei più istruiti, abili e capaci. È però innegabile che solo questa indole predisposta al successo economico, accostata ad una maggiore cultura degli ebrei rispetto alla massa dei cristiani, a quel tempo, in massima parte analfabeti, accrebbe ancor più la prosperità sociale, incrementando la disponibilità monetale delle casse dei reali e delle autorità arcivescovili, principali beneficiari di tasse ed erogazioni contributive provenienti dalle comunità giudaiche regnicole.
   Vicissitudini caratterizzanti più o meno la vita di tutte le comunità ebraiche che da tempi remoti, furono dispersi in ogni angolo del pianeta, come ricordano le vetuste fonti dello sconosciuto autore degli Oracoli Sibillini, e dei più noti ed autorevoli storiografi Giuseppe Flavio e Strabone. Gli Ebrei stavano vivendo la loro Diaspora (disseminazione) o il Galut (la deportazione forzata): la Giudea visse momenti drammatici in due particolari periodi storici, con la deportazione Babilonese nel 587 a.C., e nel 70 d.C., quella romana, durante la quale, il generale e futuro imperatore Tito, devastò Gerusalemme e il Tempio, fece incetta del tesoro templare e di schiavi ebrei.
   Le cronache storiche riportano come moltissimi giudei giunsero col titolo servile, a Roma, dove da tempo esisteva un’importante e abbiente comunità giudaica, la più antica; tra il I-II sec. d.C., la diffusione delle comunità ebraiche in tutta la penisola era un fenomeno fervente, capillare e già ben avviato. Si presume che attorno a quelle date, anche le sponde calabro-sicule dello Stretto di Messina ospitassero gruppi di giudei organizzati.
    Nel IV sec d.C., è invece certo uno stanziamento ebraico nel reggino comprovato soprattutto da tre attestazioni archeologiche di identica datazione: il titulus-la lucerna e bollo della Menorah-la sinagoga di
S. Pasquale di Bova Marina. La permanenza fu lunga, almeno fino al XVI sec. e ciò si evince sia dal materiale documentario, sia dai ritrovamenti ricollegabili ad epoche successive al IV. Mi riferisco soprattutto all’epigrafe di Gerace databile alla prima metà del XV secolo e forse dedicata ad una donna ebrea¸ ad Oppido Mamertina l’epigrafe marmorea trovata tra le rovine della parte antica della città e forse risalente al 1395, i frammenti delle anfore vinarie KEAY LII col bollo della Menorah trovate a Lazzaro (ed esposte nell’Antiquarium locale), simili a quelle di Vibo Valentia. A Reggio ci fu una giudecca e non il ghetto. È essenziale operare questa distinzione che è sostanzialmente basata sul fatto che per giudecca s’intende un quartiere aperto, dove gli ebrei optavano liberamente di abitare, il ghetto (il primo comparve a Venezia nel 1516), al contrario, era un quartiere chiuso, cinto da mura e portoni dove la popolazione ebraica era reietta.
   La collocazione topografica della giudecca reggina è stata indicata dallo storico Domenico Spanò-Bolani nella sua “Storia di Reggio”; un documento angioino riferisce inoltre che la sinagoga si trovava al di fuori del quartiere ebraico ma si può solo ipotizzare dove potesse essere collocata, una difficoltà che nasce dal presupposto che la struttura della città è mutata radicalmente rispetto al medioevo, avendo subito più trasformazioni anche e soprattutto nel corso delle ricostruzioni post-terremoto. I toponimi di via Giudecca e di via Aschenez (ricordo del leggendario fondatore della città) costituirebbero solo una parte del quartiere ebraico ben più ampio. Ulteriori elementi toponomastici sono quelli di Judeca, Judeu, Judari, Ebraikè sparsi qua e là anche nella provincia reggina.
     Quando, al tempo dei dominatori normanni, col Concilio Lateranense IV del 1215 (col quale  fu disposto
 per i giudei un segno distintivo) prima, e con le Costituzioni Melfitane, poi (1231), fu data legalmente agli Ebrei l’esclusività del prestito, di contro, negato alla cristianità, essendo attività antitetica ai precetti biblici e alla sfera etico-morale. Ciò accrebbe inevitabilmente il surplus economico-finanziario e le distanze con i cristiani col tempo diventeranno sempre più acute e nette. Le normative contenute nel Liber Augustalis (definizione alternativa alle Costituzioni di Melfi) avevano fissato al 10% il limite che i prestatori ebrei non dovevano per obbligo oltrepassare. Le barriere legislative non avevano però smorzato il morale dei banchieri cristiani che iniziarono ad operare in totale clandestinità, rischiando ovviamente di essere individuati dalle autorità e puniti duramente con gravi sanzioni per il loro esercizio illegale. A Reggio, i banchi di prestito avevano fatto la fortuna degli Ebrei reggini, così come le fiere (i mercati) assai frequentati anche da venditori/compratori orientali o dell’Africa Settentrionale. 
   Un elenco medioevale enumera correttamente e descrive nel dettaglio durata e merce venduta in queste fiere, possibilmente di carattere locale o più cosmopolita, attive a Reggio e nel territorio limitrofo. Il sistema fieristico reggino annoverava, tra i maggiori, i mercati di: San Luca, di San Marco e la fiera franca di agosto (quest’ultima istituita dalla regina angioina Giovanna d’Angiò e dal consorte Luigi per incentivare il mercato serico). Nelle bancarelle esposte, gli Ebrei esibivano merce di grandissimo spessore qualitativo e, oltre ai panni in seta (ricercatissimi i tessuti serici reggini, di Seminara e, per lucentezza, quelli di Sambatello) e alle once traboccanti del prelibato vino reggino e del gustoso olio locale, figuravano anche: panni in lino e cotone, frutta, spezie, alimenti in genere, gioielli, pettini, abiti, Bibbie a stampa e tanto altro ancora. Sia i reggini sia i visitatori, passeggiando tra i banconi, dopo aver ammirato la merce esposta sceglievano i prodotti con grande oculatezza e rispondenti alle loro esigenze; di contro i venditori, si avvalevano della filantropia, dell’arte oratoria, dell’astuzia, per convincere i potenziali compratori a sborsare qualche tarì o altre monete di conio occidentale o orientale. I lauti guadagni conseguiti erano impiegati per l’acquisto di nuova merce, di terreni, di abitazioni o di nuove sinagoghe.
   Chissà se nei banchi di questi mercati, tra le opere a stampa, figuravano copie del Commentario al Pentateuco del RASHI. L’importanza di quest’opera consiste nell’essere la prima scritta in ebraico datata (18 Febbraio 1475); L’opera, nota per fama a moltissimi reggini, fu realizzata dalla tipografia dell’askenazita Abraham ben Garton, il quale, sulla scia della scoperta della stampante a caratteri mobili avvenuta nel 1455 grazie a Johann Gutenberg, lasciò la Germania con la speranza di arricchirsi tramite questa attività già potenzialmente redditizia: fu una scelta assai azzeccata!
   Pur eccellendo nel commercio, gli Ebrei di Reggio, non erano solo mercanti o prestatori di denaro, rivestivano un ruolo di primo piano in ogni settore. Naturalmente, vi erano anche Ebrei medici tra cui primeggiava su tutti Shabbetai Donnolo (la prima donna medico ebrea fu invece donna Cusina), ma anche possidenti terrieri e coltivatori. Un atto di proprietà riferibile al 1796 fa riferimento ad un campo di cedri sito nella località Santa Caterina del Trivio, appartenente ad una ebrea, probabilmente una discendente di neoconvertiti. Il cedro nella Torah è ricordato come “il frutto dell’albero dal bell’aspetto” che Dio indicò a Mosè e da usare in una festa sacra al popolo ebraico, ”La Festa delle Capanne”. Il cedro calabrese è rinomato e ben noto al mondo ebraico; nel periodo antecedente la festa, i rabbini di varie comunità mondiali, si dirigono nella lunga fascia costiera della Riviera del Cedro, nel cosentino, per raccogliere i frutti adatti alla funzione liturgica.
   Nel 1492 con l’editto dell' Alhambra, la comunità ebraica di Reggio deve affrontare un serio problema: l’integrazione nella città dei profughi sefarditi e siciliani. Anche se i rapporti tra gli ebrei reggini e i loro adelfoi
messinesi e siciliani in genere erano ottimi, bisognava trovare una soluzione, ma ciò non era semplice dato che il loro numero era considerevole e che tra essi vi erano diversi poveri e disoccupati. Comunque sia, pare che quelli di provenienza sicula non siano stati inglobati all’interno del quartiere reggino, ma che abbiano costituito una giudecca a sé, denominata negli atti col titolo di “Iudeca de lo Siciliani”. Ignota la durata della loro permanenza data la richiesta di indirizzare gli indigenti in altre giudecche calabresi o meridionali.
    Nel periodo antecedente all’espulsione ebraica siciliana, sull’isola sorgevano 52 centri, come dimostrano i documenti della Regia Cancelleria. La ricostruzione insediativa è qui possibile avvalendoci della pluralità delle fonti. Tra le fonti scritte: Plutarco ricorda il processo di Cicerone Contro Verre (governatore in Sicilia negli anni 73-72 a.C.); un testo probabilmente apocrifo menziona l’episodio del I d.C. dell’uccisione del vescovo di Siracusa Marciano ad opera di Giudei; le Epistole di Papa Gregorio Magno, colui che insieme ad un altro Sommo Pontefice, Alessandro III, si oppose con tenacia e fermezza alle conversioni forzate ottenute con coercizione e con violenza. Le fonti archeologiche comprendono invece diverse epigrafi (la più antica è quella di Catania del 383), il mattone fittile con l’incisione della Menorah rinvenuto presso l’Antiquarium del teatro greco di Taormina, il gioiello di Comiso, lucerne ad olio ebraiche come quelle della Grotta del Carciofo nella Val di Noto e tanti altri. Così come in Calabria e in tutto il resto dell’Italia Meridionale, anche in terra sicula una traccia del passaggio giudaico si riscontra nei nomi di vecchi quartieri, vie, rioni oppure in alcuni cognomi di chiara matrice ebraica: a Messina vi è Pozzo del Giudeo; a Taormina abbiamo via del Ghetto, Traversa degli Ebrei; a Palermo vicolo Meschita, la Contrada Iudaica di Santa Lucia (vicino Milazzo) per fare alcuni esempi.
 L’editto dell’ Alhambra, oltre all’allontanamento degli  Ebrei e dei moriscos dalla Spagna, comporta anche
altro: lo studio della Kabbalah da esclusiva privata e riservata a circoli d’ élite, diventa pubblico e a contatto col cristianesimo si fonde con elementi tipici dell’Escatologia cristiana. Lo stesso termine kabbalah presente nel linguaggio talmudico e post-talmudico indicava inizialmente parti di testi biblici o della Torah orale, ma a partire dal XII secolo indicherà la mistica e l’esoterismo ebraico, con le scuola provenzale di Isacco il cieco e quella sefardita di Isaac Luria. Il maggiore esponente della scuola luriana era Hayym Vital Calabrese, nato a Safed, da genitori calabresi. Hayym aveva avuto l’onore di mettere per iscritto la dottrina del suo maestro come si evince nelle sue opere Ez-ha-Da’at ed Ez-ha-Hayym. Anche suo figlio e suo nipote si distinsero nello studio cabalistico.
    Restando sul campo culturale vediamo una inequivocabile influenza ebraica nelle tradizioni calabro-sicule. Alcune di esse trasmesse in eredità dai genitori ai figli, pur perdendo il loro contenuto religioso, hanno resistito al tempo e ai mutamenti sociali, essendo ancora perpetuate. Tra le tante, cito: l’uso di accendere le candele il venerdì sera che ricorda l’usanza ebraica del saluto allo Shabbat. Nel dialetto calabro-siculo invece ci sono tracce linguistiche di antisemitismo come lascia intendere l’espressione “Si n’ebbreu” o “Sii peggiu i’ n’ebbreu” indicative, ingiustamente, di una persona strozzina e malvagia.
   Anche alcune vecchie tradizioni religiose siciliane conservavano questa immagine di persone cattive o peggio ancora assassine. A Marsala, prima del Quattrocento, durante la festa di Santo Stefano Protomartire, gli Ebrei locali venivano portati in chiesa dai cristiani e alla fine della Messa erano presi a sassate, per controbilanciare quello che i loro antenati avevano fatto a Santo Stefano. A Messina, come commemora l’epigrafe oramai illeggibile del Duomo, si racconta invece di un bambino cristiano crocifisso e gettato in un pozzo da alcuni assassini giudei, poi puniti con la morte e, del sangue della piccola vittima miracolosamente sgorgato fuori dal pozzo. Nonostante l’espulsione degli Ebrei siciliani del 1492, queste memorie sono ancora vive e conosciute da abitanti locali dalla fascia più anziana della popolazione.
   Come sappiamo, gli Ebrei dell’Isola non furono gli unici a dover patire tale ingiusta sorte. Qualche anno più tardi fine identica spetterà anche agli Ebrei meridionali in forza, prima, dell’editto di espulsione decretato dal re Ferdinando il Cattolico nel 1510, messo in atto nel 1511. L’editto non fu quello definitivo perché un regresso economico provocato dalla loro assenza spinse la casa reale ad reintegrali più tardi. Carlo V, nel 1540/41 sancì col successivo editto l’allontanamento definitivo.
    Gli Ebrei del Regno, come successo anche ai siciliani e ai sefarditi, in entrambe le occasioni, si trovarono di fronte ad un bivio, una scelta problematica: convertirsi al cristianesimo od abbandonare definitivamente le terre ospitanti, dove erano giunti secoli addietro i loro padri. Chi optò per la prima scelta (conversione) non lo fece, com’è comprensibile, per motivi di fede autentica, ma perché era l’unica possibilità per scongiurare l’inevitabile espulsione che avrebbe conseguenzialmente comportato la perdita di lavoro, casa, proprietà, altri beni mobili o immobili, amici, la vita fino a quel momento vissuta, insomma.
    Tra i neoconvertiti si svilupparono forme di cripto-giudaismo. Molti neofiti, non riuscendo a fare a meno del proprio credo e dei propri riti, giudaizzavano in gran segreto, naturalmente con prudenza, per sfuggire alla terribile opera dei frati Inquisitori: li avrebbero prontamente catturati, processati e condannati ad ardere nelle fiamme, terribile sorte comune a tutti gli eretici.
    Coloro i quali andarono via col volto triste e col cuore malinconico, si lasciarono alle spalle i ricordi legati a quelle terre dove avevano svolto i principali momenti della loro vita sociale e religiosa, con la celebrazione delle feste, il rispetto del riposo sabbatico, la pratica della circoncisione e tutti riti e le azioni prescritti dai libri sacri.
   Voglio concludere con una considerazione: riflettiamo un attimo e utilizziamo la nostra immaginazione facendo una ucronia: cosa mai sarebbe accaduto se nel XVI secolo gli Ebrei reggini e messinesi e gli altri dislocati altrove non fossero mai stati allontanati dalle città o dai paesi nei quali avevano a lungo dimorato? Quale sarebbe stata la condizione dell’economia meridionale nei secoli a venire se l’editto non fosse mai stato emanato? Certamente c’è da dire che l’economia, con la partenza dei nuclei giudaici, non crollò, ma si trasformò anche a causa delle mutate esigenze di mercato.
 
  Fu di sicuro l’Unità d’Italia a creare l’impoverimento economico del Meridione, dunque l’allontanamento ebraico in tal senso non avrebbe inciso… ma, chissà…, se la storia avesse intrapreso strade diverse, se il normale corso degli eventi fosse stato deviato e dirottato verso vie alternative, sarebbe stata di sicuro tutta un’altra storia!

martedì 8 gennaio 2019

L'ASTRAGALO E GLI OSSICINI (di Tonino Polistina)

di Tonino Polistina

    Altri tempi quelli nei quali la Rai era  un vero servizio pubblico , vale a dire pagato dalla gente, e assolveva egregiamente al proprio ruolo che era anche pedagogico oltre che culturale in senso ampio. Passati pochi decenni, il servizio  è diventato terra di nessuno e feudo di tutti, ma continua ad essere pagato dalla gente più di prima, addirittura in simbiosi con le bollette dell'energia elettrica. Senza alcun valore didascalico, senza alcuna valenza pedagogica, come quella descritta amabilmente e con estremo rigore giornalistico in questo inedito  e significativo  scritto scritto di memorie di  Tonino Polistina (Bruno Demasi)

    Una piovosa mattina del novembre 1969, durante l´ora di italiano, venne a trovarci in classe il canonico Giuseppe Pignataro. Io frequentavo la III media, la mia era la sezione A, si arrivava fino alla sezione D, eravamo giá nel nuovo istituto di corso Aspromonte ed era il mio primo anno scuola media lontano dal seminario. Conoscevo bene questo sacerdote, sia per i trascorsi da previtocciolo sia perché ogni tanto,in sostituzione del canonico Armino, veniva a celebrerare nella chiesa dell´Abbazia il rito della benedizione serale. Stando spesso a casa di nonna Nicolina, che abitava proprio di fronte alla chiesa, era d´obbligo alle sei di tutti i santi giorni, sospendere i giochi che si facevano nel piccolo piazzale antistante la casa e recarsi in chiesa per la recita del rosario e della benedizione. Era una pausa della durata di mezz´ora, non di piú, ma é facile immaginare quanta gioia ci procurava quella interruzione per andare a recitare ave Maria e gloria al Padre o cantare il Tantum Ergo. Comunque era cosí e c´era poco da protestare.
   Dunque quella mattina il canonico Pignataro venne a trovarci per una notizia per me inimmaginabile e che mi riempì di gioia e di grandi aspettative.
    Ci disse il canonico che da li a qualche mese, presumibilmente in primavera, una troupe della Rai sarebbe venuta ad Oppido per fare un servizio che sarebbe andato in onda nella trasmissione piú seguita da noi adolescenti: la Tv dei ragazzi. Il programma, creato con scopi chiaramente pedagogici, veniva trasmesso, rigorosamente in bianco e nero dal primo canale ed era un contenitore di generi vari . Andava in onda dalle 17 alle 18, dal lunedí al sabato, ed era fatto di cartoni animati, Braccobaldo show il piú famoso; telefilm americani, Rintin tin, Bonanza, Zorro, Lassie; serie italiane come “Giovanna, la nonna del corsaro nero",e poi ancora i cortometraggi comici con Stanlio e Olio, Charlot, Buster Kaeton, per finire il sabato con il gioco a quiz Chissá chi lo sá. Rientrava nella tv dei ragazzi,una volta l´anno, Lo Zecchino d´Oro, gara canora per bambini che per ascolti sfidava il festival di Sanremo.Ecco era questa la nostra tv, un appuntamento quotidiano imperdibile, rigorosamente in bianco e nero,che riusciva per quei sessanta minuti a spopolare in parte la piazzetta, fino a quell´ora piena di mocciosi vocianti che si rincorrevano . Dico in parte perché negli anni 60 non tutti avevano la televisione in casa. Io ero tra quelli ma avevo la fortuna di avere uno dei compagni di gioco e di classe che la possedeva, Enzo Audino, e che abitava a dieci metri da casa mia. Quindi tutti i pomeriggi, ero ospite fisso a casa Audino e insieme agli due fratelli di Enzo, Sasá e Marcello, di un paio d´anni piú piccoli, dopo aver fatto merenda con un paio di salutari fette di pane e olio, venivamo rapiti da Topo Gigio e da mago Zurlí.
   Quella mattina, dunque, il canonico Pignataro mettendoci al corrente della novitá ci diede altri ragguagli. Il programma aveva come tema la riscoperta dei giochi di una volta, i giochi dimenticati, quelli che verosimilmente praticavano i nostri genitori e che nel tempo si erano persi. Ci disse anche che tutte le regioni italiane sarebbero state rappresentate e che per l´appunto Oppido era stata scelta per rappresentare la Calabria. Infine lui, il canonico, aveva pensato anche al gioco da riscoprire: l´astragalo, in dialetto “ u vizzari “. Era la prima volta che sentivo quel nome e come me anche i mie compagni di classe. Ma il canonico, vedendo quegli sguardi interrogativi ci venne incontro fugando ogni dubbio. “ Il vizzari “ - ci disse – non é altro che un ossicino del ginocchio del capretto ed ha quattro facce. I vostri genitori, oltre che giocare a calcio con la palla di pezza o al pilorgio e al gattuzzo, giocavano anche al vizzari, anzi era uno dei giochi piú diffusi. Oggi, invece, nessuno se lo ricorda piú. Ecco io vorrei che vi faceste insegnare dai vostri genitori come si gioca al vizzari e cosí quando verranno quelli della Rai voi sarete in grado di riproporre questo gioco ormai scomparso.Vi diró anche – continuó – che se andrete dal vostro macellaio a chiedere di estrarre e conservarvi un vizzari lui sará ben felice di farlo, ricordandosi di quando lo custodiva per i vostri genitori “.
   Uscito il canonico, la classe entró in subbuglio. Tutti a parlare dell´astragalo e, soprattutto, del fatto che saremmo finiti in televisione, nella tv dei ragazzi.

    Inutile dire che era tanta e tale l´agitazione che per alcune notti, non chiusi occhio. E per alcuni giorni non pensai ad altro. La prima cosa da fare era recuperare un vizzari ed imparare a giocare. Non fu difficile. Ciccio Ripepi, macellaio, era il fratello di mia nonna Nicolina ed avere prima degli altri l´ormai mitico osso fu un gioco da ragazzi. Anche impare il gioco fu abbastanza facile ed in questo mio padre mi fu d´aiuto. L´osso, nella fantasia dei ragazzi che in mancanza d´altro si erano inventati il passatempo, aveva quattro facce. Ad ogni faccia avevano dato un nome. Una era il re, la seconda mazza, la terza corpa e la quarta nulla. Si tirava a turno a mo’ di lancio del dado e a seconda del verso in cui l´osso si posizionava, il lanciatore assumeva il ruolo. A corredo del gioco vi era un fazzoletto con un grosso nodo in cima: serviva per la punizione. Il re decideva quanti colpi bisognava dare a chi aveva preso il lato “ corpa “, mazza eseguiva e nulla stava a guardare. Era sempre il re a decidere la punizione che consisteva in un determinato numero di colpi sul palmo della mano dell´avversario che peró poteva rifarsi subito dopo se lo scettro fosse toccato a lui. I colpi potevano essere dieci, venti o trenta a seconda della bontá del re. Dopodiché il gioco ricominciava e si andava avanti fino a quando non sopraggiungeva la noia e la voglia di cambiare.
   Qualche settimana dopo sapevo tutto o quasi sul “vizzari”. Avevo spulciato alcune enciclopedie e scoperto che quello degli astragali era un gioco nato probabilmente in Asia Minore e diffusosi in Grecia. Da li il gioco era passato alla Magna Grecia e poi a Roma conservandosi fino ai primi del 900.Numerose erano le varianti ed i modi di giocare e quello arrivato in Calabria era, forse, il piú cruento.
   Con tutte le informazioni in mano avevo preparato una breve relazione che, pensavo, poteva tornarmi utile durante le riprese.
   Devo dire che i compagni di classe, passato l´entusiasmo dei primi giorni, presero sottogamba la cosa e dopo qualche settimana si dimenticarono della Rai e del vizzari e tornarono alle abituali occupazioni. Lo stesso non fecero le ragazze delle altre terze(non c´erano ancora le classi miste),che non presero sottogamba la cosa anzi, pur sapendo che quello dell´astragalo era un gioco per maschi, almeno cosí ci avevano detto gli anziani ,sotto la spinta della professoressa Anna Conte si informarono talmente bene da diventare poi le protagoniste del programma.
   Intanto passavano i giorni, passavano i mesi e di questi della Rai nessuna notizia. Avevo perso ogni speranza quando, un giorno del mese di maggio, il solito canonico girando per le classi ci diede la grande notizia: “ Ragazzi la prossima settimana arriva la Rai. Resteranno ad Oppido per una settimana per girare il programma sull´astragalo. Siete pronti “?
   Pronti? Prontissimi, direi. O meglio i pronti eravamo io e Andrea Spina. Gli altri non ci avevano creduto piú di tanto e si erano autoesclusi. C´erano peró le ragazze e con loro bisognava entrare in competizione.

    Arrivarono una decina di persone con auto e furgoni, una cosa mai vista in cittá dai tempi della tragedia del ferragosto 66. Per una trasmissione che sarebbe durata una decina di minuti si era presentato un mezzo esercito. Quanti ne servono oggigiorno per girare una fiction in piú puntate. Ma allora era cosí. Si registrava in pellicola ed era come girare un film. Ricordo i preparativi nei due, tre posti dove si sono svolte le riprese. Era un vero e proprio set cinematografico e bisognava comportarsi come dei veri attori. La produzione aveva individuato i luoghi dove sarebbero avvenute le riprese: in campagna, nel giardino della villa del Commendatore Mazzitelli e in un angolo di strada nei pressi della scuola elementare, proprio di fronte al costruendo cinema teatro. Ogni scena aveva bisogno della sua luce e in ogni set si giravano piú volte le stesse scene. In sede di montaggio avrebbero scelto la migliore. C´era il regista, con la sua immancabile poltrona e c´era l´omino del ciack: “ l´astragalo e gli ossicini” - gridava – “scena terza”.
   Vi erano poi i tecnici del suono che registravano le nostre voci in presa diretta con un microfono attaccato ad una lunga asta: la mitica giraffa. Gli operatori, con le loro enormi macchine da presa fissate su enormi cavalletti di legno. Insomma fu una settimana di una intensitá straordinaria e per me, che sognavo la televisione di notte e di giorno, furono sette giorni di gioia incontenibile. Una gioia che sarebbe continuata nell´attesa di potermi rivedere in tv e insieme a me rivedere i miei amici e la mia cittá. Ecco era piú forte l´attesa di vedere Oppido in televisione che quella di rivedere me stesso.
    Qualche tempo dopo, ad annunciare il programma fu il RadiocorriereTv, il periodico della Rai che conteneva i programmi televisivi della settimana ed i servizi che ad essi venivano dedicati. Vi era, naturalmente, anche Uno alla Luna con un paio di foto di noi ragazzi mentre giocavamo. La puntata era stata intitolata L´Astragalo e gli Ossicini.
   Superfluo dire che quando arrivó il grande giorno il paese era tutto davanti alla tv. In giro non c´era un´anima, come per una finale della nazionale di calcio. Io vidi la trasmissione insieme ad Andrea in casa di amici comuni, compagni di classe, che non avendo creduto fin dall´inizio a quanto il canonico Pignataro ci aveva annunciato, ora soffrivano maledettamente a non vedersi in televisione.
    Fu una giornata storica, sia per Oppido che per noi piccoli protagonisti, osannati dalla gente e complimentati per quello che avevamo fatto e detto.