lunedì 20 ottobre 2025

Viaggiatori in Calabria nel sec. XIX: ASTOLPHE DE COUSTINE (1812) ( di Rocco Liberti)

    Continua su queste pagine l’excursus inedito e avvincente di Rocco Liberti sui viaggiatori stranieri che nell’Ottocento predilessero l’attuale Calabria quale scenario variegato e imprevedibile per le loro annotazioni e le loro osservazioni. Stavolta non si tratta di un militare di carriera di stanza in questo territorio, ma di un viaggiatore propriamente detto, che pur proveniente dalla Francia, non ha nulla da invidiare ai dandys inglesi che nello stesso periodo si dedicavano ai loro gran tours aventi come meta peculiare il sud della Penisola. A De Coustine si devono comunque notizie di prima mano non solo sulle caratteristiche del paesaggio calabrese, in particolare Palmi e quella che oggi viene definita “Costa Viola”, ma anche sulla società del tempo e sul singolare ruolo femminile all’interno di tale contesto. Una pagina che vale la pena di leggere con attenzione per scoprirvi inedite visioni della nostra realtà meridionale che vengono opportunamente messe in risalto dall'abituale acume di Rocco Liberti e che, pur risalenti a due secoli fa, mantengono tratti imprevedibili di modernità.( Bruno Demasi)

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   In sequenza ai tanti militari di carriera pervenuti in Calabria nel decennio precedente, ecco finalmente un autentico turista con la brama d’intraprendere, come altri prima di lui, un’escursione in una zona, nella quale i miti greci e quelli romantici del brigantaggio facevano sempre grande presa. Il marchese Adolphe De Custine, un francese che acquisterà notevole fama per i suoi vagabondaggi per l’Europa, è arrivato in Calabria a Castrovillari il 23 maggio del 1812 e nella regione si è trattenuto insino al 5 luglio.

    Nato in Lorena nel 1790, è deceduto a Parigi nel 1857. Amante del girovagare, finiti sotto la ghigliottina il nonno e il padre, con la madre e i di lei amanti si è mosso per l’Europa. Omosessuale, ha coltivato amicizie sia maschili che femminili e talvolta ha meditato il suicidio. Ha lasciato pubblicazioni di viaggi - è noto il “Viaggio in Russia” - romanzi e poesie e anche lui non è uscito dagli schemi scontati dell’epoca in merito al giudizio sulla Calabria. In un iniziale lavoro ha infatti: «La Calabria assomiglia a tutto fuorché all’Italia», mentre in un secondo: «La Calabria è un vero mosaico, un abito d’Arlecchino, dove ogni piccola comunità ha mantenuto il suo colore locale, il suo carattere primitivo senza essere confusa con i suoi vicini».

    Il 25 maggio 1812 De Custine è stato a Lungro e per questo paese e relativo territorio non ha mancato di porre l’attenzione, com’era naturale, alle miniere di sale e agli Albanesi. Il 27 si è spostato a Cosenza e da qui, via Paola, ha percorso la costa fino a Palmi. In tale cittadina è giunto alle 9 di sera del 9 giugno provenendo dalla plaga tropeana e la sua visione e quella degli immediati dintorni lo hanno letteralmente mandato in estasi.

     Di seguito quanto ha sentito di esprimere in un’occasione, ma di occasioni se ne sono verificate più di una: «giardini profumati e la graziosa cittadina di Palmi, ai piedi di un’enorme roccia, quasi interamente nascosta sotto un bosco di castagni, completavano il quadro più dolce, più ricco, più pomposo che abbia mai catturato l’immaginazione di un pittore! I colori di un clima caldo gettato su questa scena, nel momento in cui la giornata stava per finire, mi hanno reso l’effetto di una visione. Ero di marmo, insensibile, lo stupore, l’ammirazione mi avevano sopraffatto! Non proverò più ciò che ho sentito questa sera: la sorpresa è stata parecchia; ed ora in poi è impossibile, finché vivrò, ricorderò con riconoscenza, con affetto le meraviglie della prima notte che ho visto nell’arrivare a Palmi … Ciò che ho provato è stato più che la vita. La mia anima era pervenuta alla mèta senza essere passata per la morte!». In altra addirittura dirà che
«Napoli e le sue meraviglie sono tristi rispetto a Palmi! Non c’è punto afflizione, mania, malinconia, malattia dell’anima che possa resistere alla vista di questo Eliseo, di questo paradiso terrestre». Non solo, ma, mettendo in paragone Scilla e Palmi, eleverà di molto la bellezza di quest’ultima: la posizione di Scilla è «meno ridente e meno bella di quella di Palmi. Palmi mi ha riempito di ogni cosa e d’ora in poi penserò a questo luogo come si rimpiange qualcuno»
. Alquanto lusinghiera questa dichiarazione finale[I1.

    Oltrepassate Bagnara e Scilla, De Custine si è poi trasferito a Reggio, dove è rimasto dal 14 al 23 giugno. Il 23 sarà ancora a Palmi via mare e salirà a piedi l’erta che dall’insenatura marina conduce ad essa. Ripreso il cammino il giorno seguente, pur costretto a spostarsi di qua e di là per trovare la strada, si è portato a Casalnuovo. Così riferisce in proposito: «alla fine di sei ore di marcia attraverso foreste d’ulivi e villaggi pittoreschi, arrivammo a Casal-Nuovo, piccola città situata ai piedi del monte Moleti, vicino all’Aspromonte». Eccolo di poi a Gerace, definita «mucchio di macerie». In essa si è dato al passeggio in compagnia del vicario del vescovo e di tre o quattro sacerdoti, che afferma: «mi sembravano i preti dei Racconti di La Fontaine o di Boccaccio». 

  Da Gerace discesa sul litorale ionico e arrivo a Rucello (Roccella) e Stilo, sulla quale così si sofferma: è «arroccato all’altezza del nido dell’aquila, senza sentieri, senza commercio, quasi senza terra, dimenticato dalla civiltà moderna, sul versante meridionale dell’Aspromonte». Via per Catanzaro, Rogliano, Cosenza e Tarsia. Per l’antica capitale dei Bruzi siffattamente tiene ad esprimersi: «ho provato un timore del quale mi ricorderò a lungo». Dopo Catanzaro, il 5 luglio si è fatto sotto a Castrovillari, dove ha dovuto trattenervisi in attesa di una carrozza che potesse trasferirlo a Napoli[2]

   Nell’opera di De Custine riescono numerosi i particolari degni di nota in riferimento allo spostamento da un centro all’altro e alla loro descrizione, ma essa risulta ricca non soltanto di specifiche notazioni sull’aspetto fisico di paesi e contrade, anche di considerazioni sulla società. Non potendoci attardare su ogni aspetto, ci limitiamo a officiarne almeno due, il clima e la donna. Scrive sul primo: «una delle peculiarità della Calabria è la diversità dei suoi climi: vi arrampicate per cento piedi, superate una catena di colline, fate una lega, girate un promontorio, avete cambiato latitudine. Gli stranieri non possono credere a così tanta variabilità di temperatura nello stesso territorio. Sono abituato a viaggiare senza prendere alcuna precauzione; ma in Calabria mi sono pentito spesso di non avere un cappotto, poiché il passaggio dal freddo al caldo, dall’estate all’inverno è improvviso e frequente. D’estate c’è più bisogno di coprirsi al sud che al nord». E sull’altro: «le donne quasi non si vedono, rimangono rinchiuse tutto il giorno, e non escono che di notte. Tuttavia, abbiamo cenato una volta con la bella figlia del nostro ospite, che è uno dei personaggi più ricchi della città. Sua nuora è una giovane donna, molto candida e molto carina, la cui sensibilità non mi è sembrata esagerata. Essa non ha tratti così delicati come molti altri italiani. Ha schiacciato il suo cane in una porta, e mentre il corpo sanguinante del povero animale veniva portato via, la signora, che stava conversando, ha girato soltanto la testa per chiedere cosa stesse succedendo. Potrei sbagliarmi, ma preferirei meglio essere suo figlio o suo marito piuttosto che il suo cane»[3].

     De Custine ha inserito le sue impressioni calabresi in “Lettres ecrites à diverses époques pendant des courses en Suisse, en Calabre, en Angleterre et en Ecosse”, edita a Parigi nel 1830 dalle Edizioni Vézard e uscita in contemporanea a Louvain chez F. Michel, Imprimeur-libraire de l’Universitè. La parte riguardante la Calabria tradotta in lingua italiana è apparsa inizialmente nel 1979 a Palermo presso Flaccovio a cura di Anna Maria Rubino Campini. La stessa però aveva già nel 1968 prodotto uno studio sul viaggiatore d’oltralpe e sui suoi viaggi. Si tratta di “Alla ricerca di Astolphe De Custine-Sei studi con documenti inediti” (Roma 1968, Edizioni di Storia e Letteratura, “Quaderni di cultura francese a cura della Fondazione Primoli”). Nel 1983 le Lettere sono state pubblicate a Diamante, quindi nel 2008 c’è stata l’edizione Rubbettino con la traduzione di Carlo Carlino. Quest’ultima è abbastanza accettabile, ma sovente il traduttore abbandona la costruzione letterale incappando a volte in evidenti errori. 
Rocco Liberti
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[1] Astolphe De Custine, Lettres ecrites à diverses époques pendant des courses en Suisse, en Calabre, en Angleterre et en Ecosse, Paris, Ed. Vézard 1830, tome I, pp. 306, 326, 381-382, 383, 398, trad. dal francese; Id., Lettere dalla Calabria, trad. di Carlo Carlino, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, passim. Un’interessante saggio sulla figura di De Custine e le sue peregrinazioni è stato dato alle stampe da Anna Maria Rubino. È “Alla ricerca di Astolphe De Custine-Sei studi con documenti inediti”, Roma 1968, Edizioni di Storia e Letteratura, “Quaderni di cultura francese a cura della Fondazione Primoli”. 
[2] De Custine, Lettres ecrites…, tome II, pp. 22, 25, 38, trad. Dal francese. 
[3] De Custine, Lettres ecrites…, tome I, pp. 408, 417.

sabato 11 ottobre 2025

DALLA DRAMMATICA FINE DI OPPIDO VECCHIO ALL’INCREDIBILE NASCITA DELLA NUOVA CITTA’ ( di Rocco Liberti e Bruno Demasi)


    In occasione delle giornate FAI d’autunno 2025 che vedono una nuova attenzioone verso quell’unicum urbanistico, architettonico e culturale costituito dal nuovo abitato di Oppido Mamertina viene qui pubblicato un breve studio a quattro mani ( già fornito al Comune  oppidese quale contributo di idee per il progetto “New Town”), che documenta il grande travaglio attraverso cui dopo il tremendo sisma del 5 febbraio 1783, in pieno inverno, con urgenza di impegno e senza molti mezzi si diede vita a un’impresa a dir poco eroica, quella di costruire ex novo a non poca distanza della città letteralmente distrutta dal terremoto un nuovo insediamento urbano che rispettasse tutti i canoni non solo della sicurezza e della salubrità, ma anche quelli della bellezza e dell'unicità nel ricordo dell' antichissima  tradizione storica, religiosa e culturale di Oppidum..
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      Dalla “Pianta Generale dei laghi” prodotti nel territorio oppidese, allegata all”Istoria dei tremuoti avvenuti nella Provincia di Calabria Ulteriore e nella città di Messina dell’anno 1783…” di Giovanni Vivenzio, si evince con chiarezza che il sito della vecchia Oppido, distrutta completamente dal sisma dello stesso anno, e quello della nuova, pur distando tra loro pochi chilometri in linea d’aria, appaiono di fatto molto più lontani perché divisi da ben due vallate solcate da altrettanti torrenti, dissestate e rese paludose dal sommovimento tellurico, dalle neoformazioni di laghi e stagni di ogni genere , addirittura quasi impraticabili e impercorribili per i crolli che cancellarono persino ogni via di collegamento.

    Come accennano le cronistorie oppidesi di Candido Zerbi (Della città, chiesa e diocesi di Oppido) e Vincenzo Frascà (Oppido Mamertina: Riassunto cronistorico) e soprattutto come documenta Rocco Liberti a più riprese ( cfr., tra l’altro. “Quaderni Mamertini” nn. 51,78 e 83) con ampie e approfondite ricerche di prima mano da lui condotte sulla nascita e lo sviluppo del nuovo abitato, fu questo il motivo sostanziale per cui molti tra i superstiti della città distrutta si ribellarono al trasferimento coatto in un una nuova città. Infatti, all’indomani del disastro, il generale Francesco Pignatelli, inviato dai sovrani borbonici a governare la ricostruzione, il suo braccio destro Micheroux, ma soprattutto i due ingegneri Winspeare e La Vega, al suo seguito, aderendo anche al suggerimento del nobiluomo oppidese, Marcello Grillo, seguito a ruota da tanti altri notabili del luogo, optarono per la radicale costruzione della città in una nuovo sito distante da quello distrutto, ma molto più ampio, salùbre e favorevole ad uno sviluppo urbano modernamente concepito. Scriveva in proposito il Pignatelli: “ Il colle su cui poggiava la città si fonde in varij siti, cadendone de’ pezzi nelle sottoposte Valli e rimanendone in alcuni luoghi la base obliqua al di dentro e la cima posta in fuori…”, facendo chiaramente intendere che ricostruire la città nel luogo in cui era stata distrutta sarebbe stata impresa assurda oltre che impossibile anche se, per i superstiti, la scelta di fondare un nuovo paese in contrada La Tuba appariva inaccettabile in quanto tale sito veniva considerato a una distanza notevole ingigantita non solo dai motivi che ne rendevano molto difficoltoso il raggiungimento, ma anche dalla preoccupazione di dover lasciare i poderi coltivati in prossimità del paese distrutto per spostarsi a vivere in un nuovo insediamento a molti ancora pressochè sconosciuto.

    Di questo grande travaglio nel passaggio dalla vecchia alla nuova città furono dunque testimoni diretti lo stesso Pignatelli, il Micheroux, ma anche gli stessi Winspeare e La Vega, che avevano eletto a base principale per i loro spostamenti continui sul territorio della Piana di Palmi devastato dal terremoto proprio la contrada La Tuba di Oppido, da dove partivano molte delle loro corrispondenze epistolari connesse alla progettazione e alla riedificazione di tanti abitati circonvicini. In proposito essi scrivevano: “…il luogo della Tuba è fornito della condizione principalmente necessaria alla sede di una popolazione, quali sono l’aria, l’acqua ed i boschi; avremmo soltando desiderato che minore fosse stata la di lui distanza dall’antica Città; ed in terreno inculto o di seminati, e non già d’oliveti; ma per quanto siasi da noi riconosciuto l’adiacente territorio, non aviamo ritrovato luogo, che o non conservasse recenti segni del crollamento sofferto o non fosse privo di alcune delle espressate necessarie condizioni. Quindi abbiamo creduto dovere divenire alla scelta suddetta…”

     Tra le incombenze della ricostruzione di molti abitati della Piana colpiti dal terremoto, l’edificazione di sana pianta della nuova Oppido , per la sua peculiarità, appariva subito come un’impresa colossale e richiedeva il massimo sforzo, ma al contempo esaltava la professionalità dei due ingegneri per vari ordini di motivi che potrebbero essere così sintetizzati:

· la decisione irrinunciabile di costruire ex novo una gloriosa città da sempre posta sul crinale angusto di una collina , ora scarnificata dai crolli enormi prodotti dal terremoto, poneva la necessità di operare scelte tecniche e logistiche ponderate e illuminate alla luce di tutte le conquiste tecniche, ma anche anche socio-filosofiche del secolo;

· la nuova città , ancora tutta da immaginare, avrebbe potuto e dovuto incarnare e sperimentare ex novo i nuovi canoni edificativi e di convivenza che si erano fatti strada durante il Settecento non solo nel Regno di Napoli, ma nell’intera Europa;

· il nome stesso della città distrrutta e da ricostruire, Oppidum, rimandava non solo logisticamente e storicamente a un contesto urbano specifico, ma evocava un passato remoto di matrice latina di cui tenere conto persino nella nuova progettazione;

· la caratteristica peculiare di città episcopale che per secoli ( almeno dal periodo bizantino, già a cavallo tra il X e l’XI secolo ) era stata incarnata dalla città distrutta, imponeva un ampio lavoro di ripensamento e di costruzione di nuove strutture ecclesiali degne di tale importante e venusta storia.

   Erano delle vere e proprie sfide terribili che lo stesso Pignatelli, ma soprattutto Winspeare e La Vega, supportati dai notabili oppidesi più illuminati, decisero di accettare, mettendosi subito al lavoro e realizzando una pianta della nuova città che è una sintesi formidabile tra la tradizione latina antica, quella dei castra, ovverossia accampamenti militari, che dovunque nella Penisola e nell’intera Europa hanno poi dato vita ad insediamenti urbani di grande spessore e le nuove conquiste razionalistiche dell’Illuminismo che le dinastie borboniche applicavano ormai da anni almeno all’architettura. Di tali conquiste erano sono e sono emblemi per la nuova città di Oppido l’ampiezza delle strade intersecantisi sempre ad angolo retto e le geometrie non casuali e neanche improvvisate.Ma è la tradizione del castrum latino la base fondamentale sulla quale Winspeare e La Vega verosimilmente fondarono il disegno della nuova città che in origine comprendeva solo una porzione dell’attuale abitato, e precisamente quella che lato modo si estendeva intorno all’attuale piazza principale, ai margini della quale sorsero presto gli edifici amministrativi, civili e religiosi più importanti.

   Di tanto lavoro purtroppo , al di là della realizzazione progettuale, rimane ben poco, infatti contrariamente a tante realtà urbane della nuova Oppido non si conservano i piani approntati dal Winspeare e dal La Vega, tantomeno mappe che riguardino le singole cosatruzioni. Avanza soltanto una pianta del 1798 approntata dall’architetto Giuseppe Vinci e messa in luce da Ilario Principe. Riguarda essa la cattedrale,il seminario, il palazzo vescovile e altre fabbriche di pertinenza con ampi cortili. Ma si tratta di un disegno chiaramente mai mandato ad effetto. 

    Per avere un’idea dello schema progettuale della nuova città come venne di fatto realizzato da Winspeare e La Vega possiamo solo osservare attentamente l’attuale conformazione urbanistica della parte più a monte (S-E) della città, vale a dire l’attuale Piazza Umberto I, una delle più grandi e regolari del territorio calabrese con tutte le sue immediate pertinenze che la circondano, gli isolati più prossimi che si articolano nelle varie direzioni e le strade che da essa si dipanano: 

   Come si può evincere agevolmente dall’immagine, che ritrae la ricostruzione plastica di un castrum romano, cui è esattamente sovrapponibile la parte centrale del progetto di costruzione voluto da Winspeare e La Vega per la rinascita di Oppido, la città che ne è derivata, anche in seguito agli aggiustamenti apportati dopo i gli eventi sismici del 1894 e del 1908, si sviluppa intorno a due assi fondamentali: il Decumano ( la strada principale che si diparte dalla piazza maggiore e che oggi ha il nome di Corso Vittorio Emanuele II) e il Cardo, trasversale al Decumano (oggi Via Candido Zerbi) delimitante la piazza “laica” della città (Umberto I) dalla grande area contigua che si apre davanti alla cattedrale. Da questi due assi viari principali prendono origine le varie insulae (isolati di pianta quadrata o rettangolare) tracciati geometricamente e in modo molto pulito.

    Esisterebbe una sola perplessità nel sovrapporre la pianta della nuova Oppido al castrum romano: la via decumana (Corso Vittorio Emanuele II) non trae origine dal centro della piazza (oggi Umberto I), ma ne lambisce soltanto il lato sinistro per chi guarda le montagne che all’orizzonte fanno da corona alla grandissima area sulla quale la medesima piazza si adagia. Il motivo è evidente: la progettazione iniziale della piazza prevedeva uno spazio doppio rispetto all’attuale, enorme, probabilmente esagerato per l’entità dell’abitato che si stava andando a realizzare: fu quasi spontaneo dunque occupare la metà N-E dell’agorà con due maestosi isolati, e precisamente:, a monte, quello costituito dal Palazzo Grillo e, sul fianco vero e proprio della piazza, quello che aveva inizio dal palazzo di Candido Zerbi ( oggi proprietà Caratozzolo, Zuccalà, Manfredi) e si estendeva a valle fino all’angolo in cui era ubicata la Farmacia Simone (Oggi Lupis). In tal modo la piazza originaria fu praticamente dimezzata, sebbene la stessa, malgrado la drastica riduzione, rimanga la più estesa e suggestiva tra tutte le piazze dei centri della Piana, e non solo.

    Occorre aggiungere che il grande decumano, costituito dal Corso Vittorio Emanuele II, prolungato nel tempo con l’aggiunta della parziale denominazione di “Corso Luigi Razza”, andò presto a congiungere l’abitato rinato di Oppido con quello del preesistrente paese viciniore di Tresilico, tanto che i due comuni nel 1927 vennero unificati con l’unica denominazione di “Oppido Mamertina”.

    I lavori di costruzione della nuova città, seguiti direttamente dai progettisti, ma anche dai cittadini oppidesi don Girolamo Grillo e don Francesco Migliorini, che avevano ricevuto il mandato di deputati della riedificazione, furono rapidi: già il primo nucleo della città sorse nel 1785 . anche se solo dal 1795 hanno inizio le sepolture nella prima cattedrale ( l’attuale “ chiesa dell’Abbazia”, ricostruita in tempi più recenti al posto della stessa, denominata non a caso dagli Oppidesi “Chiesa Vecchia”). E’ invece del 1836 l’apertura al culto della prima sontuosa cattedrale di fronte alla grandissima piazza rettangolare ancora oggi intitolata a Umberto I, poi gravemente lesionata dal terremoto del 1908 e riedificata esattamente nel medesimo luogo della precedente ( ne fanno fede, tra l’altro i quattro enormi pilastroni che sorreggono il transetto) negli anni Trenta del Novecento, così come appare oggi nella sua rara imponenza prospettica ed architettonica.

     Nel 1799, ad appena 16 anni dalla distruzione della vecchia Oppido, la nuova città è già ampiamente delineata nelle sue linee costruttive essenziali, tant’è vero che il vescovo Tommasini, primo presule della rinata città episcopale, “ interviene a favore delle classi meno abbienti di Oppido contattando il marchese Spinelli, visitatore delle zone terremotate ed autore di un piano di risanamento, facendogli presente che la gente povera ormai non ha più bisogno di case, in quanto per suo diretto interessamento è stata competentemente alloggiata…’“ . Così scrive il Liberti, che aggiunge poi una sintesi eloquente dell’andamento dei lavori di costruzione della nuova città e dello sviluppo urbanistico iniziale di essa: “ Da principio l’area occupata è soltanto la parte alta, quella che cioè comprende la zona sacra, la grande piazza e gli isolati in parallelo. Tutt’al più può raggiungere le isole racchiuse tra le vie Marconi-Napoli e Coppola, come peraltro si avverte in alcuni schizzi allestiti intorno al 1840 e conservati nell’archivio di stato di Reggio Calabria…Rinata come Oppido in contrada Tuba, la città dell’altopiano delle Melle, nel 1864, dietro un provvedimento dello Stato scaturito dalle lotte risorgimentali, al fine di evitarsi le omonimie, assume per volere dei suoi amministratori il nome di Oppido Mamertina, che accomuna così il ricordo delle peregrinazioni della sua popolazione fin dalla più remota antichità”.

    La città che era stata dei Bruzi, degli Elleni e dei Romani nei suoi siti primigeni, poi dei bizantini e dei Normanni, con apporti non trascurabili di civiltà araba ed ebraica, nel suo sito collinare distrutto dal terremoto del 1783, la città di vescovi e feudatari, di eroi, di briganti e di santi, risorgeva in un sito lontano da quello avìto, ma aperto alle promesse di una nuova vita civile, artistica e culturale.

    Una città antica che continua a rivivere in quella nuova, e non soltanto nel nome e in una conformazione urbanistica , che costituisce un unicum nel suo genere e che rimanda a fasti antichi e a memorie lontane, ma anche in molti dettagli architettonici, come il bellissimo portale in pietra verde di Delianuova che, secondo la memoria collettiva locale proviene direttamente dalla vecchia Oppido e adorna superbamente sul lato sudorientale della piazzetta “Regina Margherita” il palazzo legnamato e antisismico che fu di don Marcello Grillo e pare abbia ospitato per almeno un decennio anche il primo presule della rinata città e diocesi, quasi a rinverdire e mantenere salde le promesse di conservazione e di sviluppo di una cittadinanza tenace e pronta ad accettare qualsiasi sfida del tempo.

    Alcune di queste promesse oggi possono interessare il visitatore attento che si rechi a Oppido Mamertina. Innanzitutto i suoi edifici sacri ricchissimi di arte e di storia , a partire dalla grandissima cattedrale con il palazzo vescovile e i suoi annessi, il seminario, il magnifico museo diocesano di arte sacra e, non ultime, le altre 6 chiese presenti nella città. Poi le sue strutture civili e i palazzi di rappresentanza, tra cui il Palazzo Grillo, succube di un anatema vescovile perché allargato a dismisura dai suoi originari proprietari fin quasi alla parete del dirimpettaio episcopio, oggi sede di raccolte museali e di attività culturali di vario genere e di vario spessore. Quindi le istituzioni scolastiche , infantili, primarie e secondarie di I e II grado , che annoverano, tra l’altro, un Istituto tecnico industriale, un liceo scientifico e un liceo classico interno al seminario vescovile. Infine l’ospedale civile, uno dei più antichi della provincia reggina, oggi trasformato in “Ospedale di Comunità”, grandi e variegati impianti sportivi che, insieme alle tante strutture di partecipazione sociale e culturale e di solidarietà, rendono sempre più attrattiva questa città all’interno di un comprensorio pedeaspromontano proiettato a trovare la propria strada per una necessaria rivalutazione non solo storica e culturale, ma anche economica, imprenditoriale e di inclusione sociale..
                            
                                                                                       Rocco Liberti e Bruno Demasi



giovedì 18 settembre 2025

RICORDA, RACCONTA, CAMMINA: lavorando con Don Pino Puglisi ( di Agostina Aiello)

    In questi giorni settembrini il trentaduesimo doloroso anniversario della morte di Don Pino Puglisi, cui la Chiesa, beatificandolo nel 2013, ha riconosciuto il martirio che lo rende patrimonio universale , oltre che di venerazione,  di esempio  per i sacerdoti, ma anche per tutti i laici. Più che mai per noi di Calabria. Il suo vivissimo ricordo non tramonta, anzi si rafforza di anno in anno. A riproporcelo su questo blog una commovente pagina di Agostina Aiello, l'assistente sociale e missionaria che per oltre un ventennio, dal 1971 al 1993, visse con Don Pino Puglisi un rapporto di collaborazione sociale ed ecclesiale davvero unico. Dai tempi di Godrano agli anni del “Centro diocesano vocazioni” fino alle alle drammatiche vicende vissute insieme nel quartiere Brancaccio di Palermo. Dopo l’assassinio di don Pino, Agostina, che ho avuto la fortuna di conoscere e che ringrazierò sempre per quanto ha fatto e per le  parole che condivido in questo blog, ha coordinato il lavoro di ricerca e documentazione attraverso cui nacque l’ Archivio Don Giuseppe Puglisi di via Matteo Bonello a Palermo che oggi è punto di riferimento per gli studiosi, ma soprattutto per quanti vogliono ricordare e rivivere insieme la memoria palpitante e non stucchevole  di questo beato. (Bruno Demasi)
 
                                                                     ______________

 
     Offro di buon grado la mia testimonianza sulla lunga esperienza di servizio vissuto e condiviso con il Beato don Giuseppe Puglisi. Confesso che ho provato difficoltà nel "fare memoria" di una vasta quantità di eventi e di esperienze, ma, soprattutto, non mi è stato facile "selezionare" e scegliere.Alla luce dell'insegnamento pedagogico di P.Puglisi, che spesso parlando ai giovani si serviva di "icone", mi ha aiutato ad introdurmi al tema " Ricorda, racconta, cammina" un'icona di resurrezione: quella dei discepoli di Emmaus ( Lc 24, 13-35). I due discepoli, sfiduciati, perplessi, scandalizzati, fuggono amareggiati e delusi dalla comunità, dove avevano incontrato il Signore, incapaci di vedere "la spiga" nel "seme che marcisce", la"vita" in un "sepolcro vuoto". 

    Se io dovessi dipingere con un'immagine il cammino di P. Puglisi mi piacerebbe farlo come "il compagno di viaggio" che seguendo il Divin Pellegrino si è fatto con Lui e per Lui compagno di strada di tanti giovani e adulti, discepoli o non del Signore che, delusi, amareggiati, in ricerca camminavano, fuggivano, senza spesso sapere "verso dove". Si è fatto compagno anche di chi voleva seguire più da vicino il Signore e aveva bisogno di discernere, con più luce, la propria risposta: seminaristi, chiamati alla vita di speciale consacrazione, fidanzati che volevano consapevolmente fondare la loro famiglia nel Signore. Egli si è fatto prossimo, compagno di cammino per ciascuno/a, con discrezione e rispetto, con pazienza e umiltà, interrogando, chiedendo, aprendo gli occhi della mente e del cuore alla luce della Parola, spezzando con amore il Pane della Comunione e della Riconciliazione, offrendo motivazioni forti all'impegno di solidarietà responsabile verso tutti, ma in particolare verso i più poveri, i più svantaggiati, verso le vittime del sopruso, della violenza, dell'ingiustizia.Egli, alla luce del "Sole" della Pasqua è stato per tutti testimone di resurrezione e di speranza.

   Mi chiamo Agostina. Dal 1961 sono membro della Società di Vita Apostolica di Servizio Sociale Missionario, fondata dal Card. E. Ruffini a Palermo nel secondo dopo-guerra.Egli ci diceva: "Nessuna sofferenza umana è estranea al Servizio Sociale Missionario. Ognuna di essa presenta un aspetto particolare di Gesù nella Sua Passione".Vedeva quindi la nostra missione nella Chiesa diretta a testimoniare l'Amore di Dio per l'uomo attraverso un servizio di liberazione evangelica e di promozione della giustizia nella carità, specialmente nei confronti dei poveri, dei sofferenti, dei lavoratori i cui diritti erano conculcati.Vi ho detto questo perché alla luce di questo carisma, è nata e poi si è sviluppata in larga parte la mia esperienza di lavoro apostolico con P.Puglisi. Esperienza preziosa, vero dono di Dio, che ogni giorno vado rileggendo e meditando.
 
   Per circa 23 anni il Signore mi ha concesso la grazia di condividere la mia vocazione, la mia missione con P.Puglisi imparando da lui a rispondere al progetto di Dio con dedizione, gioiosamente, umilmente.
Quante volte gli ho sentito ripetere agli Animatori vocazionali l'espressione di Paolo VI: "I giovani, in particolare, hanno bisogno di testimoni più che di maestri!" E lui lo era. Tutta la sua vita è stata una testimonianza della fiducia di Dio nell'uomo e impegno di rivelazione della "verità nella carità"! Io l'ho conosciuto nel Luglio del 1971, quando era Parroco a Godrano, era venuto in qualità di Assistente Spirituale in una Colonia Arcivescovile dove io svolgevo il compito di Vice-direttrice. C'è stata subito tra noi una profonda sintonia: durante tutto il mese abbiamo collaborato per incontri di preghiera con il personale e con i bambini della Colonia. Nel mese successivo, egli ha invitato me e una mia Consorella a partecipare alla Settimana sul tema della "PACE" organizzata a Godrano con il Movimento "Presenza del Vangelo", guidato dalla Prof.ssa Lia Cerrito, sua collega nello stesso Istituto scolastico. Con il Movimento "Presenza del Vangelo" P.Puglisi ha collaborato attivamente, attingendo e spezzando assieme, in vari cenacoli, il pane della Parola.

   Da queste esperienze è nata, tra me e P.Puglisi, una collaborazione sempre più intensa, finalizzata all'obiettivo comune di promozione umana animata dalla Parola di Dio. Per P. Puglisi il Vangelo era il criterio fondamentale di riferimento nella sua azione pastorale e l'uomo, nella sua concreta realtà, era"via della Chiesa". La mia collaborazione con P. Puglisi divenne più continuativa negli anni 70, quando, mentre lui continuava il suo lavoro di parroco a Godrano, io svolgevo la mia attività di A.S.M. nel Centro Sociale della zona "Decollati-Scaricatore" (uno dei quartieri più emarginati di Palermo). Ben volentieri offrivo a P. Puglisi il mio modesto apporto per l'individuazione di sbocchi alle difficili situazioni da lui presentatemi, come anche con piacere partecipavo agli incontri periodici sulla Parola di Dio e alle settimane annuali del Vangelo che si organizzavano e svolgevano, con il Movimento "Presenza del Vangelo", presso le famiglie di Godrano.

    Preziosa è stata per me la collaborazione richiestami per un'iniziativa a favore delle coppie e delle famiglie che P.Puglisi aveva accompagnato nel loro cammino formativo al matrimonio. Fin da allora molteplici erano i campi delle attività di P.Puglisi né si poteva cogliere qualche sua predilezione per l'uno o per l'altro, tanto era sempre aperto e disponibile a quanto la Provvidenza gli proponeva.  Ed io cosa chiedevo a P.Puglisi? Di aiutarmi nell'opera di formazione dei giovani volontari che con me affrontavano le molteplici problematiche della zona dove lavoravo. La sua vocazione di "educatore" , attento alle nuove generazioni, lo ha reso sempre un punto di riferimento per tanti giovani provenienti da ambienti ed esperienze anche molto diverse. Ho ancora, più intensamente coadiuvato P.Puglisi quando (1979) egli ha assunto la responsabilità del Centro Vocazionale diocesano e regionale. Io, che già da alcuni anni ero membro delle due Segreterie, con lo stimolo e l'esempio di P.Puglisi ho avuto la grazia di partecipare al suo intenso lavoro di formazione dei giovani. Ho, per vari anni, cooperato con P. Puglisi alla preparazione e realizzazione dei campi estivi vocazionali e della scuola di preghiera per i giovani della diocesi di Palermo; alla organizzazione della mostra vocazionale, "strumento- come lui diceva- tanto efficace di annuncio della Parola".

    In tali occasioni ho potuto cogliere non solo lo stile del "pedagogo competente", del "pastore vigile", ma soprattutto del sacerdote del Signore: uomo di Dio e, per questo, uomo per tutti.  Nell'itinerario formativo e di crescita spirituale P. Puglisi invitava a riflettere i ragazzi sul senso della propria vita, cercando di distinguerlo dalle false immagini che continuamente la società ed i mezzi di informazione ci propongono. Proponeva, quindi, la figura di Cristo di cui amava tanto parlare. Di Cristo sottolineava la grande umanità, i suoi sentimenti umani, l'interesse nei confronti di ogni uomo ed in particolare per i più deboli, i bambini, i peccatori, e poi parlava di Gesù uomo libero e liberante al tempo stesso. Ricordava in particolare lo sguardo di Gesù, uno sguardo che raggiunge l'uomo nel profondo, lo conosce, lo interpella e lo promuove, avvolgendolo nella tenerezza e nell'amore di Dio. Parlava spesso ai ragazzi della tenerezza di Dio, per esempio in occasione della liturgia penitenziale, ricordava che Dio è un Padre misericordioso che comprende tutte le debolezze e gli errori del figlio, lo vuole liberare dai mali e dai pericoli. P. Puglisi insegnava a pregare: "E la preghiera - diceva - che dà senso alla vita dell'uomo perché rende viva l'amicizia con Dio e ci rende simili a Lui". Il modello a cui faceva riferimento era Cristo, che P. Puglisi definiva "Preghiera vivente", perché durante tutta la sua vita fu in continuo dialogo con il Padre e tutto ciò che compiva era sempre preparato e concluso dalla preghiera.

    Un'altra importante attività sacerdotale è stata quella che egli ha svolto per diversi anni presso la Casa "Madonna dell'Accoglienza, sorta nel 1973 in seno alle attività promozionali dell'O.P.C.E.R. e seguita con affettuosa attenzione dal Card.Pappalardo. Questa Casa ospita, in un clima di "rispetto e di accoglienza fraterna" giovani gestanti o già madri con i loro figlioletti (persone provate da pesanti e a volte tragiche situazioni personali e familiari) per aiutare a recuperare fiducia e possibilità per una nuova vita. Proprio in questa Casa, e sino il giorno precedente la sua uccisione, P.Puglisi ha svolto, con particolare, amoroso impegno, la sua missione d'illuminazione e di sostegno spirituale, fatto soprattutto di 'ascolto' e di 'comprensione misericordiosa', riuscendo ad ottenere frutti insperati in creature apparentemente distrutte.(Commoventi sono le testimonianze delle Ospiti della Casa). La conferma del significato attribuito dallo stesso P.Puglisi a questa sua missione sacerdotale l'ho avuta direttamente da lui, quando chiamato a reggere la Parrocchia di Brancaccio si disponeva a limitare necessariamente le sue molteplici occupazioni: "Lascerò tutti gli impegni, mi disse, ma quello no". Attraverso questa ed altre esperienze di educatore di coscienze giovanili, in P.Puglisi si andava facendo sempre più profonda la convinzione che la lotta ad ogni forma di devianza e ai tanti dolorosi fenomeni sociali ad essi connessi, richiede da parte della Chiesa non solo indispensabili riflessioni teologiche e morali ma anche modalità di presenza che incarnino il messaggio evangelico in servizi di promozione umana e sociale.

   Eccomi, adesso, al suo impegno di pastore nella Parrocchia di Brancaccio: duee anni circa di intenso apostolato, affrontato nell'ottica della "beatitudine dei poveri in spirito" che confidando totalmente in Dio-Padre pongono, senza riserve, la vita a servizio della missione ricevuta. A Brancaccio, questo presbitero, dall'aspetto così "disarmato", ma con lo sguardo penetrante dell'apostolo, proteso alla liberazione della sua gente, avverte subito la necessità e l'urgenza di adoperarsi con tutte le forze per 'coniugare' l'azione di evangelizzazione con una vasta opera di promozione a favore dei giovani e delle fasce più deboli ed emarginate. " Come cristiani e come cittadini - ebbe a dire, in occasione di un incontro pastorale- continueremo a chiedere alle Autorità quanto è dovuto a questo quartiere, ma, nell'attesa, è inutile limitarsi a lamenti; è necessario rimboccarsi le maniche per dare vita ad iniziative di promozione umana che accendano qualche luce in mezzo a tante tenebre". In breve tempo, pertanto, nasceva il Centro di Accoglienza "Padre Nostro", gestito dalle Suore Sorelle dei Poveri di S.Caterina da Siena. Già nel titolo il Centro dichiara la sua finalità: educare al riconoscimento della dignità dell'uomo che, elevato per grazia alla condizione di "figlio di Dio" è chiamato alla libertà da ogni forma di schiavitù morale e di violenza sociale. Per questo Centro P.Puglisi chiese la mia collaborazione, avvalendosi così dell'apporto di Assistenti Sociali e di Allieve della allora Scuola Universitaria di Servizio Sociale "S. Silvia" per la rilevazione dei problemi del quartiere e per la programmazione dei Servizi Sociali diretti ad avviare, anche con l'aiuto dei Volontari, processi di socializzazione primaria. Cominciavano così a Brancaccio i primi passi di un processo di consapevolezza etica e civile alla luce del messaggio evangelico.
 
     E' stato proprio questo processo (che, pur nella modestia dei mezzi, si rivelava capace di incidere in profondità per la potenza del messaggio), a suscitare la brutale reazione delle forze mafiose del quartiere. Il 28 luglio 1993 il Giornale di Sicilia riportava la notizia dei primi attentati contro la Parrocchia, diretti al intimidire non solo il Parroco, ma quanti pensavano di collaborare con lui. Sappiamo quale fu la reazione di P.Puglisi: nessuna protesta vendicativa ma, secondo il suo stile evangelico, un invito dall'ambone della Parrocchia a riappropriarsi della propria umanità: alla ragionevolezza, alla collaborazione, alla conversione".

    Il 15 Settembre è eseguito il verdetto di morte. Ma il sangue dei martiri è fermento di vita.

   Alla luce del chicco di grano che da frutto solo se muore, la morte del "testimone" ha aperto "un cammino di speranza". Da questo seme sono nati tanti germogli di vita nuova. Dal suo "dare la vita, sulla scia del Buon Pastore, perché altri abbiano vita" sono sorte moltissime iniziative, culturali, formative, sociali volti ad affermare i valori della legalità, l'educazione al sociale e alla vita democratica, il rispetto del lavoro onesto e il giusto guadagno nel rispetto della dignità di ogni uomo.

     Questo mi pare rispondente alla prospettiva pedagogica di P. Puglisi che spesso ripeteva:
" la nostra azione non può trasformare l'ambiente. E' solo un segno. Noi vogliamo rimboccarci le maniche per dimostrare che si può fare qualcosa. Se ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto".Nell'archivio diocesano relativo a P. Puglisi numerosi raccoglitori documentano tale vitale fioritura.Si tratta di:
- testi, tesi di laurea; convegni; dibattiti; musical; opere teatrali; film; trasmissioni televisive e documentari;
- scuole; case famiglie; oratori; centri d'accoglienza; campi sportivi, piazze, vie che portano il suo nome e, non solo, in Sicilia;
- monumenti e visite nei luoghi ove ha vissuto, ha operato, è stato ucciso; ecc.

    Sono segni di una vita che non è stata spezzata senza dare il suo frutto; di una testimonianza che irradia di luce il cammino di tanti all'interno e all'esterno della Comunità ecclesiale. Questa, a mio parere, è luce di speranza e indicazione di un cammino nella verità dell'Amore per le nostre Chiese.

     Termino, offrendo la mia voce alla parola che P. Puglisi pronunciò in un suo intervento al Convegno di "Presenza del Vangelo" nell'Agosto del 1991 il cui tema era: "Testimoni della Speranza". In quella occasione egli così diceva:" Noi cristiani siamo testimoni della speranza e il testimone per eccellenza è Gesù.  L'Apocalisse afferma che Gesù è il testimone fedele, l'Amen e Amen significa appunto sì, Amen è colui che aderisce, che dice che è così. E Gesù ci ha mostrato il Padre. Lui stesso, infatti, dice: " Chi vede me vede il Padre" e i discepoli di Gesù sono testimoni perché annunciano anche loro quello che hanno visto e udito. Certo questa testimonianza - continua P. Puglisi - è una testimonianza che dà gioia perché mette in comunione, ma che va anche incontro a difficoltà tanto che può diventare martirio; quindi, dalla testimonianza al martirio il passo è breve. Per il discepolo è proprio quello il segno più vero che la sua testimonianza è una testimonianza valida. Il discepolo è testimone, soprattutto della Resurrezione di Cristo risorto e presente, Cristo che ormai non muore ed è all'interno della comunità cristiana, e attraverso la comunità cristiana, attraverso il suo Corpo è presente nella storia dell'umanità. Il testimone sa che il suo annuncio risponde alle attese più intime e vere dell'umanità intera e dell'uomo singolo. L'uomo comune sperimenta che il vivere è sperare, il presente è mediazione tra il già e il non ancora, tra il passato e il futuro e chiaramente ognuno di noi costruisce il proprio futuro sulla base del proprio passato".

     P. Puglisi è stato un discepolo che ha visto e udito, ha incontrato e seguito il Maestro morto e risorto e per questo con la sua vita ha saputo essere testimone del Risorto, testimone e membro della Chiesa fondata da Gesù. Di questo sono testimone.
Grazie.

Agostina Aiello

martedì 9 settembre 2025

Viaggiatori in Calabria nel sec. XIX: Nicolas Phillipps Desvernois ( di Rocco Liberti)

    Un’altra bella ed eloquente pagina inedita di Rocco Liberti, che stavolta scava nelle testimonianze ancora non molto conosciute relative al groviglio politico in cui era precipitata la Calabria nell’ 800 conseguente alla lotta tra i Borboni e la ventata rivoluzionaria e libertaria che era stata impersonata da Joacquim Murat. Il generale francese Desvernois proprio di Murat segue la parabola umana e politica con tutte le sue ansie di rinnovamento e con le sue contraddizioni, prima fra tutte la lotta aspra e acritica al cosiddetto brigantaggio, fenomeno magmatico e assai incerto  se schierarsi tra la fronda e l’appoggio al regime borbonico. Desvernois è però qui ricordato soprattutto come memorialista non privo di acuta attenzione per l’universo calabro, in particolare per l’attuale Piana di Gioia Tauro, con i suoi caratteri  sociali e le sue consuetudini politiche che in qualche modo possono contribuire a spiegarne anche il costume  attuale. (Bruno Demasi) 



    Anche il luogotenente generale Nicolas Phillipps Desvernois (1), che si è trovato in Calabria a causa dei suoi impegni militari tra 1811 e 1815, ha riferito sui luoghi dove è transitato, Mileto in particolare. In tale località il 5 dicembre 1811 si è reso addirittura promotore del trasporto nel paese ricostruito di una statua di San Nicola e dei resti del mausoleo normanno, che erano ancora allocati nella primitiva sede. Nella sua opera però a risaltare sono lo svolgimento del periodo storico vissuto e le continue repressioni compiute a danno dei cosiddetti briganti, interventi dei quali lui è stato sovente autore spietato. Non conosciamo dati completi sulla condizione civile, sappiamo soltanto ch’era nato nel 1771 a Lons-le Saunier e nel 1834 contava 63 anni. Apprendiamo da un saggio, che ne ricorda le vicissitudini, che ha partecipato a vari conflitti in Europa, Tirolo e Spagna soprattutto. Dopo aver ricevuto in donazione alcuni beni in quel di Altomonte, si è ricondotto a Mileto e qui ha soggiornato parecchio. Ordinatogli di partire per la spedizione di Russia, era pervenuto già in Lucania quando gli è stato intimato di ritornare indietro.

    Ma ecco parte della cerimonia relativa al trasporto dell’antica statua di San Nicola a Mileto come esposta nei suoi “Souvenirs”:

«Il 5 dicembre 1812, a trecento cacciatori del reggimento, a cui si unì un gran numero di abitanti, fu ordinato di operare questa traslazione. La statua fu posta su una slitta, costruita espressamente, e imbrigliata con quaranta coppie di buoi, e poche ore furono sufficienti per il successo dell'operazione, che si concluse con le grida ripetute mille volte di Viva il Colonnello Desvernois e Nicolò Taccone (in italiano nel testo). Il capo del santo, la cui mitra era d'oro, fu ricollocata sulla statua, che il giorno successivo fu inaugurata col più grande apparato, alla presenza di oltre diecimila spettatori, accorsi da tutti i punti della vasta diocesi di Mileto»[1].


    A riguardo del territorio della Piana, nelle “Memorie” non riporta impressioni di sorta, ma tiene a riferire almeno qualche episodio. Nel gennaio del 1813 veniva data «alla guarnigione, alle signore e ai nobili della Città di Palmi» una festa con ballo, che è risultata alquanto turbata e forse cessata prima d’iniziare a motivo di una sortita degli inglesi, ch’erano sbarcati «nei pressi della strada che sale per Palmi». L’epilogo si è configurato però una vera carneficina in danno di coloro che avevano pensato di cogliere di sorpresa i francesi. Nella notte tra il 21 e il 22 aprile poi, appreso che degli insorti si trovavano in forze avanti Casal Nuovo, con due battaglioni presi dal contingente che operava sui Piani della Corona, si è precipitato nella zona, dove ha rimesso le cose a posto.
    Desvernois si è trovato ad operare parecchio sia nella zona meridionale che in quella settentrionale della Calabria in particolare nell’ultimo periodo del dominio murattiano. Si è dato alla caccia dei borbonici provenienti dalla Sicilia e che infestavano sia la costa intorno a Villa che a partire da Capo Spartivento. In particolare, ha dovuto impegnarsi in quel di Scilla anche a causa del fulmine che il 14 gennaio 1815 aveva causato una strage tra i militari di stanza nel forte. Si è stanziato con la moglie in un certo periodo ad Altomonte e si è occupato per la costruzione di una strada utile a coloro che pervenivano da Castrovillari, Cosenza e Lungro. Ha avuto varie ovazioni dove perveniva e nel soggiorno ad Altomonte, in amicizia con quei padri, tra l’altro, si è dato ad organizzare una biblioteca con 200 volumi e un medagliere e ha affidato la cura dei suoi interessi a p. Scaramucchio del soppresso convento dei domenicani. A quanto scrive, la moglie vi aveva delle proprietà. È intervenuto tempestivamente anche in difesa del vescovado di Mileto, che in tanti richiedevano fosse spostato a Monteleone. Si paventava allora una vera sollevazione. Tra le tante prodezze vantate anche la lotta contro i pirati algerini che si portavano sovente in Calabria compresa la cattura di un bastimento siracusano, che operava il commercio clandestino del sale. Anche allora!

    Caduta ogni speranza per Murat di conservare il regno in seguito alla definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo, al maggior generale francese non restava ormai che abbandonare la Calabria, per cui a Messina il 13 giugno 1815 riusciva a imbarcarsi su un battello greco che faceva vela per Tolone. Napoleone III lo creerà commendatore della Legion d’Onore e generale conte di Serre. Si fregerà pure dell’ordine delle Due Sicilie[2]

     Le memorie del Desvernois sono state edite una prima volta, come in nota, nel 1858 per interessamento di una sua nipote (Memoires du général Bon (barone) Desvernois d’après les manuscrits originaux-Publiés sous les auspices de sa nièce M.me Bousson-Desvernois 1789-1815, Paris, Ch. Tanera Editeur Librairie Plon-E. Plon, Nourrit et C.ie Imprimeurs-Èditeurs. L’introduzione e le note sono di Albert Dufourcq). Una successiva edizione si è verificata nel 1898, sempre a Parigi a cura degli stampatori-editori E. Plon, Nourrit e C.ie. Un’impeccabile traduzione è avvenuta nel 1993 e si deve al Prof. Giuseppe Misitano (N. F. Desvernois, Un Generale di Napoleone nel Regno di Napoli Memorie di N. Ph. Desvernois 1801-1813, Qualecultura Jaca Book, Vibo Valentia 1993. Ampie notizie sulle peripezie dei manoscritti del Desvernois e sui suoi mancati editori è dato leggerle a cura di Alberto Lumbroso su una nota rivista, la Rivista Storica Italiana (Dir. C. Rinaudo, vol. XV (III della N. S.), Fratelli Bocca, Torino ecc. 1898, pp. 444-447). 
                                                                                                                                                                           Rocco Liberti
______________________
[1] Souvenirs militaires du Baron Desvernois redigés d’après les documents authentiques par Emm. Bousson de Mairet, Paris Ch. Tanera Editeur 1858, p. 147, trad. dal francese.


[2] Ivi.

sabato 30 agosto 2025

L’INCREDIBILE CROCIFISSO LIGNEO DELLA CHIESA MATRICE DI TAURIANOVA (di Bruno Demasi)


     Produsse un certo scandalo Natalia Ginzburg quando nel 1988 sull ”Unità”, l’organo ufficiale del partito comunista più forte dell’Occidente scrisse senza mezzi termini: “ Il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze. La croce, che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo.”  
 
    Erano parole calibrate su una visione della storia e del mondo che ritornava in modo dirompente alla dimensione della Croce, troppo a lungo osteggiata o minimizzata, ma erano anche sensazioni sapientemente descritte da una grande scrittrice che avrebbe dovuto quanto meno ignorare, o far finta di ignorare, la grandezza del Cristo trafitto per almeno due ordini di motivi: era ebraica di nascita e di formazione e aveva abbracciato in maniera viscerale il credo marxiano diventando in breve tempo  attivista politica di primo piano del PCI. 


     Sono parole e sensazioni che ti tornano prepotentemente alla memoria nell’osservare questo incredibile crocifisso ligneo che, entrando nella chiesa matrice di Taurianova, trovi collocato in modo umile e quasi anonimo all’inizio della navata di destra e al quale non si riesce ancora a dare un autore, sebbene don Mino Ciano, parroco della stessa chiesa, propenda a pensare che sia di scuola e di mano altoatesine.

   Non ho competenze di critica d’arte né, almeno per il momento , altre informazioni. In compenso disponiamo tutti di due elementi di valutazione che possono contribuire a tracciare le linee semplici e scarne di una vicenda artistica singolare: il primo concerne la storia minima della sua collocazione all’interno della chiesa; il secondo riguarda la morfologia di questa opera d’arte che la rende unica e irripetibile pur tra tantissimi esempi, anche molto pregevoli e censiti come beni artistici, di manufatti lignei o meno dislocati nella stessa città o altrove.

   Le scarne notizie che è possibile attingere fanno pensare che questo Crocifisso abbia posto la propria dimora in questa chiesa dopo la ricostruzione di essa conseguente al terremoto del 1908 e che sia stato collocato subito nell’area presbiterale e quindi davanti alla parete absidale di destra ( com' è possibile osservare nella foto a fianco), lasciando il posto centrale sull’altare maggiore alla statua della Madonna della Montagna, presente già nella chiesa distrutta da oltre un secolo. Nel 2024, in concomitanza con i lavori di realizzazione del pregevole mosaico che oggi ricopre l’intera parete absidale e che riprende tipologicamente quello preesistente che ne adornava già la cupola, il Crocifisso venne spostato nella sua attuale collocazione, all’inizio della navata di destra della Chiesa. Tale spostamento quanto meno ha consentito e consente a tutti coloro i quali entrano nell’edificio sacro la visione ravvicinata e diretta sicuramente di un capolavoro, non tanto nei suoi stilemi scultorei e plastici, che non sono declinati in fogge particolari ascrivibili a questa o quella corrente artistica, quanto in un insieme incredibilmente armonico che produce una sensazione palpabile di bellezza e di emozione allo sguardo attento del visitatore. 

     Chiunque lo abbia scolpito, sicuramente al di fuori di ogni schematismo di bottega, è riuscito infatti a fornire di vita palpitante ed eloquente questa statua, della quale possiamo rilevare l’equilibrio assoluto delle proporzioni nel rappresentare le membra del Cristo, il lavoro meticoloso nella riproduzione del dettaglio anatomico ( vedansi, ad esempio, la perfezione stupefacente della bocca e dei denti o quella delle estremità inferiori semilogorate dal tocco dei fedeli), la maestria indicibile nella riproduzione espressiva del viso e delle membra. Tutti dettagli – si dirà – presenti in abbondanza in molte altre statue similari, ma rarissime volte coesistenti in modo tanto dinamico nello stesso manufatto, tanto da farlo apparire un unicum. Il che produce un effetto sorprendente: il dolore “umano e divino ” del Cristo esplode con indicibile forza, sottolineata persino dalle lacrime e dalle palpabili gocce di sudore e di sangue che colano dal viso e dalle carni .

    Un crocifisso forse senza autore, sicuramente senza onori, senza orpelli e senza storia che però incarna “ ad alta voce” nella sua povertà una Storia decisamente grandissima ed eterna e parla direttamente al cuore di chi si ferma davanti a lui... 

                                                                                                               Bruno Demasi

giovedì 14 agosto 2025

25 ANNI DI “CITTADELLA DELL’MMACOLATA” NELLA FESTA DI S. MASSIMILIANO KOLBE E SOLO CON L’AIUTO DI DIO ( di Bruno Demasi)

A CERAMIDA DI BAGNARA CALABRA UNA PALESTRA DI FEDE E DI VITA 
 NEL SOLCO DELLA “MILIZIA DELL’IMMACOLATA”

     Non è solo un’oasi di pace, perché del mondo accoglie tutte le angosce e i mille bisogni per illuminarli , è piuttosto un sentiero di fraternità che travalica il luogo in cui sorge e irrora beneficamente tutte le vie della Calabria e non solo. «Una città in cui vivere e pregare insieme, in cui accogliere i pellegrini, in cui praticare la carità. Un centro di fervida evangelizzazione in cui si respirano l’odore della terra e il profumo del cielo e del Paradiso.Questo luogo nasce dopo un lungo discernimento condotto tempo fa grazie alla guida del mio padre spirituale, monsignor Serafino Sprovieri, all’epoca arcivescovo di Benevento. Fu lui a incoraggiarmi a seguire la mia intensa ispirazione di dare vita a un luogo di preghiera con il cuore rivolto a Maria e a Gesù». 

   Con queste poche e scarne parole padre Santo Donato , iniziatore all’alba di questo terzo millennio dei “Piccoli fratelli e sorelle dell’Immacolata” e della Cittadella omonima descrive una grandissima realta di fede e di azione operosa nella fede, da lui fondata inizialmente a Pellegrina di Bagnara e oggi nella frazione di Ceramida dello stesso comune, nella provincia e nella diocesi di Reggio Calabria, come si ha avuto modo di raccontare su questo stesso blog qualche tempo fa ( clicca qui per aprire il link: RICORDANDO MASSIMILIANO MARIA KOLBE, VIAGGIO NELLA CITTADELLA DELL'IMMACOLATA A CERAMIDA (di Bruno Demasi)

 
     Tanto si potrebbe ancora scrivere su cosa sia e cosa rappresenti la Cittadella dell’Immacolata, nata da una ispirazione segnata dall’esempio di San Massimiliano Maria Kolbe, sacerdote e francescano polacco, martire di Auschwitz, fondatore del convento di Niepokalanów a Teresin in Polonia. Idealmente la Cittadella, che la nostra terra ha la fortuna di accogliere e di custodire, ne è la continuazione e i tanti gruppi laicali che l’hanno eletta a luogo di incontro e di preghiera comune agiscono tutti nel solco di quella “Milizia dell’Immacolata” che segnò la vita intera di San Massimiliano , emblema di una fede che rifugge ogni forma di religiosità paganeggiante e trionfalistica, di cui purtroppo sono ancora  molto impregnate tante nostre contrade e tante nostre realtà parrocchiali, per andare al cuore della parola e dell’esempio di Cristo fatto uomo.

   In tal senso questa realtà religiosa fresca e giovane, che unisce sapientemente tradizione e innovazione, diventa ogni giorno di più emblema di quella nuova evangelizzazione e di quella testimonianza di cui si avverte il bisogno crescente in tempi in cui la scristianizzazione sotto varie maschere impregna di sé ogni realtà umana nei nostri paesi.

    Qui  alla Cittadella il profumo buono della terra scaturisce  dagli undici ettari di distesa verde che si affaccia sullo Stretto, dagli ulivi secolari e dalla vegetazione rigogliosa e curatissima che circonda la cappella centrale, le dimore dei frati e delle suore, i numerosi suggestivi luoghi di preghiera e contemplazione. Qui nemmeno un centesimo viene accettato come finanziamento da parte di organismi politici e amministrativi e tutto è dono della Provvidenza. Qui in  ogni stagione avverti  un tripudio di colori e di fragranze. E’ il profumo del cielo e del paradiso  incarnato  dalle persone che lo abitano in una comunità spirituale mista, organizzazione che insieme all’ispirazione a padre Kolbe determina l’unicità di questa realtà in Italia. Essa è composta infatti già da oltre cinquanta fratelli e sorelle in abito azzurro , consacrati a Maria Immacolata, che ti ricordano con il loro sorriso la pace diffusa nel mondo  da Padre Kolbe fino al sacrificio supremo di sè.

   Nel buio di Auschwitz, tra grida soffocate e fili spinati, brillò un gesto di pura luce. Maximiliano Kolbe, frate francescano polacco, durante l’occupazione nazista, rischiò tutto: diede rifugio a ebrei e partigiani, ben sapendo a cosa andava incontro. Aveva origini tedesche, che avrebbero potuto proteggerlo, ma rifiutò ogni privilegio. Era polacco, e da polacco voleva morire. Fu arrestato e deportato ad Auschwitz, dove tra fame, paura e disperazione, continuò a essere un pastore. Condivideva il poco cibo che aveva, pregava con i prigionieri, li consolava. Lo picchiavano per aver aiutato i più deboli. Non si lamentava mai. Non si arrese mai.Un giorno, dopo una fuga dal campo, i nazisti scelsero dieci uomini a caso per farli morire di fame. Uno di loro, padre di famiglia, scoppiò in lacrime. Kolbe fece un passo avanti e disse: «Voglio morire al posto suo».L’ufficiale accettò lo scambio. Fu rinchiuso in una cella senza cibo né acqua. Pregò ogni giorno con gli altri condannati. Uno dopo l’altro morirono… lui fu l’ultimo a resistere. Quando, dopo qualche giorno, i soldati aprirono la cella,  era ancora in piedi. In silenzio. A pregare.Fu ucciso con un’iniezione di acido fenico il 14 agosto del 1941. Morì in pace e senza odio. Il suo corpo insieme a quello dei compagni fu cremato il giorno dopo, proprio in quella festa dell’Assunta che egli tanto amava.

   Oggi, padre Kolbe è un simbolo eterno di amore e sacrificio.Nel luogo dove l’uomo dimenticò l’umanità… lui ricordò al mondo cosa vuol dire essere umano.

domenica 3 agosto 2025

Viaggiatori nella Calabria dell’Ottocento: PHILIP JAMES ELMHIRST (di Rocco Liberti )

     Con quest’agile rivisitazione della permanenza coatta in Calabria, e specificamente nell’attuale provincia reggina, del militare e viaggiatore inglese Philip James Elmhirst Rocco Liberti dà qui avvio a una piccola serie inedita di resoconti di viaggio in Calabria ad opera di alcuni osservatori stranieri. Si trattava nella gran parte dei casi di viaggiatori tanto più interessati alla vita di questo estremo lembo della Penisola nel secolo XIX quanto più influenzati da una sovrabbondante letteratura pseudoromantica che già favoleggiava di una terra strana dominata spesso dal brigantaggio e da contraddizioni culturali talmente abnormi da venire additate sia in altre parti d’Italia sia, appunto,  all’Estero come fenomeni sociali degni di analisi e studio. A maggior ragione dunque questa e le altre preziose pagine del Liberti che seguiranno potranno dare viva testimonianza di un costume geoantropologico straniero che non ha mancato, per la propria parte, di condizionare pesantemente l’immagine di questa terra. (Bruno Demasi) 

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   Tra settembre 1809 e aprile 1810 si è trovato suo malgrado in Calabria un militare inglese, Philip James Elmhirst, ch’era stato catturato e messo in prigione. Pur essendo trattenuto per un certo tempo nei paraggi di Palmi e cioè tra Casalnuovo e Laureana, il suo status di detenuto non gli ha offerto l’agio di muoversi a piacimento. Comunque, ha avuto l’opportunità di visitare qualche centro abitato e di andare a caccia con colleghi francesi. Alla fine, scagliandosi sia contro i briganti che avverso i militari dell’esercito nemico per gli efferati atti spesso compiuti, è stato costretto a riconoscere che gli ultimi «sono dalla parte del popolo, e hanno contribuito alla sua relativa emancipazione».

     Ufficiale della real marina britannica, nato a Londra nel 1781 e ivi morto nel 1865 (secondo qualche autore nel 1866), nel 1805 è rimasto coinvolto nella famosa battaglia di Trafalgar. Incrociando nell’Adriatico tra Zante, Cefalonia e Santa Maura, a un bel momento la sua nave ha fatto naufragio a Punta Stilo. Ha subito cercato a mezzo di una scialuppa di filarsela in Sicilia, ma, per mancanza di acqua potabile, si è visto forzato ad avvicinarsi alla costa. Qui è stato arrestato e posto in quarantena a Bianco. Era il 23 settembre 1809. Il 17 ottobre veniva avviato a piedi alla volta di Gerace, dove gli si è fornita occasione di effettuare un giro in città e fare le sue considerazioni di carattere storico.

    Il 20 dello stesso mese partenza per Monteleone attraverso una plaga che gli ha permesso di esprimere valutazioni di ordine naturalistico. Indi, arrivo a Casalnuovo. Qui ha indugiato appena una giornata, infatti appresso ripartiva per Laureana, dove ha potuto ritagliarsi un quadro della situazione urbana e ambientale: «Città poco importante, situata all’estremità della pianura … Le case sono linde anche se non ben costruite; e sono basse per motivi di sicurezza contro i terremoti. Gli abitanti sono pacifici, laboriosi, allegri e rispettosi gli uni degli altri: con i forestieri sono di una cordialità e di una ospitalità straordinarie».

  Evidentemente, l’accoglienza ricevuta nella magione di Carlo Palmisano dev’essere riuscita convivialmente ottima sotto tutti i punti di vista. Ma di seguito d’altro canto ennesima nota non propriamente benevola: «In città vivono parecchi frati mendicanti ed altri fanatici, che preferiscono vivere del lavoro degli altri piuttosto che del proprio».

    Per Laureana, dove ha preso alloggio nell’abitazione di un avvocato, ha soltanto: «paese situato in una piacevole posizione ai piedi della montagna». Ma non ha dimenticato di accennare all’assalto dei briganti che aveva dovuto subire alquanti giorni prima.

   Nuovo commiato il 22 e il giorno successivo eccolo a Monteleone via Mileto. La lunga sosta ivi gli permette di divagare alquanto in relazione alla crudeltà di francesi e fuorilegge, indole degli abitanti, prodotti, usi e costumi, come pure sulla condizione delle case e sulle festività natalizie. Il tutto si è trascinato fino all’anno susseguente, ma il 10 febbraio 1810 è arrivata alfine l’ora della libertà. Partito di mattina, in serata è pervenuto in quel di Rosarno «una città importante, situata in un’amena posizione lungo la costa, una campagna fertile e ricca d’alberi» e celebrata per «l’eccellente vino» che vi si produceva. Transitando per la Piana ha potuto rivolgere uno sguardo alle distruzioni operate dai terremoti e a trarne delle stime. Il 16 ha toccato Seminara, al cui proposito ancora ha ricordato i sismi e i banditi dai quali il territorio era afflitto. L’11 marzo è giunto finalmente a Villa. Libero a Messina il 21, si è poi imbarcato per Malta, ma solo il 13 aprile ha toccato terra a Cefalonia. Il 15 era ormai in salvo sulla sua nave.

   Nel 1812 si è trovato in Spagna, quindi ha partecipato all’attacco a New Orleans. Per una ferita ricevuta in quel di Trafalgar, oltre la pensione, ha ricevuto in premio a Otonabee mille acri di terreno, ma in seguito è rientrato in patria[1].

    Le peripezie di Elmhirst sono state affidate a una pubblicazione in lingua inglese edita a Londra nel 1819 da Baldwin, Cradock, and Joy col titolo “Occurrences during a Six Months Residence in the Province of Calabria Ulteriore, in the Kingdom of Naples, in the Years 1809, 1810; containing a Description of the Country, Remarks on the Manners and Customs of the Inhabitants, and Observations on the Conduct of the Frenck toward them, with Instances of their Oppression, &c. By Lieutenant P. J. Elmirst, R: N. 8vo, Baldwin and Co 1819[2]. Nel 1998 n’è stata curata un’edizione italiana da M. Martino per l’Editrice Prometeo di Castrovillari con titolo “Occurrences in Calabria nel 1909-1810”. Infine, nel 2010 il lavoro, con traduzione di Giorgio Massacra, è entrato a far parte della pregiata collana diretta da Vittorio Cappelli per l’Editore Rubbettino con intestazione “Nella Terra dei “selvaggi d’Europa”.

     Sulla coeva rivista inglese “The British critic” pubblicata proprio nel 1817 all’opera in questione sono dedicate ben nove pagine. Se ne commenta col riporto di parecchi tratti. Tale si offre come “un piccolo volume modesto, sensato, scritto senza alcuna pretesa di nulla al di là di una semplice narrazione degli avvenimenti”. Elmirst in buona sostanza “ha raccontato la sua storia in maniera semplice, succinta e con pochi dettagli, e questo è il miglior elogio a cui dovrebbe mirare uno scrittore di viaggi, il valore intrinseco della sua storia è un’altra questione”. Il merito, quindi, va attribuito a quel che racconta più che a come racconta[3]

Rocco Liberti

[1] A Naval Biographical Dictionary: comprising the life and services of every living officer in her Majesty’s navy etc., by William R. O’Byrne, Esq., London, John Murray, 1849, p. 336; History of the Count of Peterborough, Ontario, Toronto, C. Blakett Robinson, 5 Jordan Street, 1884, p. 679.
[2] The British critic, new series; vol XI, London 1819, p. p. 67.
[3] Ivi, pp. 26, 75. I riporti non segnalati in nota sono tratti dal volume stampato dalla Rubbettino.

mercoledì 30 luglio 2025

DOPO 90 ANNI LA CALABRIA ANCORA AMARA E DOLCISSIMA DI CESARE PAVESE ( di Romano Pesavento)


   In queste settimane ricorrono i 90 anni dall’arrivo di Cesare Pavese al confino di Brancaleone Calabro ( 4 agosto 1935) e i 75 dalla sua prematura scomparsa (27 agosto 1950): come si fa a non ricordare queste due date tanto importanti non solo per gli studiosi dello scrittore e poeta piemontese, ma anche per la terra di Calabria che a lui deve una visione di sé assolutamente inedita eppure ancora oggi poco conosciuta? Ho accennato a Pavese qualche tempo fa su questo blog ( Clicca qui per aprire l’articolo: UN BRANCO DI ALUNNI DISTRATTI , BRANCALEONE E CESARE PAVESE  ), ma non si può assolutamente trascurare l’immagine emozionante qui colta da Romano Pesavento, che, ricostruendo la vita di Pavese immersa nella realtà di Brancaleone, dà vita a una pagina di rara suggestione. Vi coniuga infatti l’ammirazione per la figura di un  innamorato di questa terra col fascino della  narrazione   di ciò che gli occhi dell’esule vedono  di volta in volta in  flash che sanno di eterno  e fa rivivivere   il rapporto  strettissimo tra un poeta vero e quella terra di Calabria che , malgrado tutto, della poesia sa essere ancora custode fiera e  gelosa. (Bruno Demasi)

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    Passeggiando tra le campagne e le spiagge assolate, tra gli angoli remoti e gli sguardi greci degli abitanti, nel caldo abbacinante estivo di un piccolo paesino, Brancaleone Calabro, situato sulla fascia ionica..., non può che venire in mente agli amanti della letteratura la figura di un intellettuale piemontese: Cesare Pavese. Egli seppe cogliere sfumature e dettagli dei nostri luoghi e della nostra gente ancora attuali, vividi ed efficaci: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono 'Este u’ confinatu', lo dicono e lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico e sono bello e contento. I colori della campagna sono greci. Rocce gialle o rosse, verdechiaro di fichindiani e agavi, rose di leandri e gerani, a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata, e colline spelacchiate brunoliva.” ( lettera alla sorella Maria dal confino, 27.12.1935); ed ancora nella lettera del 9 agosto 1935 indirizzata a Maria ,si legge: “Qui ho trovato una grande accoglienza: brave persone abituate al peggio cercano in tutti i modi di tenermi buono e caro….Che qui siano tutti sporchi è una leggenda, sono cotti dal sole…”.
   
    Indipendentemente da queste riflessioni, per certi versi benevole e lusinghiere, nei confronti della terra di confino, bisogna riconoscere che, come è stato osservato da più parti e come lo stesso Pavese sottolinea più volte, l’approccio, l’incontro con il mondo calabrese non è stato tra i più facili: troppa era la distanza tra il colto, ironico, malinconico intellettuale piemontese e la “selvaticità” del paese di confino. “La mia stanza ha davanti un cortiletto, poi la ferrovia, poi il mare. Cinque o sei volte al giorno mi si rinnova così la nostalgia dietro i treni che passano. Indifferente mi lasciano invece i piroscafi all’orizzonte e la luna nel mare che con tutti i suoi chiarori mi fa pensare solo al pesce fritto. Inutile, il mare è una gran vaccata.” (Lettera a Maria 19.08.1935.)   Eppure il soggiorno forzato nella nostra terra (dal 1935 al 1936) ha rappresentato un fondamentale punto di svolta nella produzione lirico-narrativa del poeta; tale concetto può essere sostenuto e dimostrato con reale evidenza di fatti. “Fatti” letterari e biografici, per intenderci. Ricostruire il percorso umano ed artistico dello scrittore piemontese è possibile attraverso le opere e attraverso – forse in modo anche più fruttuoso – gli sfoghi diaristici, gli scambi epistolari con le persone care della sua vita.

   Pertanto, pur non avendo la pretesa di avventurarci in un’esegesi del pensiero pavesiano, mediante la lettura attenta di questo vasto materiale, anche al lettore meno “istruito” possono presentarsi con immediata vivezza immagini, echi, suggestioni intrisi dei profumi, dei colori dei nostri luoghi, con tutto il bene e il male che ne deriva.

   In alcuni passi dedicati nel carteggio alle nostre zone Pavese, a tratti, manifesta un senso di fastidio – se non di vero e proprio orrore – verso luoghi malsani per la propria cagionevole salute: inverni piovosi e umidi ed estati torride e infestate da voraci e ipercinetici scarafaggi; per non parlare della percezione soffocante della noia, comune denominatore delle giornate di confino, vissuta come un tarlo interiore inesorabile, di sapore dichiaratamente “leopardiano”. 

  Nelle lettere, molto spesso, è ostinatamente mantenuto una sorta di distacco ironico tra la realtà di Brancaleone e lo sguardo “estraneo” e straniero di Pavese; a tratti, questo costante senso di lontananza fa pensare ad un proposito, da parte dello scrittore, di non legarsi ai luoghi del confino, allo scopo di viverli essenzialmente ed esclusivamente come un/ il carcere. In alcuni passi egli ama dipingersi come una figura “epica”, dai tratti tragi-comici, in balià di situazioni che definisce “disgrazie”.Tuttavia,è proprio l’esperienza della solitudine, fino ad allora sempre inseguita come unico “status possibile" nella falsità sociale, a produrre nell’autore il tanto agognato salto qualitativo in campo artistico. In un certo senso,possiamo dire che è proprio l’isolamento di Brancaleone, la riflessione forzata ,la ricerca interiore la “sedimentazione” più o meno consapevole di volti, immagini e situazioni calabresi a produrre quel turbamento interiore foriero di cambiamenti determinanti nell’uomo e nel letterato. Ed è proprio a Bancaleone che Pavese volge il suo sguardo durante la stesura e la rielaborazione delle sue esperienze di confinato nel racconto – fortemente autobiografico – Il carcere.

    La natura, la donna, la povertà e l’ambiguità passionale degli abitanti sono proposti ai lettori come un mistero insondabile e inspiegabile. Forse per capire il/i sentimenti molteplici e contrastanti dello scrittore nei confronti della Calabria si può partire giusto dalla figura di Concia, presenza enigmatica in tutta l’opera e mai disvelata fino alla fine: “La sua fantasia diede un balzo quando vide un mattino su quella scaletta una certa ragazza. L’aveva veduta girare in paese –la sola- con passo scattante e contenuto, quasi una danza impertinente, levando erta sui fianchi il viso bruno e caprino con una sicurezza ch’era un sorriso. Era una serva …È bella come una capra. qualcosa tra la statua e la capra…” ("Il carcere") 

  Concia parla e interagisce poco con gli altri personaggi ; eppure nella sua inafferrabilità, nella sua duplice natura umana e ferina, non solo permea di sé tutta la vicenda, ma addirittura sembra incarnare la complessità di un intera terra : selvaggia e aggraziata, misera e canzonatoria, rassegnata e violenta.Concia è un po’ l’emblema di quella donna-Natura che ritroviamo in tante poesie di Pavese e fa pensare a quelle creature della mitologia greca (satiri, sirene ed altri “ibridi”), capaci di destare ammirazione e panico (dal nome del dio Pan)in chi le osserva ; qualcosa di simile doveva provare Pavese per il suo personaggio, creatura non nata dall’estro artistico ma da un incontro reale con una donna di Brancaleone, il cui nome era davvero Concetta. E anche il mare, il mare ionico, come Concia, costituisce una presenza ossessiva e simbolica con la sua carica di significati ancestrali e terrifici nell’immaginario e nel vissuto dello scrittore: il mare è la vita, la morte, desiderio di fuga e prigionia, è la distesa placida e il pericolo in agguato. Probabilmente sono la “doppiezza”, il “bifrontismo”, la complessità di luoghi e persone a disorientare, intimidire e irritare,a volte, lo scrittore, che, tuttavia, riesce a trasmettere tutto il suo disagio e la sua meraviglia in ogni singola pagina.
   
    In definitiva, le descrizioni di luoghi e visi captano molto più di quanto si possa prefiggere la nuda referenzialità: Pavese riesce a carpire, a tratti, quello che è il mistero, l’essenza, lo spirito del Sud di allora :” Gli antri bui delle porte basse le poche finestre spalancate e i visi scuri,il riserbo delle donne anche quando uscivano in strada a vuotare le terraglie, facevano con lo splendore dell’aria un contrasto che aumentava l’isolamento di Stefano”.“le prime case avevano quasi un volto amico. Riapparivano raccolte sotto il poggio, caldo nell’aria limpida, e sapere che davanti avevano il mare tranquillo le rendeva cordiali alla vista ….” ("Il carcere"). Ombra e luce, attrazione e repulsione si fondono quasi alchemicamente nella tessitura della “poesia racconto” di chi ammetterà in seguito di aver guardato con “occhi tanto scontrosi” alla realtà calabrese. Occhi che di certo non mancano di acutezza, e forse non erano del tutto immuni dalla malìa della nostra terra. 
                                     
                                                                                                                  Romano Pesavento