sabato 10 luglio 2021

LA RICCHEZZA BIZANTINA DI OPPIDO (Parte II – Popolo e Società)

             di Bruno Demasi

     A osservare oggi con occhio disincantanto quel che resta (ed è ancora tanto malgrado la criminale incuria antica e attuale di chi avrebbe dovuto preservarla dai danni arrecati dal tempo e dalla mano dell’uomo) della fortezza tanto imponente di Oppido nella sua ultima edizione angioino-aragonese, viene da chiedersi non solo quale fosse la sua fisionomia a guardia del Castron in età bizantina, ma quale e quanta parte di popolazione essa governasse e/o proteggesse dall’alto dei suoi bastioni. Si presume un insediamento sempre consistente lungo i secoli sia pure in rapporto alla irregolarissima densità abitativa di queste contrade dall’età bruzia almeno fino all’abolizione della feudalità, ma, a ragion veduta, dobbiamo pensare che ad epoche di discreto popolamento della zona siano succeduti momenti di spopolamento quasi totale e di abbandono in gran parte inspiegabile e che con ogni probabilità il periodo di massima densità abitativa e di maggiore ricchezza sociale e amministrativa di Oppidum (ribattezzato Hagia Agathè) vada individuato nel periodo della seconda colonizzazione greca, che passa sotto la denominazione di ” periodo bizantino”. 

      Discorso a parte , anche sotto questo aspetto, meriterebbero il periodo bruzio-ellenistico e quello coevo alla Roma repubblicana nel corso della lunghissima vita di questa città, con ogni probabilità la Mamerto di cui parla Strabone, posta a mezza strada tra la colonia di Locri e Region, primo nucleo abitativo di quell’Oppidum, sorto in seguito più a monte, di cui ancora vediamo le fastigia nella loro tessitura tardo imperiale e poi medioevale. Non si hanno comunque notizie rilevanti sulla consistenza della popolazione di questa città neanche nei primi secoli dell’era volgare, sebbene gli scavi di Paolo Visonà abbiano documentato il passaggio accanto ad essa di un ‘importantissima via di comunicazione tra la costa tirrenica e il dromo, che percorreva la dorsale aspromontana con il suo punto di forza nella forezza di Tavola, e da esso alla costa ionica. Si trattava di una imponente strada risalente all’età tardoimperiale ( IV- V secolo d. C.) ancora oggi leggibilissima con i sepolcreti ai suoi margini secondo l’uso romano.


    Ed è proprio la presenza di tali e tante sepolture che fa pensare a Oppidum nella stessa epoca come a un centro non solo militare e amministrativo, ma anche commerciale di prima importanza nell’economia di quella che sarebbe diventata la Tourma delle Saline qualche secolo più tardi con l’arrivo dei Bizantini. La popolazione stanziale nel periodo in esame era sicuramente consistente, arricchita da quella transeunte dedita prevalentemente ai commerci dall’una all’altra costa di questo lembo estremo di Calabria. Poi un inspiegabile silenzio denso di misteri sia per la città fortificata più recente sia per la vicina città più antica che inizia a riciclarsi come mellah ( Cfr. IL GIALLO DI “MELLA” e “MAMERTO” : da uno pseudotoponimo alle ragioni storiche), assorbe i traffici, le attività produttive e la vitalità, mentre l’insediamento fortificato sembrerebbe chiudersi in se stesso, con una vocazione prevalentemente militaresca, e perdere il primato del popolamento che evidentemente aveva avuto in età ellenistica prima e romana poi. 

    Subentra a questo punto l’interesse di Bisanzio per il territorio di Oppidum già all’epoca della spedizione sfociata nella famosa guerra Greco-Gotica (535-553 d.C). E solo pochi anni dopo si avverte confusamente l’eco dell’arrivo dei Longobardi a minacciare il Ducato di Calabria che comprendeva anche parte della Puglia e aveva capitale prima ad Otranto poi a Reggio. Da ricordare infatti che l’espressione “ Calabria “ nella sua originaria valenza latina indicava inizialmente l’attuale Salento, ma i Bizantini in epoca giustinianea lo unificarono con la Calabria attuale deando vita al cosiddertto “Ducato di Calabria” nel VI secolo. Nel frattempo il Salento, conquistato dai Longobardi, prendeva il nome di Terra d’Otranto. Mentre i Longobardi avanzavano, la Calabria rimaneva territorio bizantino ancora nell’VIII secolo e in quello successivo si estendeva da Reggio a Rossano, mentre il resto della regione fisica, l’attuale area del cosentino, restava territorio longobardo.

   Nei primi decenni del IX secolo gli Arabi sbarcavano in Sicilia e solo in qualche decina di anni conquistavano l’isola che diventava territorio musulmano. Anche la Calabria era a tal punto minacciata. Una nuova spedizione bizantina sbarcava sull’attuale costa crotonese sul finire del IX secolo e riconquistava la parte nord della Calabria, compresa Cosenza. Ne è testimonianza la nascita nella zona di vari monasteri e chiese di rito ortodosso. E risale proprio agli albori del X secolo la conquista araba di Taormina e Reggio e soprattutto l’accordo tra Arabi e Bizantini per il versamento da parte di questi ultimi di un tributo annuo in cambio della pace. Un accordo che comunque non produceva frutti consistenti, se è vero che, proprio in questo scorcio di tempo, larga parte del territorio calabrese diveniva teatro di sanguinose scorrerie saracene ad opera di manipoli di esaltati che partivano frequentemente dalla Sicilia fino a dare vita molto presto alla marcia su Region, abbandonata dalla popolazione insieme a molti piccoli centri del suo entroterra, tra cui Sant’Agata, e si spingevano fino a Gerace sottomettendola nel sangue. 

   Risale plausibilmente a questo momento il ripopolamento bizantino di Oppidum che, secondo la consuetudine greca, viene ribattezzato col nome di un santo, nella fattispecie quello di Sant’ Agata (Hagia Agathè), con la presenza dei transfughi già stanziati nei dintorni di Region che si rifugiano nell’antico insediamento multietnico e multireligioso dell’Aspromonte pressochè abbandonato e vi creano, su una preesistente e rudimentale fortificazione, un castron capace di garantire per la sua posizione una relativa tranquillità alla sua popolazione ormai mista che nel ricco insediamento del mellah più a valle trova fonte di vita e di sostentamento.

   Lo scoppio di una guerra civile in Sicilia nel 1031-32 pone fine alle incursioni saracene in Calabria e un relativo periodo di pace e di convivenza tra Bizantini e Arabi, durante il quale il popolo del mellah a valle di Hagia Agathè può paradossalmente entrare e uscire liberamente nella rocca bizantina e vivificarla. E’ questo il momento fotografato dalle donazioni dei privati al vescovo riportate sulla pergamena scoperta e pubblicata da Andrè Guillou ( A. Guillou: La theotokos de Hagia Agathè – Oppido - , L.E.V., Roma, 1972) che ci consentono con sufficiente rigore di conoscere la composizione della popolazione nella Oppido degli anni 1050 – 1064/65 e che documentano come all’epoca il ripopolamento fosse ormai ampiamente avvenuto. L’ attenta e meticolosa analisi dello studioso francese (Ibidem) documenta in modo scientifico quale fosse la composizione della popolazione di Hagia Agathè (Oppidum) nel quindicennio considerato:
- per il 70% Greci;
- per il 17% Latini;
- per il 13% Arabi.

   All’interno di queste percentuali ovviamente andrebbero individuate delle subpercentuali di popolazione armena ed ebraica residente o transeunte, prevalentemente di nazionalità o naturalizzazione greca. 


    I nomi di sicura origine greca sono preponderanti e indicano quali dimensioni abbia potuto avere l’esodo bizantino dalla zona di Region verso l’entroterra oppidese ( li indico anche io esemplificativamente con grafia latina): Abakaletos; Agrappidès; Antonios; Arkometès; Arkoumanos; Arkophagas; Armatones; Armenitès; Atzamoros; Barbaros; Baropodeès; Christodoulos; Daniel; Dialektè; Dikouros; Georgios; Gerasimos Gregorios, Eupraxios; Eustathios; Euphemios; Elias; Theodòros; Thèodotè; Janou; Joannes; Kalabros; Kalokyros; Kappadokas; Kardoulos; Kariotès; Kasanitès; Klatzanès; Katzarès; Kiryakos; Komenos; Kometò; Konddena; Konddobasiles; Kondos; Koukkaphournès; Lachanas; Logaràs; Magidios; Manddaranès; Maurokotarès; Megalà; Metzekissès; Moukourès; Nicetas; Nicephore; Nicolas; Nikon; Nizon; Pathoi; Raptès; Scholarios;Phodelos; Photeinos; Photes; Soterikos; Spanos; Spatharès; Tosophrogaurès; Xenios; Xiraphès.
     I nomi di origine latina (molti dei quali ellenizzati nella terminazione) rispetto a quelli greci sono percentualmente pochi e indicano a quale livello di spopolamento fosse giunto il Terrritorio prima dell’arrivo dei Bizantini. Ecco i più ricorrenti dei quali, al contrario di quelli greci, si è persa quasi traccia: Aukarienos/ Aucarius (allevatore d’oche) ; Berbikarès/ Berbicarius/ Vervicarius (pastore); Egidaris/ Egidarius; Gemellarios/ Gemellus; Koloradès/ Coloretum (bosco di noccioli); Makellarès/ Macellarius; Masaritès/Masura (mugnaio); Oursos; Ploutinos; Tilirikos / Tilia (tiglio).

      Interessantissimi i nomi di origine araba che nella classifica stilata da Guillou occupano soltanto un 13% che di fatti è molto riduttiva rispetto alla realtà per almeno due ordini di motivi: i nomi arabi sono di per sè pochi e ripetitivi; gli Arabi insieme agli Ebrei erano relegati dai greci nel mellah che era ubicato più a valle rispetto a  Oppidum  ed era il luogo dove si svolgevano i traffici commerciali più intensi, spesso in forme semiclandestine.    In ogni caso Ebrei ed Arabi residenti nel mellah, nella stragrande maggioranza dei casi, oltre a non possedere ufficialmente appezzamenti di terreno, non avrebbero mai fatto donazioni liberali al vescovo cattolico di Oppidum, e ciò spiega il numero molto ridotto dei loro nomi nelle donazioni prese in esame a fronte di un numero reale che invece era sicuramente molto più abbondante. Questi i nomi più ricorrenti, anch’essi spesso ellenizzati nella terminazione: Albake..ei/ Al Baqi (residente); Asanòs / Hasan; Barchabas / Bar Haba; Charerès/ Ar – hariri (tessitore di seta); Channitès Mamour/ Ma’ mur; Moulè /Moulei ; Okhanos; Selimòs/ Selim.

 Complessivamente la ricchezza e la varietà dei nomi indicano dunque un ripopolamento del castron oppidese estremamente significativo e un volume di traffici commerciali e di rapporti sociali di tutto rispetto.,

   Quanto ai toponimi le percentuali individuate dal Gouillou mantengono sostanzialmente lo stesso andamento di quelle relative ai nomi, ma il misero 4% attribuibile ai toponimi di origine araba ( due soli: Avaria/ Abariah e Nardon) indica chiaramente la pervasività dell’elemento graco che addirittura assurge al 71%, facendo chiaramente intendere che l’elemento bizantino nel volgere di pochissimo tempo ribattezzò quasi completamente non solo la città in sè, ma quasi tutti i luoghi di nuova giurisdizione. Precisamente:


- Toponimi di origine greca: 71%;
- Toponimi di origine latina: 25%;
- Toponimi di origine araba: 4%.

    Questi i toponimi greci: Boutzanon ( barile); Dadin (torchio); Dapidalbòn ( stabile) Hagia- Agathè; Kannabareia ( canapa); Lakoutzana (palude); Lychnos ( lampada); Mystritzena ( cucchiaio di legno);Plagitana (terreno incolto); Kellibitzanos (cenobita?) Skidon (scheggia di legno); Spitizanon (luogo ospitale); Photakei; Katasykas (albero di fico); Myrosmas( deposito di salgemma?); Nomikisès; Sikelos e Sikron (unità di misure ebraiche): Sinopolis..

   I toponimi di origine latina scampati alla tempesta iconoclasta greca e presenti nelle donazioni sono invece pochissimi:; Radikèna; Roubiklon(quercia); Salinae; Friguriana; Oppidon.

    Paradossalmente qualla che doveva essere una vera e propria occupazione di una città in decadenza, si rivelò per Oppidum, nella sua nuova denominazione intitolata alla Santa siracusana per eccellenza, una rinascita vera e propria, forse il periodo di massimo splendore . La città sotto il dominio bizantino crebbe a dismisura sul piano sociale, economico, strategico e culturale con la sua rigida, ma efficace stratificazione piramidale della popolazione. Al vertice il vescovo, capo assoluto della città e dell’intera Tourma delle Saline, quindi preti, strateghi, monaci, arconti, funzionari governativi e amministrativi di ogni genere,militari, contadini e allevatori di bestiame. La mercatura, l’artigianato, la tintoria e la tessitura , la farmacopea, la medicina invece erano affidatate agli Arabi e agli Ebrei del mellah di Oppidum e di tutti i mellah che costituivano contemporaneamente la fogna e il grande tesoro di ogni centro abitato dell’intera Tourma.

lunedì 5 luglio 2021

UN GRANDE CALABRESE, TOMMASO POLISTINA, CAMPIONE DI FEDE, CULTURA E PATRIOTTISMO


di Naty Polistina

   Un'altra figura di formazione oppidese quasi dimenticata nonostante abbia ampiamente segnato la scena culturale e religiosa calabra e italiana  della seconda metà dell'Ottocento, nel ricordo commosso e ammirato di una  Oppidese che vive ancora con orgoglio e passione la propria terra nonostante vi manchi da molti anni. Abituati, come siamo, agli assembramenti sempre più caotici e inconsistenti della scena politica e culturale dei nostri giorni, siamo quasi indotti a dimenticare totalmente queste peculiari figure del passato che per coerenza e singolarità di impegno civile, ideologico e religioso, hanno lasciato tracce notevoli nella storia e nella fisionomia culturale di questa martoriata regione . E’ il caso di Tommaso Polistina. (Bruno Demasi)
 
      Nato a Favazzina, frazione di Scilla, il 4 ottobre 1844, Tommaso Polistina frequentò gli studi classici presso il valente Seminario Vescovile di Oppido Mamertina proprio sullo scorcio di quegli  anni ’60  che vedevano giungere in Sicilia e poi in Calabria le truppe garibaldine portatrici per tanti di un sogno destinato a restare irrealizzato: la distribuzione delle terre ai contadini più che l’annessione , che poi di fatto  avvenne, al Piemonte..  Anni di grandissime e rapide trasformazioni la cui eco probabilmente arrivava ovattata, ma non distorta, nelle austere aule del seminario oppidese, che la famiglia aveva preferito a quello, ben più facilmente raggiungibile, di Mileto per la formazione del loro promettente e intelligente ragazzo sia perchè i Polistina evidentemente avevano delle frequentazioni con Oppido, come molti Scillesi, alcuni dei quali poi naturalizzati nella città aspromontana, sia perchè sicuramente conoscevano il valore di quel rinomato luogo di studio e di formazione. 

Oppido nell'Ottocento
     Il giovane non deluse la propia famiglia e i propri maestri, conseguì brillantemente in Oppido il titolo di studio che gli permise poi di affrontare con entusiasmo gli studi giurisprudenziali a Napoli, dove conseguì la laurea nel 1867. Nella città partenopea iniziò la sua carriera di avvocato distinguendosi per professionalità e impegno morale, collaborando assiduamente con i più illustri maestri del Foro. Fu Presidente del nascente Circolo Giovanile Cattolico che guidò e sostenne con grande dedizione.

     Nel 1891 si trasferì a Reggio Calabria dove sposò la nobildonna Sinopoli Battaglia dalla quale ebbe numerose figlie. Nel Foro reggino occupò un posto di rilievo e, con Diego Vitrioli, Peppino Andiloro e Domenico e Filippo Aliquò fu membro del Movimento di Azione Cattolica con la ferma intenzione di trasformare la situazione locale rimasta estranea alla evoluzione culturale in atto (V. A. Tucci, Il Movimento cattolico calabrese nel Novecento, in “Rendiconti della Rivista di Storia calabrese del ‘900”.). Collaborò significativamente a importanti giornali come “Il Mattino”, “La Civiltà Cattolica” e il giornale cattolico reggino “L’Indipendente”e non si risparmiò come strenuo difensore di varie cause di cattolici in un clima di tensioni tra fazioni clericali e anticlericali. 

Scilla in una incisione ottocentesca
     Sull’onestà intellettuale e professionale di Tommaso Polistina e sulla sua testimonianza di uomo integerrimo e maestro di valori morali Gaetano de Felice pubblicò sull’Osservatore Romano parole cariche di elogio: “Forse non sono molti, specie fuori dall’Italia Meridionale, coloro che siano in grado di valutare l’entità storica della figura di Tommaso Polistina […] Esercitava, l’avvocatura come missione di bene, ed era tanto rigido nel valutare le ragioni dei clienti quanto nel misurare le sue spettanze. Mio zio gli affidò un affare, sollecitamente espletato; e gli mandò, per ringraziarlo, una lettera ossequiosa con tre biglietti da cento lire; ma, nel giorno stesso, il Polistina gliene restituì duecento, dichiarando che, per quanto aveva fatto il giusto compenso era quello! Intesa così la professione non poteva certo arricchirlo materialmente; ma lo arricchì moralmente; circondandolo della stima profonda dei colleghi, compresi quelli che bizze partigiane allontanavano da lui. Io lo seguii fin dalla mia prima infanzia; e m’è chiaro dichiarare che, se nella vita che Dio mi concesse, non breve né lieta, qualcosa di bene mi fu dato operare, in buona parte ne fu ispiratore lui, spesso con un consiglio, sempre con l’esempio [...]” (G. De Felice, Pionieri cattolici nel secolo XIX. Tommaso Polistina, in “Fede e Civiltà”, III serie, nn. 4 e 5, 22 e 29 gennaio 1936, pp. 509-513).

    Tommaso Polistina fu uomo colto e appassionato, per la sua capacità di passare agilmente dalla filosofia, alla politica, dalla religione all’arte e alla letteratura, si occupò con dedizione alla questione del Mezzogiorno, non risolta dall’Unità d’Italia e grazie alla sua facilità nello scrivere denunciò e criticò senza remore gli avversari del malinteso spirito unitario, pubblicando numerosi articoli sulla Rivista “Fede e Civiltà” di cui fu Direttore.  Nel 1869 in occasione della convocazione del Concilio Vaticano I gli fu affidato dal Pontefice la redazione del discorso augurale riprodotto ed esaltato da tutta la stampa cattolica d’Italia.  Nel 1871 cedette la presidenza dell’Accademia della Gioventù Cattolica dell’Immacolata a Biagio Roberti e dopo la presidenza del sen. Raffaele Cappelli, che aveva dato alla Fondazione un’impronta politica non gradita al Pontefice, Tommaso Polistina fu rieletto presidente dedicandosi indefessamente al rifiorire dell’Accademia. Per la stessa Accademia, nel 1875, scrisse sul tema nuovo e ardito “Dell’infallibilità pontificia nei rapporti sociali”; il suo impegno fu benedetto, lodato, sostenuto e incoraggiato dall’allora Pontefice Pio IX che gli dedicò Breve. 

Maria Mariotti
    Di lui la grande Maria Mariotti trascrive un passaggio tratto dall’elogio funebre che delinea con intensità e riconoscenza il suo impegno di uomo e pioniere cattolico, di giurista e di studioso di fama (da G. Calabrò, Tommaso Polistina, in “Fede e Civiltà”, III serie, n. 32, 7 agosto 1926, pp. 506-508):

“Il suo stile era… l’uomo; pieno, elegante, nervoso, fiorito; aveva a volte squisitezze di sentita poesia, quando toccava le delicate corde dei carismi della fede e degli affetti della famiglia e della Patria. A taluno poté sembrare che l’avvocato Polistina sentisse un po' troppo di sé; ma, per un uomo coltissimo e tutto di un pezzo come lui, era naturale un certo sorriso di compatimento per certe mezze intelligenze e certi mezzi – caratteri che, arrampicatisi faticosamente sull’albero della cuccagna si proclamavan giganti. A tal altro poté sembrare che l’avvocato Polistina avesse un po' il prurito delle polemiche andasse stuzzicando gli avversari; ma, confessiamolo, in quel tempo che specialmente nei nostri Tribunali la massoneria sfoggiava sfacciatamente il suo anticlericalismo, e i nostri migliori professionisti si chiudevano in un deplorevole silenzio, figlio di un vile rispetto umano, era pur bello questo cavaliere errante dell’ideale che si accapigliava coi colleghi, coi giudici, coi presidenti per ogni questione di religione o di morale, anche a scapito della propria causa e a danno del proprio cliente […]”
(M. Mariotti, La proposta socio-economica di un “intransigente” calabrese: Tommaso Polistina (1848-1926), in “Memoria e Profezia”, Ist. Sup. di Scienze Religiose di Reggio Calabria nel XX Anniversario di Fondazione, Tip. Zappia, Reggio Calabria 1994, pp. 433-458).

    Tommaso Polistina fu modello di cattolico militante e di professionista perfetto e visse con tanta integrità e sobrietà da sembrare addirittura eccessivo alla società del suo tempo.  Si spense a Napoli, come aveva vissuto, serenamente il 1 agosto del 1926.