di Bruno Demasi
Nel
clima festoso ( per chi ancora ci tiene almeno un po’) della Festa della
Liberazione sorge la domanda di sempre:
riscattare una terra, una gente – quella della Piana – dal sopruso,
dall’intrigo mafioso e non, dall’abbandono sociale e culturale è possibile anche attraverso una sana opera di
rievangelizzazione?
E, per
contro, evangelizzare significa anche
da queste parti avere a cuore il
superamento della nuova barbarie in cui, per tanti versi, scade
quotidianamente questa terra nel
silenzio distratto o addirittura complice di tante espressioni istituzionali e non?
Riflettiamo con umiltà ... sulle
orme di Paolo e con un occhio alla
nostra Costituzione.
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E’ evidente che la nuova evangelizzazione
della Piana non può ridursi a un “risanamento” etico
pianificabile a tavolino , essa, piuttosto, va realizzata da persone disponibili, senza interessi personali e senza
riserve, a testimoniare la novità redentrice dei Risorto di fronte a coloro
che, pur avendola già sperimentata, l’hanno dimenticata e davanti a coloro che,
non essendo riusciti ancora a recepirne l’annuncio, non la conoscono.
Dunque , se
evangelizzare è compito dei
“movimenti ecclesiali ” operanti sulla Piana ( una percentuale irrisoria
di battezzati, cui spesso nelle
parrocchie o si tarpa la voce o si delega semplicisticamente, per pigrizia, tutto l’annuncio) e in generale dei laici fedeli al loro laicato
e non in cerca di scimmiottare o addirittura di pensare di sostituirsi al
clero, compito è anche e soprattutto di
coloro che continuano la missione evangelizzatrice, che fu prima di Cristo
stesso e poi dei Dodici e dei loro più intimi collaboratori: i presbiteri
“apostoli per vocazione ” (cf. Rm 1, 1 ).
E’
proprio dei presbiteri l’annuncio del Vangelo e la presidenza nella
celebrazione dei sacramenti, la quale fonda pure la loro irrinunciabile presidenza
nella carità pastorale. Questi ministeri del presbitero non sono separati
e contrapposti, ma intimamente coerenti. Per cui i sacramenti —
soprattutto l’Eucarestia, che è “ fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione”
(Presbyterorum ordinis, 5) –, che proclamano e riattualizzano la Pasqua
del Signore, altro non sono che la forma più pregnante in cui la Parola che
salva si realizza nella vita della Chiesa e di ciascun suo membro. In altri
termini, come in molti sottolineano, basterebbe questa considerazione per far
risaltare che il presbitero è, costitutivamente,
un artefice essenziale della nuova evangelizzazione in seno alla comunità
ecclesiale; il suo ministero di “liturgo” sembra il massimo grado di
(ri)evangelizzazione, sempre nuova e salvifica, che ricorda continuamente ai
cristiani di essere dei salvati in Cristo Gesù.
Ma un tale “profilo” del presbitero
evangelizzatore esige una permanente verifica e un costante confronto con i
“connotati” di coloro che, “apostoli per vocazione”, furono i primi
evangelizzatori. Qui ci piace riferirci soprattutto a Paolo, il primo evangelizzatore
di queste terre, con cui peraltro inizia l’evangelizzazione dell’Europa e di
cui sorprende sempre la modernità nella comunicazione e nell’annuncio.
Ad Atene, ad esempio, egli tiene il discorso dell’areopago davanti a persone che hanno solo una vaga
credenza nella divinità e che confidano nelle filosofie più in voga .
Paolo svela loro l’identità del “Dio ignoto”, proclamando il Vangelo del
Risorto: “Quello che voi non conoscete, io ve lo annuncio” (At 17,23). Ma lo fa con discrezione e secondo le
categorie neotiche e terminologiche di quei pagani, avvertendo nella loro
indefinita religiosità una sorta di inquietudine, un anelito alla Verità.
E tuttavia senza irenismo culturale, perchè l’irenismo e il clericalismo, da qualunque
parte provengano, restano i mali sottili che impediscono o ritardano o
inquinano una sana opera di rievangelizzazione , come sovente accade nella
nostra Piana.
Paolo sa che la novità del Cristo non può
essere argomentata, ma semplicemente narrata e testimoniata. Ciò nonostante
fallisce; ma non disarma. Anzi, il fallimento di Atene lo conferma nella
convinzione che ai nuovi interlocutori la Buona Novella dev’essere annunciata
in tutta la sua apparente stoltezza, così come ai Giudei essa è proclamata in
tutta la sua portata di scandalo. Uno scandalo o una insipienza che non può
essere stemperata con gli orpelli
retorici della sapienza fine a se stessa (cf. 1 Cor 1,17-2,7) o con
l’allestimento di eventi “religiosi” fini a se stessi.
Paolo resta fedele all’annuncio che sente di
dover fare ad ogni costo: “Tutto io faccio per il Vangelo” (1 Cor 9,23).
Privo di ogni interesse che non sia quello di “predicare gratuitamente il Vangelo”,
egli annuncia la novità evangelica, in modo sempre nuovo, alle varie categorie
di persone che incontra: “coloro che sono sotto la legge”, “coloro che non
hanno legge”, “coloro che sono deboli” (Tre categorie di persone
particolarmente presenti nella nostra terra). E, lungi da ogni
trasformismo tornacontistico e da ogni camaleontica ipocrisia, egli si fa
compagno di strada di tutte queste persone: si sottopone alla legge, si proclama
un senza legge, si fa debole e servo di tutti (cf. 1 Cor 9,18-22).
L’esperienza di Paolo coincide, ancora oggi, a dispetto dei
secoli trascorsi, con l’esperienza del presbitero operatore della nuova
evangelizzazione anche nella Piana: in
un’epoca in cui la cultura ( o quel che ne resta) sembra aver dimenticato anche
dalle nostre parti le sue radici cristiane
e di aver conosciuto Dio e il suo Amore, il prete deve ancora evangelizzare,
proclamando la Verità di cui vive — ma che non possiede da se stesso — e
offrendola umilmente come dono gratuito a tutti. In questo senso il suo
stile di vita deve arricchirsi di due caratteristiche apostoliche e
missionarie imprescindibili: la parresia. ossia la franchezza, l’audacia,
l’abnegazione, l’entusiasmo (cfr. la asthéneia, ossia la debolezza del servo
fedele in cui paradossalmente può operare la potenza di Dio (cf. 2 Cor 12,10).
Da buon “ministro”, il presbitero
evangelizzatore non si limita a fungere da gestore del sacro e di regista di
eventi più o meno esteriori, ma compie una vera diaconìa nel nome di Cristo
Gesù: attingere dalla giara e versare nelle coppe di chi ha veramente sete , non solo nelle coppe di chi fa anche
carte false per sedersi ai primi posti
nelle nostre “sinagoghe”.