di Francesco Barillaro
Piminoro è la metafora di due civiltà profondamente diverse tra loro, quella dell'Aspromonte e quella delle Serre, che in esso si mescolano e si integrano a vicenda. Ne è derivata - per chi la conosce sul serio o per chi la eredita nel sangue - una enclave magnifica e terribile, come le levantine, come le cime sbattute dal vento dei faggi, come lo "Schiccio di Teresa" , la cui foto , per ultima, correda questo pezzo sublime di Francesco Barillaro (Bruno Demasi)
Ancora oggi, in paese, gli anziani raccontano dei fatti fantastici. L’ora propizia per il verificarsi dell’evento era mezzogiorno! Se scampavi alla schiera, però, non potevi evitare i tamburinari. Questi abitavano nella scorciatoia che dal Serro della Guardia, in località Scaluni (grande gradino) porta ai piani di Panipirsu. Qua, in un grande cafuni(vallone stretto e profondo), nei tempi che furono, un gruppo di suonatori provenienti dal versante ionico e diretti a Piminoro furono sorpresi da una tremenda levantina, smarrirono il sentiero e furono sommersi, strumenti compresi, dall’impeto dell’acqua di quella jumara (ruscello).
I pastori raccontavano che nelle sere di burrasca sentivano un rullare di tamburi proveniente dalla stretta gola della jumara, e le capre impaurite scappavano scampanellando. Per evitare questi inconvenienti spiacevoli, salivo in montagna con mio zio Angelo che oltre a salvaguardarmi da quelle sventure era un esperto raccoglitore di funghi. Andavamo alla ricerca del re dell’Aspromonte ossia del porcino, a Piminoro chiamato janchiedu.
Aspettavo con ansia le prime piogge autunnali dopo la calura estiva e quando in paese si diceva che in montagna erano stati trovati i primi funghi, partivamo che era ancora buio. Lo zio non aveva la macchina. Arrivati all’imbocco della scorciatoia mi avvicinavo ulteriormente a lui per attraversare indenne il punto dove morirono i tamburinari. Sui pianori l’alba prendeva il sopravvento e incominciava l’entusiasmante ricerca. Al ritorno, il sole era già alto e l’attraversamento del punto critico non mi faceva più paura.
Incominciai così ad apprezzare questa particolare montagna già in tenera età e ancora oggi mi attrae, mi manca e mi emoziona come un grande e tenero amore. Mi mancano i suoi silenzi impenetrabili, il suo vento che scaturisce dalle gole fredde e profonde, il suo incanto, la solitudine dei tramonti quando il cielo si macchia di rosso del sole calato, nell’attimo immenso dell’imbrunire, quando questa montagna ti fa sentire un amante appassionato.
Ogni stagione regala suggestioni diverse, ma i colori dell’autunno sulle creste dell’Aspromonte hanno qualcosa di indescrivibile. Capita spesso, da queste parti, che la prima neve arrivi quando ancora gli alberi non sono completamente spogli del loro manto dorato. È semplicemente meraviglioso ammirare le foglie gialle ricoperte dalla neve: assumono colori stupendi. I corsi d’acqua si riprendono lentamente dalla scarsità della pioggia e, piano piano, si ode il loro delicato canto lungo le valli dei due versanti. Scorrono intorno numerose sorgenti, alcune si infiltrano tra le fenditure del terreno, altre solcano il manto di neve dai declivi fino a confluire a valle in un unico corso. Intorno si ode un dolce gorgoglio, mentre i rigoli si insinuano e vengono risucchiati nella fragorosa e spumeggiante corrente d’acqua.
Il passaggio di stagione è avvertito da tutta la natura. La montagna è in fremito! Nel bosco si ode qualcuno che raccoglie legna secca, le foglie formano un soffice manto, di fronte a te un albero, invecchiato dal tempo e dal vento, si prepara a trascorrere in altro duro e lungo inverno. Forse a primavera non metterà su le nuove gemme.
Dalle creste lo spettacolo che appare è straordinario, ti si aprono di fronte grandi spazi, immensi pianori a valle disegnano forme armoniche e diseguali; nel corso dell’anno si alternano tenui e caldi i colori dell’autunno e brillanti ed esuberanti quelli dei mesi estivi, modulando il verde intenso delle conifere e quello più delicato delle faggete, come se il cambio delle stagioni venisse annunciato dalla mano di un misterioso e saggio pittore.
Sono luoghi che parlano più del passato che del presente. Ripercorrere i sentieri è come andare indietro nel tempo, quando i monti erano più frequentati di adesso, e si scoprono segni e testimonianze che raccontano fedelmente (in particolare nel versante ionico) degli asceti, eremiti che cercavano nel silenzio la pace interiore, e di montanari che da questa montagna traevano il necessario per la loro vita frugale.
Non auspico a questi posti l’arrivo del turismo di massa, nell’illusione che esso contribuisca al sollevamento economico della nostra terra. Questa montagna è bella così, nella sua povertà, nei suoi misteri, nei suoi silenzi infranti solo dal rumore del vento. Il Serro della Guardia è bello così e, quando scende la notte, sembra dominare severo e paterno i paesi sottostanti che con le loro flebili luci frangono l’oscurità arcaica che si distende sul regno degli ulivi secolari della Piana. È questo il momento magico, mai uguale a sé stesso, in cui il silenzio solenne della montagna si amalgama ai rumori della vita notturna degli animali e accarezza storie che sempre si intrecciano con le leggende.
La stagione che prelude arriva silenziosamente in Aspromonte, avvolge Piminoro da quel vento amico di Levante, quando le rondini si riuniscono a frotte preparandosi a partire. Poi, all’improvviso, arriva l’inverno a lambire le giornate con la sua oscurità e il sole fugge via dietro le linee dell’orizzonte infinito. Sembra portare con sé tutte le speranze…