lunedì 23 gennaio 2017

LA METAFORA DELL'ASPROMONTE E DELLE SERRE: PIMINORO

di Francesco Barillaro
      
   Piminoro è la metafora di due civiltà profondamente diverse tra loro, quella dell'Aspromonte e quella delle Serre, che in esso si mescolano e si integrano a vicenda. Ne è derivata - per chi la conosce sul serio o per chi la eredita nel sangue - una enclave magnifica e terribile, come le levantine, come le cime sbattute dal vento dei faggi, come lo "Schiccio di Teresa" , la cui foto , per ultima, correda questo pezzo sublime di Francesco Barillaro (Bruno Demasi)

     Ogni angolo, ogni roccia, ogni albero di questa montagna parla lo stesso linguaggio della gente di Piminoro. Nel bene e nel male questa terra ha caratterizzato la vita della gente del luogo. Nei miei ricordi d’infanzia andare in montagna rappresentava quasi una sfida, era assolutamente vietato andarci da soli: c’era la turva o schiera, più o meno un gruppo ben nutrito di anime dei morti che vagavano per le contrade isolate. Se venivi preso da essi, ti ritrovavi in un posto lontano e smarrivi la strada per tornare.
    Ancora oggi, in paese, gli anziani raccontano dei fatti fantastici. L’ora propizia per il verificarsi dell’evento era mezzogiorno! Se scampavi alla schiera, però, non potevi evitare i tamburinari. Questi abitavano nella scorciatoia che dal Serro della Guardia, in località Scaluni (grande gradino) porta ai piani di Panipirsu. Qua, in un grande cafuni(vallone stretto e profondo), nei tempi che furono, un gruppo di suonatori provenienti dal versante ionico e diretti a Piminoro furono sorpresi da una tremenda levantina, smarrirono il sentiero e furono sommersi, strumenti compresi, dall’impeto dell’acqua di quella jumara (ruscello). 

    I pastori raccontavano che nelle sere di burrasca sentivano un rullare di tamburi proveniente dalla stretta gola della jumara, e le capre impaurite scappavano scampanellando. Per evitare questi inconvenienti spiacevoli, salivo in montagna con mio zio Angelo che oltre a salvaguardarmi da quelle sventure era un esperto raccoglitore di funghi. Andavamo alla ricerca del re dell’Aspromonte ossia del porcino, a Piminoro chiamato janchiedu.
   Aspettavo con ansia le prime piogge autunnali dopo la calura estiva e quando in paese si diceva che in montagna erano stati trovati i primi funghi, partivamo che era ancora buio. Lo zio non aveva la macchina. Arrivati all’imbocco della scorciatoia mi avvicinavo ulteriormente a lui per attraversare indenne il punto dove morirono i tamburinari. Sui pianori l’alba prendeva il sopravvento e incominciava l’entusiasmante ricerca. Al ritorno, il sole era già alto e l’attraversamento del punto critico non mi faceva più paura.
    Incominciai così ad apprezzare questa particolare montagna già in tenera età e ancora oggi mi attrae, mi manca e mi emoziona come un grande e tenero amore. Mi mancano i suoi silenzi impenetrabili, il suo vento che scaturisce dalle gole fredde e profonde, il suo incanto, la solitudine dei tramonti quando il cielo si macchia di rosso del sole calato, nell’attimo immenso dell’imbrunire, quando questa montagna ti fa sentire un amante appassionato. 

    Ogni stagione regala suggestioni diverse, ma i colori dell’autunno sulle creste dell’Aspromonte hanno qualcosa di indescrivibile. Capita spesso, da queste parti, che la prima neve arrivi quando ancora gli alberi non sono completamente spogli del loro manto dorato. È semplicemente meraviglioso ammirare le foglie gialle ricoperte dalla neve: assumono colori stupendi. I corsi d’acqua si riprendono lentamente dalla scarsità della pioggia e, piano piano, si ode il loro delicato canto lungo le valli dei due versanti. Scorrono intorno numerose sorgenti, alcune si infiltrano tra le fenditure del terreno, altre solcano il manto di neve dai declivi fino a confluire a valle in un unico corso. Intorno si ode un dolce gorgoglio, mentre i rigoli si insinuano e vengono risucchiati nella fragorosa e spumeggiante corrente d’acqua.
    Il passaggio di stagione è avvertito da tutta la natura. La montagna è in fremito! Nel bosco si ode qualcuno che raccoglie legna secca, le foglie formano un soffice manto, di fronte a te un albero, invecchiato dal tempo e dal vento, si prepara a trascorrere in altro duro e lungo inverno. Forse a primavera non metterà su le nuove gemme.
    Dalle creste lo spettacolo che appare è straordinario, ti si aprono di fronte grandi spazi, immensi pianori a valle disegnano forme armoniche e diseguali; nel corso dell’anno si alternano tenui e caldi i colori dell’autunno e brillanti ed esuberanti quelli dei mesi estivi, modulando il verde intenso delle conifere e quello più delicato delle faggete, come se il cambio delle stagioni venisse annunciato dalla mano di un misterioso e saggio pittore. 

    Sono luoghi che parlano più del passato che del presente. Ripercorrere i sentieri è come andare indietro nel tempo, quando i monti erano più frequentati di adesso, e si scoprono segni e testimonianze che raccontano fedelmente (in particolare nel versante ionico) degli asceti, eremiti che cercavano nel silenzio la pace interiore, e di montanari che da questa montagna traevano il necessario per la loro vita frugale.
    Non auspico a questi posti l’arrivo del turismo di massa, nell’illusione che esso contribuisca al sollevamento economico della nostra terra. Questa montagna è bella così, nella sua povertà, nei suoi misteri, nei suoi silenzi infranti solo dal rumore del vento. Il Serro della Guardia è bello così e, quando scende la notte, sembra dominare severo e paterno i paesi sottostanti che con le loro flebili luci frangono l’oscurità arcaica che si distende sul regno degli ulivi secolari della Piana. È questo il momento magico, mai uguale a sé stesso, in cui il silenzio solenne della montagna si amalgama ai rumori della vita notturna degli animali e accarezza storie che sempre si intrecciano con le leggende.
    La stagione che prelude arriva silenziosamente in Aspromonte, avvolge Piminoro da quel vento amico di Levante, quando le rondini si riuniscono a frotte preparandosi a partire. Poi, all’improvviso, arriva l’inverno a lambire le giornate con la sua oscurità e il sole fugge via dietro le linee dell’orizzonte infinito. Sembra portare con sé tutte le speranze…

venerdì 20 gennaio 2017

IL LADRI (Una favoletta di Ennio Flaiano)


   
      Quando i ladri presero il governo, il popolo fu contento, fece vacanza e bei fuochi d’artificio.
      La cacciata dei briganti autorizzava ogni ottimismo e i ladri, come primo atto riaffermarono il di­ritto di proprietà. Questo rassicurò i proprietari più autorevoli. Su tutti i muri scrissero: « Il furto è una proprietà».   
      Leggi severe contro il furto vennero emanate e applicate. A un tagliaborse fu tagliata la mano destra, a un baro la mano sinistra (che serve per tenere le carte), a un ladro di cappelli la testa.
      Poi si sparse la voce che i ladri rubavano. Dapprincipio, questa voce parve una trovata della propaganda avversaria e fu respinta con sdegno. I ladri stessi ne sorridevano e ritennero inutile ogni smentita ufficiale. Tutto parlava in loro favore, erano stimati per gente dabbene, patriottica, ladra, onesta, religiosa. Ora, insinuare che i ladri fossero ladri sembrò assurdo.
      Il tempo trascorse, i furti aumentavano, un anno dopo erano già imponenti e si vide che non era possibile farli senza l’aiuto di una grossa organizzazione. E si capì che i ladri avevano quest’organizzazione. Una mattina, per esempio ci si accorgeva che era scomparso un palazzo del centro della città. Nessuno sapeva darne notizia. Poi sparirono piazze, alberi, monumenti, gallerie coi loro quadri e le loro statue, officine coi loro operai treni coi loro viaggiatori, intere aziende, piccole città.
    La stampa, dapprima timida, insorse : sparirono allora i giornali coi loro redattori e anche gli strilloni, e quando i ladri ebbero fatto sparire ogni cosa, cominciarono a derubarsi tra di loro e la cosa continuò finché non furono derubati dai loro figli e dai loro nipotini.
     Ma vissero sempre felici e contenti.                                    (Ennio  Flaiano in Opere, pp. 591-592)

domenica 8 gennaio 2017

SUDORI E SAPORI DELL’ ANTINDRANGHETA CALABRA

di Bruno Demasi
    La sontuosa, pretestuosa e presuntuosa "Commissione speciale contro la 'ndrangheta in Calabria", formata da sei membri, di cui uno presidente, dovrebbe esistere da qualche parte oltre che sui libri paga della cittadinanza . Stranamente però di essa si riesce a leggere di tanto in tanto solo qualche nota stampa e non si sa nulla di più. 

   Dal febbraio 2016, quando sono stati nominati dall’attuale governo regionale ,dopo un lungo periodo di vacanza ufficiale , a oggi, alle soglie del primo compleanno, i suoi illustri membri i cui cognomi echeggiano spesso e volentieri nelle stanze del potere locale , Bova, Sergio, Mangialavori, Battaglia, Morrone e Nucera si sono riuniti solo sei volte: la prima, appena nominati , pare che abbiano lavorato esattamente per 127 minuti per l'insediamento del presidente, gli auguri degli altri componenti e così via.
   I Calabresi hanno saputo della nascita della "nuova" Antindrangheta regionale solo in seguito alle dichiarazioni del "capostruttura" nominato dallo stesso Bova, tale Carlo Piroso, che strada facendo si è dimesso dall'incarico con gran clamore mediatico in quanto – come specificato da lui stesso – iscritto a una loggia massonica aderente proprio al Goi. Poi tutto è continuato come prima e con lo stesso silenzio.
    Durante la seconda seduta del 25 febbraio (durata: 165 minuti), la commissione ha  riservato altro spazio per convenire in modo sofferto sulla necessità di elaborare una proposta di legge per limitare la presenza mafiosa nei settori economico e sociale della Calabria.
    La terza seduta prevista per il 27 ottobre scorso aveva all’ordine del giorno la programmazione dei lavori per il 2016 ( praticamente già trascorso) e il 2017 e la discussione su una bozza di legge piuttosto generica: per il contrasto della criminalità organizzata e per la promozione di una cultura della legalità.
  Le ulteriori tre sedute, effettuate tra novembre e dicembre 2016, avevano all’ordine del giorno “Consultazioni “varie per studiare epifenomeni e fenomeni ndranghetistici e iniziare un percorso di riflessione per poi regolarsi  di conseguenza.

RISULTATI DELL’ATTIVITA’ EFFETTUATA NEL 2016

   Come si può riscontrare dal sito web della Regione, la commissione ha prodotto in materia di Provvedimenti licenziati, provvedimenti in attesa di parere, risoluzioni, dossier e dossier tematici poco meno di niente.

I CIOCCOLATINI ANTINDRINA DI MAGARO’

    Rispetto all’inerzia di Bova & C., diventa quasi gigantesca l’operatività di chi li ha preceduti al governo della stessa Commissione. Ricordiamo tutti le iniziative di Salavatore Magarò per contrastare la Ndrangheta:
· La "pasticca antindrina" (dischi al cioccolato e un bugiardino con appunti sociologici rivolti agli studenti);
· I "paccheri alla ndrangheta";
· Il sontuoso cartello "Qui la 'ndrangheta non entra" piazzato proprio all'ingresso del Consiglio Regionale a Reggio Calabria, quello stesso che ha avuto, solo nella scorsa legislatura, tre eletti finiti in carcere per i loro rapporti con le cosche.

I COMPITI DELL’ANTINDRANGHETA

   Sono indicati nella legge costitutiva, la 50 del 2002 poi modificata da un'altra norma del 2011:
  • · «vigilare e indagare» sulle attività della Regione e sulla regolarità delle procedure e dei finanziamenti;
  • formulare proposte legislative e amministrative per rendere «più incisiva» l'iniziativa di tutti gli enti calabresi nella lotta contro la mafia;
LE NOTE STAMPA DI BOVA:

   Molteplici e puntuali invece i comunicati stampa emessi dall’Antindrangheta in questo anno appena trascorso, tutti riconducibili a due tipologie di massima:

· Solidarietà alle vittime di attentati;
· esortazioni morali contro il fenomeno mafioso.
    I COSTI DELL’ANTINDRANGHETA

    I costi annui della Commissione, come da delibera n. 16/2007 del Consiglio Regionale Calabro, ammontano a circa 280.000 €. Essi servono a coprire le spese per due responsabili, uno di struttura e l’altro amministrativo, entrambi indennizzati con oltre 70.000 €.annui cadauno; le indennità aggiuntive di ulteriori tre componenti del supporto tecnico prescelti dal presidente tra i dipendenti del Consiglio Regionale; le spese per un autista che ammontano a quanto pare a 38.000 € annui; le spese per ujn “collaboratore esperto” che vale circa 48.000 € annui, senza contare le spese per uffici, telefoni, cancelleria, internet che vengono fatti gravare sul bilancio generalòe del Consiglio Regionale.

    Per la durata quadriennale in carica, l’Antindrangheta Calabrese assorbirà dalle tasche del contribuente la modica cifra di un milioneduecentomila €. Certo una cifra molto modesta se confrontata con i milioni di €. non si sa bene come spesi dai Programmi Operativi Nazionali nelle scuole di Calabria per lo stesso scopo, ma pur sempre una bella cifra.