sabato 28 ottobre 2023

Mèmoires 11: Commercio e arte: “ ‘MARFITANI” E “SERRISI” A OPPIDO NUOVA (di Rocco Liberti)

      Stavolta lo sguardo attentissimo di Rocco Liberti torna sull’intenso lavorìo che si registrava nella nuova Oppido appena sorta dopo il sisma del 1783 e l’abbandono dell’antico abitato medievale. Una città nascente  funestata da mille problemi e da mille malattie, una popolazione decimata non solo dalla violenza del terremoto, ma  anche da nuovi stenti e costituita in grandissima parte da un mondo contadino tenace e intraprendente “cui si ponevano in contraltare - come afferma giustamente l'Autore - i nobili o i cosiddetti civili, i quali scarsamente potevano incidere sul progresso sociale e lavorativo”. Proprio da questo strano binomio sociale che escludeva una vera classe intermedia borghese, sia pure in embrione, ma soprattutto l’elemento mercantile e quello artigianale, che da sempre costituiscono i motori della ripresa economica e sociale, si determina per Oppido l’arrivo di una immigrazione intelligente e attiva che presto, in simbiosi con l’elemento autoctono più capace e aperto, va a costituire il nuovo polmone economico, culturale e artistico della città. Un'immigrazione incoraggiata e aiutata in ogni modo dai responsabili civili e religiosi del tempo che si rivelavano molto illuminati nonostante il degrado in cui si trovavano ad operare.
     Rocco Liberti ancora una volta, innestando i suoi ricordi personali sulle notizie da lui accuratamente reperite e studiate, riesce a comporre  altre  pagine inedite di rara suggestione restituendoci con la freschezza della loro vita operosa volti , personaggi e nomi che rischiavano di cadere per sempre nell’ oblìo della pigra memoria dei nostri paesi. Gliene siamo tutti  davvero grati
(Bruno Demasi).

___________________
  

   Il vetusto centro di Oppido, per otto secoli baluardo civile ed ecclesiastico nelle terre della Piana di Terranova, esauritosi per effetto del disastroso fenomeno sismico del 5 febbraio 1783, ha trovato sollecito ripristino per intervento del governo borbonico in zona pianeggiante e meno soggetta a rivolgimenti tellurici di somma imponenza, la contrada Tuba. Ma, per le raccogliticce persone, che vi hanno avuto ricetto, non è che l’avvenire si sia offerto nell’immediato rose e fiori. La vita era in continuo divenire e nella città di legno gli stenti e le privazioni la facevano da padroni. Peraltro, non mancavano incendi, malattie e ulteriori calamità. Era più che naturale! Il vescovo Tommasini in una relazione del 1795, nella quale rendeva presenti appena 864 abitanti, così scriveva nel merito: «La sperienza di anni diece di abitazione in Baracche di tavole sopra un suolo naturalmente umido, e sotto un cielo di aria poco salubre fece vedere il discapito notabile della popolazione, e recò la mortalità di tanti ragazzi, che come corpi teneri, e men capaci di resistere alle impressioni della umidità, vi soccombono... L’aria da giugno sino alla caduta delle nevi si sperimenta poco salubre, e cagiona delle epidemiche febri terzanarie con continuate recidive per tutto l’autunno accompagnate da ostruzioni viscerali». In verità, non erano solo i ragazzi a soccombere, anche gli adulti, per cui in breve il nerbo della popolazione si trovava ormai a essere costituito in prevalenza da contadini, cui si ponevano in contraltare i nobili o i cosiddetti civili, i quali scarsamente potevano incidere sul progresso sociale e lavorativo. Sarà stata sicuramente la congiuntura a invogliare sin dall’inizio individui forestieri a trasferirsi nella nuova realtà. In un’entità ancora da costruire di certo c’era bisogno di molte cose. Così può spiegarsi infatti l’accorrere di tempo in tempo di nuclei familiari di diversa estrazione e residenza, in maggioranza artigiani, il ceto che proprio allora era venuto a difettare. A parte isolati episodi, i nuovi arrivi si sono incanalati in quattro qualificate direttrici: Amalfi, le Serre Catanzaresi, il litorale ionico, la Sicilia. 

    Da Amalfi, a quel che risulta dai documenti ufficiali, si sarebbero condotte a Oppido in modo sostanziale cinque famiglie, davvero poche ma sufficienti a risollevare il commercio in primo luogo per quanto riguardava il genere annonario. Non per niente, la pasta, i famosi macaroni o maccaroni, era importata dal territorio campano. A portarsi inizialmente in paese è stata quella dei Cafiero, cui hanno tenuto dietro i De Lieto, i Carrano, i Pastore e i Savo. Ai Pastore, quando sono intervenuti i Savo, si è affibbiato il nomignolo di marinari vecchi, mentre ai Savo, più che logico, è toccato quello di marinari novi. Quand’ero bambino, a seconda delle commissioni, s’indicava: vai ‘ndo marinaru vecchiu oppure vai ‘ndo marinaru novu. L’amico Totò Savo, buonanima, mi ricordava sempre che quand’era piccolo mia nonna lo apostrofava scherzosamente marinareju

    Il primo dei Cafiero a pervenire a Oppido è stato sin dal 1835 circa Ferdinando, nato ad Amalfi e di professione cafettiere. Marito a Maddalena Paolillo, è morto nel 1858 a 64 anni di età. Da lui si sono originati elementi che hanno allacciato rapporti con Marino, Lentini, Zappia, Violi, Demeo, Longo. L’ultima rappresentante rinvenuta negli atti d’archivio è Cristina +1941, che nel 1891 si era unita ad Alfonso Zappia. C’è stata una nutrita progressione di Ferdinando, ma sono tutti deceduti in tenera età. Il nome del progenitore non ha portato loro fortuna. Rammento delle sorelle Cafiero, notoriamente i Cafèri, che nel loro forno di via A. M. Curcio a fronte del palazzo vescovile producevano un tipo di pane alquanto richiesto, ‘u pani di’ Cafèri

   Da Amalfi è giunta altresì la coppia Fortunato De Lieto e Giacoma Gambardella. Fortunato, pastaiuolo, come i figli Gabriele (n. Atrani) e Giovanni (n. Amalfi), era domiciliato in via Fucine l’odierna via Coppola, dove è morto nel 1882 alla bella età di 94 anni. In seconde nozze era convolato con altra amalfitana, Raffaela Gargano. La figlia Maria Antonia qualificata possidente, sposata a Francesco Anastasio, è morta nel 1899 a 91 a. L’ultimo della famiglia a lasciare questo mondo è stato Gabriele nel 1906. Nelle ricordanze di noi posteri non n’è rimasta traccia. 

  Sempre da Amalfi ecco giungere i fratelli Carrano, Andrea e Teresa, entrambi consorti di elementi della famiglia Calardi abitanti del pari. La famiglia Carrano è tuttora presente a Oppido, anche se in parecchi sono emigrati in Australia e qualcuno anche nel nord-Italia (Torino, Faenza). Il marito di Teresa, Gennaro Calardi (+1882 a. 62) abitava in piazza Umberto e faceva anche lui il pastaiuolo. Andrea Carrano, ammogliato con Antonia Calardi, aveva avviato sulla via Mamerto oggi via Garibaldi casa Zappia un accorsato emporio di generi alimentari, che in successione sarà condotto dai figli Gennaro, Giuseppe, Luigi e Andrea. Quest’ultimo ha partecipato alla prima guerra mondiale ed è stato riconosciuto meritevole di medaglia di bronzo al valore. Nel 1925, per il 25° anniversario del Regno di Vittorio Emanuele III, il Comune lo inviava da assessore in rappresentanza a Roma. Durante le manifestazioni pubbliche a Oppido sfilava con la medaglia appesa al petto. 

   Il primo Andrea purtroppo ha fatto una triste fine essendo inopinatamente deceduto nel 1919 all’età di 64 anni. In quell’anno in Italia la fame la faceva da padrona e l’assalto a forni e negozi di generi alimentari era all’ordine del giorno. In Oppido, dopo le razzie operate nella piazza principale nel grande emporio dei Furci, detti i Parmisani in quanto oriundi da Palmi, la folla tumultuante si era avviata proprio lungo la via Mamerto, dove c’era il negozio dei Carrano. Il capo famiglia, temendo a ragione che quella massa inconsulta si approcciasse a ripetere l’azione, ha afferrato il fucile e si è messo a sparare non si sa bene se in aria o verso terra, la cosa più probabile. Dal fuggi fuggi generale è emerso che purtroppo una donna anziana era stata ferita a un piede. La poveretta è stata subito portata all’ospedale locale, ma dopo alcuni giorni purtroppo è inopinatamente deceduta. Il Carrano, ch’era stato arrestato, ha trascorso qualche mese in prigione, ma alla fine è stato liberato. Sarà stato il dispiacere per l’atto, la vergogna di essere stato relegato in carcere, fatto si è che a distanza di pochissimi giorni dal ritorno a casa veniva anche lui a morte. I Carrano hanno concluso relazioni matrimoniali con Barbaro, Polistena, Grillo, Calarco. 

    Il primo dei Pastore a essere presente in Oppido intorno al 1878 è stato Salvatore, che ha condotto in prime nozze Gaetana Coppola, indi M. Angela Gambardella. Di mestiere anche lui pastaiuolo e negoziante, è morto nel 1911 all’età di 79 anni. Di tre figli maschi è rimasto a Oppido soltanto Pasquale, nato ad Amalfi, che nel 1890, all’età di 27, ha preso in moglie M. Concetta Palaja. Purtroppo, alcuni anni dopo è venuto a morte. Intanto, nella vicina Santa Cristina si erano sistemati altri due fratelli. La madre ha preteso allora che Andrea nel 1895 rientrasse a Oppido e sposasse la vedova del fratello, come infatti è avvenuto. Tale condurrà un negozio di generi vari fin quasi alla fine, che è arrivata nel 1953. Dal matrimonio sono sortite alcune femmine che hanno annodato legami coniugali con esponenti delle casate Musicò e Muscari. L’unico figlio maschio è stato Salvatore nato nel 1896, avvocato e alto dirigente fascista. Ha assunto anche responsabilità di vice pretore. Un Pastore di Santa Cristina, Pasquale nel 1926 allaccerà vincoli nuziali a Oppido con una Savo, Raffaella, quindi un incrocio tra amalfitani. Il figlio di Salvatore, Andrea, svolge funzioni di giudice altrove. A Oppido c’è la sorella Concetta. 

   Dei Savo a comparire sulle prime a Oppido è stato Antonio, che ha sposato Antonia Gargano, amalfitana del pari ed è mancato nel 1953 a 61 anni. Dal matrimonio sono nate delle figlie femmine e due maschi, Andrea, medico, (n. 1913) che presto si è trasferito a Crotone e Antonio (n. 1924). Andrea, che abita fuori Oppido, è figlio di Antonio. Un’altra figlia si è unita a un Pezzimenti e si trova pur dessa fuori. Le figlie del primo Antonio si sono sposate con Caligiuri, Menghi e Frisina. Qualcuna è rimasta nubile. 

   L’immigrazione degli Amalfitani indubitabilmente promanava da Gioia Tauro, il paese cui hanno mirato financo dal 700 gli intraprendenti commercianti campani. A tutt’oggi vivono nel grosso centro numerose famiglie che insistono a esprimersi nel loro dialetto e con la cadenza usuale. A Oppido infatti nel primo novecento si sono installati i Corvino, Salvatore con la moglie Regina Scaglioso, già a Gioia, che hanno dato genesi a un esercizio di alimentari, che vantava una clientela di conto. Erano conosciuti appunto come i gioitàni o gioisàni. Quando vi s’indirizzava qualcuno gli si diceva: vai nd’o gioisànu: in pochi conoscevano o pronunziavano l’esatto cognome. I figli in frangente non molto lontano si sono trasferiti in altra regione. Una addirittura all’estero (Sudafrica). Don Salvatore, accanito sostenitore del partito dell’Uomo Qualunque, si recava sistematicamente in edicola ad acquistare il giornale emanato dallo stesso e ostentava la testata con l’omino sotto la pressa. A Oppido è stato l’ultimo adepto mentre mastro Beniamino è passato al Partito Nazionale Monarchico, per il quale si è dato appassionatamente un gran da fare anche da consigliere comunale. Dopo la seconda guerra mondiale sempre da Gioia vi è pervenuto con la famiglia il gelatiere Antonio Giocolano, ma non so dire se si trattasse di amalfitano. Con tale cognome ce ne sono in Campania, ma è più diffuso in territorio di Gela. Conservo particolare memoria di Michele, col quale eravamo perennemente in concorrenza per l’acquisto dei così chiamati giornaletti, i fumetti.
    Tra i nuclei che si sono mossi dal Serrese ne spiccano alcuni che hanno espresso artisti di grande impegno come gli Albano, i Barca e i Barillari. 
 
   I primi a partire dal Serrese sembrerebbero i componenti della famiglia Albano. Vitaliano, travagliatore, figlio di Francesco e Rosa Sandò, muore a Oppido nel 1813. Vincenzo, nato a Serra, barillaro, all’incirca nel 1824 si trasferisce nel prescelto domicilio, dove nel 1835 sposa Teresa Condò (†1880). Il fratello Gennaro, medesima attività, reca all'altare nel 1824 Francesca Chirchiglia. Dalla prima coppia si originano Marianna (1867 sp. Giuseppe Stillitano), Serafina (1873 sp. Graziano Morizzi), Maria Angela (1877 sp. Sebastiano Barca) e Salvatore, rinomato scultore, nato nel 1839 e morto a Firenze nel 1893. Questo ramo si estingue. Dalla seconda si hanno Antonio Maria (n. 1833, sp. Giovanna Pisano, †1900, statuario; da lui deriva Eugenio, artista del marmo (1866-1907) e Stefano. Da Stefano promana la discendenza in corso. Appartiene a questa altro Stefano, scultore, trapassato in giovane età nel 2003, autore della Via Crucis in legno della chiesa del Calvario di Oppido. L’occupazione condotta in buona parte dagli Albano ha fatto sì ch’essi sono rammentati come i barijàri cioè i barillari. A tal motivo talvolta capita di far confusione tra Albano e Barillaro. Una volta eravamo in piazzetta con un Albano. Questi a un dato punto si è sentito chiamare signor Barillaro. Siamo sbottati in una risata e al malcapitato abbiamo dovuto dare la necessaria spiegazione.

   Anche i Barca imparentati con gli Albano provengo- no da Serra San Bruno. Si principia con Sebastiano, cuci- niere, marito di Mariangiola Albano, tessitrice. N’è figlio lo scultore Concesso, che, nato nel 1877, ha concluso la sua vita a Bagno a Ripoli nel 1968. Sono suoi alquanti monumenti ai caduti eretti nei paesi della Piana di Gioia, compreso Oppido, ma in tante altre località. Concesso ha avuto una figlia maritata Gambini, che ha vissuto a Firenze. Nel 1967 ha inviato foto di opere dell’Albano in occasione di un apposito convegno-mostra. Poco prima si era trovata in visita in seguito all’intitolazione su mia iniziativa di due piazze cittadine al padre e al parente. 

   L’antesignano esponente della famiglia Zaffino a provenire dal Serrese è stato Salvatore, “travagliatore” ossia “fallegname” e marito di Vincenza de Lapa, che il 20 dicembre 1832 è stato rinvenuto morto unitamente al figlio Vincenzo marito di Teresa Pesce in contrada Petrulli. I due erano andati in montagna a lavorare il legname e pare che siano morti assiderati dal gran freddo. Il Registro del Comune a proposito segnala per ognuno “soffogato dalla neve nelle montagne”. Ha avuto lunga generazione in Oppido il figlio Raffaele (1806-1885), parimenti falegname che si è unito a Carmela Brunetta. Gli Zaffino hanno intrecciato parentele con membri dei Pezzimenti, Buda, Evangelista di Caulonia, Marino, Morabito, Lando, Nicoletta e Barillari
.
  Raffaele è nato a Oppido nel 1806 ed è morto l’8-3-1885. Aveva sposato contro la volontà dei suoi il 10-2-1883 una contadina con la quale prima erasi unito more uxorio, Carmela Brunetta. Non era tanto consueta all’epoca che un mastro convolasse a nozze con una campagnola. La Brunetta era la stessa che, levatrice empirica, nel 1853 ha avuto affidato dal Decurionato oppidese l’incarico di Pia Ricevitrice dei fanciulli esposti. Appresso, forse anche perché aiutava le partorienti illegittime, accusata di dichiarare il falso, è stata privata dell’incarico e denunziata all’Autorità Giudiziaria. La denunzia, invero, era stata voluta da Pappalardo Maria Antonia, napoletana, levatrice diplomata assunta dal Comune. A onor del vero in appresso la Brunetta, nonostante l’età, è riuscita a diplomarsi regolarmente a Messina. 

   La famiglia Zaffino abitava a Oppido nella “strada li ferrari”, cioè la strada dei ferraiuoli, oggi via F. M. Coppola, esattamente nella casa tra il Monte dei Paschi di Siena e Giuseppe Zappia, dove un tempio Ciccio Ruffa lavorava lo stoccafisso. È stata venduta da mia nonna Giuseppa Zaffino nel 1944. Io la ricordo tutta sfondata e priva di tetto e della scala, proprio come era rimasta dopo il terremoto del 1908 e con i conseguenti danni apportati dai monelli di turno che spesso vi bivaccavano. Il prof. Antonio Musicò mi rammentava spesso di quando ragazzo assieme a tanti coetanei come Peppe ‘a Ruffa vi andava a giocare forzando la porta d’ingresso e come all’apparire di mio nonno Michele Cannatà scappassero tutti a perdifiato. 

   Anche i Barillari erano di Serra. Si può ricordare Salomone, a lungo portiere dell’Ospedale e ch’è stato per un gran periodo in America. Una sua sorella era moglie di Giuseppe Zaffino. Come si vede spesso incroci maritali intercorrevano tra ceppi di uguale provenienza. Rugiero, nato a Serra, artista del ferro, morrà a Oppido nel 1880 a 44 anni di età. Un Michele Barillaro, di uguale estrazione, ma abitante a Varapodio, anche lui artista, nel 1871 ha contrattato con il presule Curcio per 370 ducati a proposito dell’allestimento di un gruppo ligneo con S. Giovanni Battista che battezza Gesù e di una ringhiera in ferro per un fonte battesimale in cattedrale, di sicuro quello esistente. Probabilmente la famiglia era denominata sia Barillari che Barillaro. Comunque a Oppido proliferava la prima forma.
 
  Dal Serrese sono pervenuti anche i membri della famiglia Palaja, che, variamente, si sono condotti da ferrajo o da fallegname. Non per niente provenivano dalla culla calabrese dell’arte. Un primo Bruno nato a Serra è morto a Oppido nel 1841 a 42 a., altro vi era nato nel 1831 da Bruno e Cecilia Vorluni. L’ultimo membro, sacerdote, pure lui a nome Bruno, estinto nel 1957 a 87 a., è stato abate della chiesa di San Nicola Superiore. Ha amato fare poesia e occuparsi di storia patria. Ha lasciato interessanti opuscoli. Non andava proprio d’accordo con l’Ordinario diocesano Canino. Questi nel 1945 lo ha costretto ad abbandonare la processione di San Rocco, che aveva raggiunto a cammino iniziato dopo che i fedeli si erano impadroniti di forza della statua e si erano già messi in moto. Tutto era stato originato dal particolare che il vescovo aveva avversato sin dal principio la proiezione di un film in piazza. Mi sovvengo benissimo del trambusto allora creatosi. Il fratello del sacerdote, Gregorio, ha virato inverso Reggio e vi ha operato quale segretario generale alla Provincia. Ha pubblicato dei lavori di carattere storico e amministrativo. Nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia del 1933 è indicato quale “esperto in materie amministrative”[1]. Un figlio, Antonino, nato nel 1930 a Reggio, è stato giudice, ma ha agito fuori Oppido, a Torino. 

    Anche i Pisani sono giunti a Oppido da Serra. S’individua per primo un Luigi, sarto, che nel 1863, vedovo di a. 33, risultava consorte di Filippa Lentini. Derivava da Raffaele, cafettiere. Il figlio Luigi, anche lui sarto, è scomparso nel 1901 a 76 a. I Luigi e i Raffaele si susseguono. Un primo è nato nel 1906, il secondo nel 1908. È vivente una figlia di Luigi, Francesca nata nel 1922. Ha quindi la bellezza di 101 anni. Da Francesco si ha l’ultimo Pisani, che ha esercitato in qualità di medico fuori Oppido. Era nato nel 1928. Altra branca ha offerto Giuseppe Maria, marito di Epifanio Giovannina, morto nel 1941 a 51 anni. Conduceva l’attività di falegname. Un filone si è trasferito a Varapodio. 

   Dal Serrese scaturisce peraltro tutta una serie di schiatte ch’è venuta a popolare un nuovo paesino nella vicina montagna di Sant’Onofrio, cui si è dato nome di Piminoro, termine creato da p. Masdea oriundo di Pizzo che vorrebbe indicare un monte abitato da pastori. Al sito, forse già mèta di lavoranti nei settori dell’agricoltura e della pastorizia ha dato dignità di comunità mons. Tommasini, che, dal 1795 a Oppido, ha dovuto guidare la diocesi con un capoluogo in fieri. Ne sono state origine soprattutto le condizioni igieniche in cui erano costretti a stare coloro che vi si erano rifugiati dopo il terribile sisma di dodici anni prima, come riferito in anteprima. Così il Grillo delinea la condizione del novello agglomerato nel 1848: Piminoro … fondato dall’immortale monsignor Tommasini, era altra volta il luogo della villeggiatura del seminario e del vescovo, il quale vi avea un vasto e comodo episcopio e seminario ora quasi intieramente per disuso distrutto [2]. Tre anni dopo un pellegrino di eccezione che vi è transitato con tutta una comitiva per poi proseguire fino al santuario di Polsi raccontava: Noi mettevamo il piede in un antico villaggio che nomasi Piminoro ... ed è grata cosa vedere le nascenti sue case di legname, ed i tetti coverti anche con barre di legno[3]. Quali i motivi della costruzione del paesino nella località detta? Molto chiari. La montagna di Sant’Onofrio era di proprietà della diocesi. 

    Il primo serrese appare nei registri parrocchiali Domenico Antonio di Masi (a. 24) vulgo li Prunari spentosi a Oppido il 3 ottobre 1800. A nascervi nel 1805 è Francesco Campisi. Il primo nato in colle pimenoriano si avverte nel 1809. Come si accerta più chiaramente la provenienza è indicata in nato in Fabrizia o nato in Prunari, o sia Fabrizia. Tanti i ceppi rilevati: Mammone, Tassone, Campisi, Barillaro, Murdaca, Marino, Monteleone, Martino, Timpano, Daniele, Gallace, Costa, Demasi, Maiolo, Rullo, Maruzza[4]. Dei Mammone è noto Rocco, nel 1938 caduto in Spagna e a cui è stata intitolata la piazza principale del paesino. Il dottore Bruno Barillaro è da lungo tempo  sindaco del Comune..
Rocco Liberti
_________________________
[1] N. 103, p. 1816.
[2] G. M. Grillo, Memoria sulla chiesa vescovile di Oppido in Calabria Ultra Prima, Estr. dall’Enciclopedia dell’Ecclesiastico, Napoli 1848.
[3] G. Russo, Polistenesi a Polsi Storia e immagini di una devozione popolare, Edizione del Santuario di Polsi 2001, pp. 19-20.
[4] Prunari e Prunare era il territorio del Serrese dal quale i Piminoresi provenivano.

giovedì 19 ottobre 2023

Mémoires 10 : DALLA FESTA DEI FIORI A QUELLA DEI CAMPI IN OPPIDO (di Rocco Liberti)

    C’era sicuramente necessità di avere una testimonianza diretta e di prima mano, come questa parte conclusiva delle sue memorie sulle feste religiose oppidesi , che il prof. Rocco Liberti ci regala con l’abituale lucidità di immagini e di interpretazioni . Feste nel senso pieno del termine per tutta la gente, per la Chiesa, per quanti – ed erano i più in assoluto – vivevano la ricorrenza religiosa con i suoi risvolti civili come momento fondamentale della vita personale e di gruppo, durante il quale, come osserva Luigi Lombardi Satriani, la forza sociale si liberava nel rito collettivo e ogni persona, perdendo la propria individualità, si confondeva e si annullava nel gruppo in situazioni che Durkheim chiama di “effervescenza collettiva”. Erano i momenti fondamentali in cui tutti inconsapevolmente costruivano o ricostruivano il gruppo sociale, cioè quell’insieme di valori che erano alla base della vita di tutti i giorni.
   Oggi il gruppo sociale di fatto non esiste più in questi paesi e la festa, a causa della distruzione spontanea  o coatta dei suoi aspetti più  folklorici, ingiustamente messi all’indice, ma anche di un sistema valoriale che ha frantumato le nostre società contadine, ha perso i connotati che aveva . Sono rimasti gli involucri, forse molti (ormai ingiustificati) tragitti delle processioni e alle vecchie fantasmagorie se ne sono sostituite di nuove, ma il significato vero della festa è stato annacquato e cristallizzato in ritualità anche extraecclesiali che le nuove generazioni ( e non solo) probabilmente rifiutano.
    Le foto, ma soprattutto i ricordi personali di Rocco Liberti danno però ragione e contenuto a una vita sociale e religiosa che, sebbene smarrita per sempre, farà parte tenacemente delle nostre radici (Bruno Demasi).
_______________

    Maggio era il mese dei fiori e questi davvero non mancavano nelle due festività consecutive del Corpus Domini e dell’Ottava. La prima consisteva in una solenne cerimonia in cattedrale nella tarda mattinata e nella conseguente processione. Nell’occasione le famiglie ostentavano sui balconi le coperte più belle che detenevano nei loro corredi e al passaggio lanciavano sui partecipanti i tantissimi fiori che avevano intanto sistemato nelle ceste. Era un luccichìo di colori che offriva un magnifico tono all’intero contesto. Il complesso bandistico intonava Noi vogliam Dio, l’accattivante composizione del canonico francese François-Xavier Moreau originatasi nel 1882 a un pellegrinaggio a Lourdes. Più invitante della festa del Corpus Domini era quella detta degli altarini, che si dipanava nel pomeriggio di otto giorni dopo. Oggi poche persone se ne ricordano. Era un doppione sicuramente, ma c’era di peculiare che il corteo era tenuto a sostare nei cosiddetti altarini allestiti in punti strategici e dar modo sistematicamente al vescovo d’impartire la benedizione. Il presule saliva gli scalini dei provvisori santuari e svolgeva il suo impegno circondato da un gruppetto di verginelle. Si dava inizio al suono dell’inno di cui sopra e il popolo in massa s’inginocchiava. Era veramente un rituale piuttosto lungo, ma che invitava alla commozione.

 I siti dove si sistemavano le cappelline erano di norma consueti: la Piazzetta, la Tuba, l’Asilo, l’Ospedale, la zona della Pretura ecc. Per allestire cotali manufatti si prodigavano per almeno una settimana una schiera di provetti artigiani che a volte dava vita a tempietti di gusto e arte. Tra loro c’era un che di antagonismo che spingeva a realizzare il modello migliore. Ne rimembro tanti: Sgrò, Tramontana, ma in capo a tutti erano i Clemente, detti i Piccirij per la loro minuscola statura. Il prodotto che officiavano a fronte di via Tuba risultava sovente tra i più eccellenti e otteneva il guiderdone messo in palio. Uno dei Piccirij è stato immortalato da don Luca Asprea nel suo noto libro “Il previtocciolo”. Colpiva in occasione della processione del venerdì santo l’enorme croce che lui così minuto doveva sopportare. Da grandi abbiamo scoperto con detto autore che quello immenso manufatto era confezionato soltanto con la cartapesta. Oggi, tramontata l’Ottava, il giorno del Corpus Domini si è ridotto a una funzione che salta alcuni tratti storici e si porta fino a Tresilico, dove perviene a sciogliersi. Unico altarino è proposto dal personale dell’Ospedale.

   L’ossequio a Santa Rita, con trasporto del simulacro custodito nella chiesa dell’Abazia, che si officia in sul finire di maggio, alquanto tempo addietro non era in voga, in quanto è solo un’invenzione abbastanza recente di Rocco Lando. Ha soppiantato quello di San Rocco che in passato era invece in auge. Si qualificava una prerogativa dei fratelli Carrano che si rendevano tutt’uno. Caratteristico Il segno di San Rocco, cioè l’incendio di una botte con Baccu supa a’ gutti a cavalcioni sulla piazza Duomo poche sere avanti.

   Non mi è chiaro se il giorno antecedente o in quello della festa si dava corso al volo dei palloni aerostatici e potevi vedere sullo stesso luogo nelle ore pomeridiane sempre affollate l’accensione di questi aeromobili rappresentanti precisi personaggi, animali o cose che se ne volavano su per il cielo tra l’entusiasmo generale. Gli astanti se ne stavano divertiti col naso per aria. Alla sera dopo si assisteva poi alle cosiddette roteje, ruote o girandole di fuoco che sparavano botti in serie dal sagrato della cattedrale e al cavajucciu (cavalluccio), un esemplare tutto imbottito di mortaretti. Il portatore di quest’ultimo, famoso tra gli altri testa ‘i papa, percorreva a giro le strade attorno alla grande piazza in atto che il fantoccio sbuffava fuoco da ogni lato. Quando si appressava verso i marciapiedi gli astanti scappavano da una parte all’altra. Il pomeriggio precedente si ambientava sull’allora via Mamerto oggi Garibaldi ‘a gara di’ scecchi. Dei baldi giovanotti cavalcavano dei malcapitati asini e li incalzavano a trottare a suon di frusta o di altro oggetto. Detti che non erano proprio abituati a simile sport finivano spesso a terra scaricando del pari il cavaliere anzi più precisamente ‘u sceccàru. Qualcuno però vi arrivava e si beccava il premio. Naturalmente, si offrivano parimenti anche altri tipi di giochi popolari che non è il caso proprio di trattare, essendo ricorrenti in manifestazioni del genere. In ogni sagra di qualche importanza in Oppido non si lesinava la sfilata dei giganti (‘u giganti e ‘a gigantissa) con ballo finale in piazza. È una scopiazzatura dei più noti Mata e Grifone onnipresenti in Sicilia, soprattutto a Messina. Anche oggi degli esemplari di scarsa rilevanza si notano nelle feste. La coppia di giganti oppidesi o tresilicesi di somma imponenza negli anni 40 era custodita dentro un basso di mia nonna sulla piazza principale poi venduto a Gaetano Zerbi quindi a Vincenzo Caia. Da lì assistevamo al concerto della banda al palco. 

   Pervenuti alla seconda domenica di luglio si presentava un’interessante opportunità: la gita alla frazione Piminoro per assistere alla caratteristica solennità della Madonna Pastorella. È un culto che ci proviene dal Serrese essendo la popolazione residente oriunda proprio da quel territorio. Nelle epoche trascorse vi si andava a piedi attraverso la fiumara del Rosso e scavalcando una ripida salita detta della pietra saligna a motivo di pietre tipo salgemma. Oggi a portare lassù sono due comode arterie. Gli Oppidesi erano attratti dall’incanto della vara che espletavano i due gruppi tradizionali dei contadini e dei massari. Si guadagnava il privilegio di recare la statua per le vie del paese il ceto che, dopo una serrata gara, riusciva ad offrire la somma più alta, che in precedenza aveva provveduto a rastrellare. Il grido trionfale al termine era viva li massari oppure viva li cuntatini (contadini), secondo chi aveva ottenuto la palma della vittoria. I Piminoresi, cordialissimi, ospitavano gli accorrenti in molti casi a suon di pane di jermànu (grano germano), formaggio e ricotte. Erano queste ultime le loro produzioni più appetite. A notte alta la gente se ne tornava indietro al lume della luna, quando c’era, o di lampade portatili. Una volta ho avuto il piacere di fare anch’io un tal viaggio. Certo, rispetto a quello di San Jacopo di Campostela e di altri ugualmente famosi e accorsati si trattava di poca cosa.

   Nel mese di agosto non c’era avvisaglia di alcuna festa, ma mentre te ne stavi a tavola intento a gustare il pranzo o poco dopo qualcosa di rumoroso ti richiamava fuori. Spari continuati di mortaretti e canti accorati all’indirizzo della Madonna (A li pedi di la Madonna/’na bella rosa nci sta/dudici stelli attornu attornu/ e la luna splendori nci fa) ti facevano sobbalzare e scattare all’esterno. Altro che mangiare! Passava una folta squadra variopinta che cantava coralmente nei vari dialetti. Erano i Posàri, cioè i reduci dal Santuario di Polsi (Posi in gergo nostrano) in Aspromonte che si avviavano a completare il loro cammino. Sfoggiavano folti rami di pino e i ragazzi ci appressavamo a chiederne un pezzo in quanto lo stimavamo benedetto. Al rametto si dava appellativo di posa (scientificamente brachiblasto), in riferimento a Posi. Molto tempo addietro, quando si difettava di vie di comunicazione, il transito per Oppido era obbligato per le genti della Piana. Non solo si considerava il più vicino ai monti che bisognava scalare, ma dava agio di riposare la notte per poi l’indomani proseguire un tantino rinfrancati. I posti per la sosta erano tradizionalmente lo slargo all’ombra del grande pino di Tresilico e il sagrato della cattedrale. Stralciamo da un bel componimento del poeta palmese Francesco Salerno uscito per la festa dell’1-2 settembre del 1954:

Sendu a Oppitu, pigghjammu
li muntagni e, gira e nchjana,
cumparìanu alluminati
lì paisi di la Chjana
e sbrendìanu, senza ‘n velu
mi l’adumbra, chjari e ghati,
tanti stiddhi ‘nta lu celu
chi nd’avìa ‘na ‘nfinitati!,
tutti mundi, suli e luni
quali sparsi o a cupigghjuni.


   Oggi le auto e i camions hanno ben sostituito i piedi. 
 

  Ecco ancora un vivido ricordo del pellegrino scrittore Fortunato Seminara: «Arrivarono a buio a Oppido, luogo fissato per la sosta notturna; si fermarono nella piazza del paese, sotto le acacie. Appena si furono ristorati e riposati un po’, ricominciarono a cantare e a suonare. La gente del paese stava intorno a godersi lo spettacolo, e qualcuno prendeva anche parte ai balli, accolto dai pellegrini con cordialità. I canti e i suoni continuarono fino a tardi» (Le baracche, 1942).

   Al giorno d’oggi dopo il Ferragosto e senza una data prestabilita, comunque entro il mese, si onora la S.ma Annunziata. È in attinenza all’anniversario del SS.mo Nome di Maria del 12 settembre. Fino ai primi anni 70 il tutto avveniva in successione, comunque entro la fine del mese, ma, avendo constatato che quasi sempre era impossibile operare nelle date fissate per via della ricorrente cattiva condizione climatica, abbiamo deciso col parroco Don Loria di effettuare il differimento.
 
    Una tale festa è stata istituita nel vecchio paese nel 1743, per avervi la protezione della Madonna preservato la cittadinanza dal flagello della peste. A riguardo si racconta un preciso fatto miracoloso, ma per esso rimandiamo a mirati studi, che ne trattano abbondantemente. Fino a non tanto tempo fa era la banda a tenere il campo. Tra i complessi anteguerra si dà rilievo a quello di Chieti, che per la prima volta si è spinto fino in Calabria e per il quale, non bastando il pur grosso contributo del Comune, i singoli componenti della commissione all’uopo nominata hanno dovuto impegnarsi in solido personalmente, ma alla fine tutto è andato per il meglio. Il dominio delle bande nelle feste è durato parecchio con afflusso di compagini di grande rinomanza che provenivano dalla Puglia, la regione che ne sfornava a ritmo continuo, Acquaviva delle Fonti, Lecce, Tuglie, Gioia del Colle, Noci ecc. Ma altre si dipartivano pure dall’Abruzzo e dalla Campania. Negli a. 50 i gusti sono cambiati e, sparita la vecchia guardia, a interessare le folle sono state orchestre di musica leggera con i cantanti più ricercati: Milva, Orietta Berti, Nada, Carmen Villani e chi più ne ha più ne metta. C’era solo l’imbarazzo della scelta. Oggi è tutto un altro discorso!

    A Tresilico oggi semplice rione, ma già Comune autonomo, l’omaggio festaiolo maggiore è rivolto alla Madonna delle Grazie. Le fasi di carattere sacro e profano hanno luogo insindacabilmente l’1 e 2 luglio. La località è particolarmente accorsata dai residenti della Piana, che in comitive vi si portano a piedi. La statua è accompagnata fino in cattedrale, quindi rientra in sede. Luminarie e bande prima e cantanti dopo (Claudio Villa ecc.) hanno svolto e continuano a svolgere il loro ruolo. Per un certo periodo anche a Zurgonadi (ottobre) si svolgeva l’annuale festa, ch’era consacrata alla Madonna del Rosario.

  Una singolare ricorrenza era quella della Santa Infanzia, la cui processione si limitava a uno spostamento dentro il Seminario e locali adiacenti con speciali celebrazioni in cattedrale. Non ricordo se cadeva in una data fissa o meno, ma in una foto si segnala all’8 dicembre. Era stata avviata per spinta del missionario oppidese p. Filippo Antonio Grillo (1837-1912) che ha trascorso un cinquantennio in Cina e con la finalità di raggranellare fondi per le Missioni. Allo scopo un bambino vestito da cinesino con indumenti inviati da quello stesso personaggio si portava di casa in casa. A occuparsene era in primo piano la zelatrice Benedetta Messina. Stralciamo dal volume “Cina chiama Calabria” del 1981, un ns. scritto in relazione a una vera e propria rampogna contro gli Oppidesi, rei di non fare quanto spettava loro ancora nel 1884:

   Avendo dato una scorsa agli annali dell’istituzione e avendo notato come Oppido, la sua patria vi aveva contribuito nientemeno con “un bel’0’”, il P. Grillo arrossì per la vergogna e subito fu assalito da sdegno, per cui se la prese con la Calabria e con l’Italia, un gran bel paese davvero, dove “la pietà se ne va in fumo di sparerie e di pirotecnici che costano i bei quatrini, anzi i buoni scudi a centinaia e migliaia” Si, anche i divertimenti servivano al culto, ma non potevano certo sostituire l’optimum. Cos’era mai successo agli Oppidesi? Come mai, tra tante opere di pietà che pur praticavano, non volevano saperne di tenere presente quella della Santa Infanzia? Forse i suoi compaesani si erano lasciati abbindolare dalle chiacchiere di tale Francesco Sarcey, che alcuni anni pima su di un giornale francese aveva attaccato l’opera “chiamandola un’Istituzione fatta per ingannare la gente dabbene che si lascia tirar quattrini di che ingrassano i Missionarii apostolici?
  
   Nel 1911 p. Grillo finalmente era in grado di congratularsi con i parenti di Oppido per la buona riuscita della festa della Santa Infanzia e per la relativa sostanziosa raccolta. Entrambe le due iniziative si sono reiterate all’incirca fino al 1981. N’è testimonianza la foto scattata al “cinesino” Mimmo Giannetta esattamente in quell’anno e pubblicata nel volume di cui sopra.

 Ultimo festeggiamento è indubbiamente quello riservato alla Madonna dei Campi, cui si rende onore nella chiesa dell’Oratorio, che si svolge a novembre. Si è generato nel 1896 per merito del sacerdote don Giuseppe Mangione, che l’ha importato dalla Francia. La sua intenzione, come in un libricino, è di “conservare e ricondurre lo spirito cristiano in mezzo agli agricoltori”. Nel frangente si benedicono le messi e oggi anche i mezzi meccanici che servono per i lavori agricoli. Nel corteo in evidenza si stagliano ragazzette in abito bianco che recano in appositi cestini le primizie.
Rocco Liberti

 

giovedì 12 ottobre 2023

SALVATORE ALBANO : LA SCULTURA DELLA PUREZZA DA OPPIDO AL MONDO ( di Rocco Liberti)

   In occasione del 130° anniversario della morte viene spontaneo andare ancora una volta a osservare l’autoritratto in marmo di Salvatore Albano – paradigma esauriente della perfezione della sua arte - posto originariamente dinanzi all’aiula di N-W della piazza Umberto I di Oppido Mamertina grazie all’interessamento del nipote Concesso Barca, (a sua volta valente scultore), oggi invece sfregiato e allocato  maldestramente all’interno della stessa aiuola. Non risulta se qualcuno abbia mai pensato a una ricollocazione meno casuale e più decorosa di questo eccellente busto marmoreo nel contesto di un'altra piazza mamertina, quella che  reca il nome dello stesso artista. E non hanno avuto sorte migliore altri suoi  capolavori di pregevolissimo valore rimasti fortunosamente a Oppido e oggi custoditi con amore dagli eredi in gran parte nel cimitero locale , ma praticamente sconosciuti al grande pubblico, soprattutto alla gente di questo infelice territorio: il “Busto bronzeo della madre”, un “Monumento funebre”, “Un Basso rilievo con l’angelo”, la “Statua di un angelo”; “L’ orfanella “. Esempi tutti di arte finissima che meriterebbero una sistemazione stabile e omogenea in apposito museo locale, che annoverasse insieme a queste ed altre eventuali opere di questo scultore quelle di altri artisti mamertini, per restituire alla città e alla cultura delle nuove generazioni una sintesi corposa e ragionata dei fasti di una città oggi in paurosa decadenza. Se poi le scuole locali, nell’ambito della loro autonomia progettuale, ritagliassero nei loro tempi di insegnamento uno spazio istituzionale , costante e serio, destinato alla conoscenza della cultura locale e regionale ai vari livelli , forse il nome di Salvatore Albano, come quello di altri illustri artisti del luogo e di tutto il comprensorio, non rimarrebbero colpevolmente sconosciuti ai nostri giovani.

     Al di là di qualche iniziativa celebrativa occasionale, vecchia e nuova, e di qualche notizia fugace riportata dai grandi media, abbiamo comunque sulla figura e sull’opera  del grande Salvatore Albano, uno studio essenziale, ma esauriente che il prof.Rocco Liberti ha curato con l’abituale rigore di ricerca, parzialmente presentato in “Calabria Sconosciuta “ oltre un decennio fa (n. XXXIV-2011, n.131, pp 75-76) col titolo “Arte scultoria e mecenatismo delle amministrazioni pubbliche” e che oggi propongo  qui nella sua interezza con la speranza dei rendere un servizio non tanto agli addetti ai lavori quanto al grande pubblico degli estimatori e dei giovani. E non solo di quelli mamertini. (Bruno Demasi)

                                                                   -----------------------------

  Nel corso dell’Ottocento, soprattutto dopo la formazione dello stato unitario, le nuove amministrazioni non si sono rivelate avare nel porgere un aiuto sostanzioso ai giovani volenterosi della Bellitalia che intendevano perseguire una loro strada nel cammino dell’arte. Un tale impegno è sicuramente verificabile per molti paesi della nazione e, in senso ristretto, della Calabria. Allora comuni e province non hanno negato il loro appoggio a chi, ancora in attesa di compiere il grande balzo, si rivolgeva fidente a essi. 

    Limitando il campo a Oppido Mamertina, non si può non mettere in primo piano Salvatore Albano, l’artista che, deceduto poco più che cinquantenne (1839-1893), si è fatto gran nome tra l’Italia e il resto del mondo per le sue originali opere in particolare di stampo neoclassico. Basti pensare all’imponente monumento ch’egli ha scolpito per Sebastian Lerdo De Tejada, ch’è stato presidente del Messico dal 1872 al 1876 e ch’è deceduto nel 1889, quindi sicuramente ideato e portato a termine negli ultimi anni di vita. Ma sono tantissime le sculture degne di nota, come “L’Angelo ribelle” collocato nel Museo dell’Arte di Brooklin, il Vanni Fucci (1878), “Amore e Psiche”1891” e vari altri
 
  Nasce a Oppido Mamertina il 30 maggio 1839 ( Registro nati del comune, a.1839,atto n.79) da Vincenzo, falegname, e Teresa Condò, filatrice, in seno a famiglia oriunda da Serra San Bruno effettivamente e Salvatore è stranamente il suo terzo nome, gli altri sono in linea Rosario e Stefano. Seguendo il mestiere del padre, si specializza nell’arte dell’intaglio e si offre all’attenzione del canonico Domenico Zuco, un mecenate interessato al progresso di tante realtà del paese, che gli fa vincere una borsa di studio messa a concorso dal Consiglio Provinciale di Reggio Calabria. Si porta indi a Napoli, dove frequenta l’Istituto di Belle Arti. Dopo aver peregrinato variamente per l’Italia, fa sosta a Firenze, città nella quale apre un atelier. Guadagnatasi la stima di famiglie aristocratiche e dello stesso Principe Umberto, che di transito in quella città vi si reca in visita, ottiene ambiti premi e onorificenze e i suoi raffinati prodotti vengono parecchio richiesti, anche dall’estero. Fallito l’unico approccio con una distinta dama per volere del di lei padre, rimane celibe fino all’ultimo. 

    E’ bene tuttavia seguire più da vicino la parabola umana e artistica di questo grande artista : dalla documentazione esistente viene fuori che egi, al suo primo volo, è stato assecondato da amministratori solerti e che in fatto di cultura non erano secondi a nessuno. Era il 1868 e il futuro scultore andava appena per i 19 anni. Orbene, nella seduta del consiglio provinciale del 29 febbraio di quell’anno un consigliere di gran nome, Domenico Spanò Bolani, peraltro autore di una ponderosa storia di Reggio Calabria, veniva a riferire in merito alla domanda fatta tenere da quel giovinetto. Questi, qualificato «giovane scultore pensionato», petiva un sussidio utile a farlo proseguire negli studi. A tale domanda se ne aggiungeva altra parimenti evidenziata. Poiché con quest’ultima chiedeva l’anticipazione di «sei mesi di pensione per poter conferire a Firenze e concorrere ad una pensione governativa», lo Spanò Bolani coglieva la palla al balzo per prendere, come si dice, due piccioni con una fava. Poiché l’Albano offeriva dei «certificati di attitudine e lodevole applicazione», perché non accettare la seconda richiesta? Nel caso quegli fosse riuscito a ottenere la «pensione governativa», la stessa provincia ne sarebbe stata finanziariamente sollevata! Con l’avallo di così autorevole esponente, l’ente non poteva fare altro che approvare all’unanimità[i]
 
    Lo Spanò Bolani non è stato però ugualmente assecondato con altro artista oppidese, fino a oggi completamente sconosciuto e segnalatomi solo poco tempo fa dall’amico studioso Achille Cofano. Si tratta di Francesco Cristarella, la cui richiesta di una «gratificazione» è stata approvata da tutti meno che da Fabrizio Plutino, peraltro altro illustre personaggio del periodo risorgimentale. È tale un comportamento che non gli fa certo onore. In quella stessa occasione il consigliere reggino ha evidenziato aver Francesco Cristarelli (sic!) «presentato modello in gesso d’una statuetta della Speranza». Cristarella è un cognome completamente sconosciuto a Oppido, ma, nello scorrere gli atti parrocchiali e comunali, è stato facile avvedersi che vi hanno vissuto varie famiglie così nomate, peraltro doviziose di discreta figliolanza. Dopo varia indagine, alla fine siamo riusciti a individuare tale artista, che purtroppo è venuto a morte dopo appena cinque anni da quella richiesta, il 12 gennaio 1873. Egli, nell’atto comunale qualificato propriamente «scultore», era figlio di Giuseppe, di mestiere falegname e di Chiara Franconieri, filatrice ed era nato in Oppido il 16 gennaio 1849, per cui al tempo della richiesta contava anche lui 19 anni[ii]

    Dopo gli studi napoletani col calabrese Giuseppe Antonio Sorbilli, passa all’Accademia e qui lo accoglie la paterna protezione di Tito Angelini. Nel 1864 si esprime con una statua in marmo raffigurante il conte Ugolino. L’opera è acquistata dal marchese Agostino Sergio, che la mette nel proprio palazzo. Sentendosi umiliato per il terzo premio conferitogli l’anno precedente nel corso di perfezionamento a Roma per il “David che suona la cetra per calmare l’ira di Saul”, dà un forte pugno sul relativo modello in creta. L’episodio fa rumore e il principe Umberto gli commissiona una statua in marmo rappresentante “Mosè sdegnato che spezza le tavole della legge”. Al medesimo tempo vince un primo premio dell’Accademia per il “Cristo nell’orto”, mentre la Provincia reggina gli assegna una pensione triennale di 60 lire dopo un esito vittorioso di concorso, al quale partecipa. Seguono “Calipso abbandonata da Ulisse”, “La resurrezione di Lazzaro”, “Eva”, “Gioacchino Rossini”, un “Masaniello”, “Il Genio di Michelangelo” e ancora nuove produzioni. 

   Nell’accorsato laboratorio fiorentino i committenti italiani ed esteri non fanno che moltiplicarsi, per cui tanti egregi manufatti finiscono così in America, Inghilterra, Russia e altri Stati. Per il “Vanni Fucci”, collocato al Museo Metropolitan di New York, l’artista calabrese si ha una medaglia d’oro nel 1878 al Salon di Parigi. Ma è sempre tutta una sequela di calibrati bozzetti, Mefistofele, La Pescatrice, Cristo in croce, Frine, Amore e Psiche e monumenti, come il “Monumento Ruva” sistemato nella stazione di Ancona. Tra le grandi opere è da includere sicuramente l’imponente monumento funebre eretto a Città del Messico in onore del presidente e generale Sebastiano Lerdo de Tejada, a cui ha atteso negli ultimi anni.
     Muore a Firenze il 12 o 13 ottobre 1893. 

    Albano, una volta raggiunta la fama e l’agiatezza, non ha dimenticato i suoi benefattori, pensando, come scrive Ugo Campisani, di dar vita proprio a una “Fondazione Albano” destinata a «elargire aiuti finanziari ai giovani calabresi votati all’arte, ma privi di risorse, dando a loro, se meritevoli e capaci, la possibilità di studiare e raggiungere le vette ambite e sognate». Quindi, in pratica, l’assegnazione di borse annuali di studio. Purtroppo, gli eredi, non paghi di quanto il degno oppidese aveva loro lasciato in morte, hanno intentato causa alla provincia vanificando la nobile iniziativa. Difatti, essendo il processo presso il tribunale di Reggio andato per le lunghe, quanto doveva servire ad aiutare i giovani nel cammino dell’arte è finito per esaurirsi[iii]. Comunque, è noto che egli abbia destinato un lascito in favore dell’ospedale, particolare ricordato da una lapide all’ingresso dello stesso. 

      Facendo proprio riferimento al legato Albano, l’oppidese Salvatore Malarbì di Rocco, ha chiesto al Comune, in attesa di ottenerne un’apposita concessione da parte dell’Amministrazione Provinciale, di elargirli «un sussidio per poter continuare i suoi studii si pittura». In riposta il Consiglio Comunale nel febbraio del 1896 ha deciso all’unanimità l’elargizione di un sussidio di 50 lire mensili[iv]

    Albano sicuramente doveva aver lasciato un discreto patrimonio. Uno scrittore statunitense scrive che lo studio, ch’egli aveva avviato a Firenze sin dagli anni ’70 inoltrati, si qualificava «one of the largest and most attractive» cioè uno dei più grandi ed attraenti della città e mèta dei turisti americani, che gli commissionavano varie opere. L’artista era ricercato soprattutto per gli schizzi di carattere in creta, che eseguiva in tempi rapidi, due giorni ed anche meno[v].
     Tra i giudizi espressi da personalità d’ogni tipo in ordine allo stile e capacità dell’Albano merita indubbiamente particolare attenzione quello del contemporaneo Angelo De Gubernatis, che così scrive: «La genialità, la disinvoltura, la naturalezza distinguono particolarmente l’opera di questo scultore potente, rapido nel concepire, ugualmente pronto nell’eseguire, capace di forza e di grazia nel tempo stesso e forse nella stessa misura. Le sue statue sono tutte palpitanti di vita; modellatore invidiabile dà alle carni modellate una singolare trasparenza, motivo per cui le sue statue, di donna specialmente, sono ricercatissime dagli Americani». 

    Ricordandosi di quanti gli hanno fatto del bene, l’Albano, che muore appena cinquantaquattrenne, pensa solidamente ai suoi conterranei facendo dei lasciti in favore del costruendo nuovo ospedale di Oppido e dando vita, per testamento, a delle borse di studio «per il perfezionamento artistico e per l’istruzione agraria in favore di giovani meritevoli della provincia reggina». 

   Indubbiamente un grande, anche a livello morale e umano!

Rocco Liberti 
NOTE

[i] Atti del Consiglio Provinciale di Calabria Ultra Prima dell’anno 1868-Sessione straordinaria, Stamperia Siclari, Reggio Calabria 1868, p.86.
[ii] Ivi, p. 91.
[iii] Ugo Campisani, Artisti calabresi Ottocento e Novecento, Pittori-Scultori-Storia-Opere
, Luigi Pellegrini, Cosenza 2005, p. 14.
[iv] ACO, Delibera del Consiglio Comunale.
[v] David Bernard Dearinger, Painting and Sculpture in the Collection of the National Academy of Design 1 – 1826-1926, Hudson Hills Presse, New York 2004, p. 11.

ESSENZIALI RIMANDI BIBLIOGRAFICI

Angelo de Gubernatis, Dizionario degli Artisti italiani contemporanei, 1889, pp. 11-12;
Monumento in marmo eseguito dallo scultore Salvatore Albano nel Messico a Sebastian Lerdo de Tejada nell’anno MDCCCXCIII, in Firenze, Tipografia di Salvatore Landi, 1893;
Albertina Albertini, Savatore Albano, Natura ed Arte, n. 1, aa. 1893-1894, pp. 121-125;
Vincenzo Frascà, Oppido Mamertina Riassunto Cronistorico, Cittanova, Tip. Dopolavoro 1930, pp. 287-290;
Rocco Liberti, Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido, Barbaro editore, Oppido Mamertina 1981, pp. 265-278;