E' questo l'accorato atto di volontà di Federica che, dal suo letto di coraggiosa sofferenza, dalla pagina di fb "La piana di Gioia Tauro ci mette la faccia", ancora una volta ci interpella, ci strattona, ci chiama all'impegno comune con tutta la dolcezza e fermezza di cui è capace.
Grazie, Federica!
Grazie per questa ennesima lezione di vita!
Grazie al "Presidio San Ferdinando in movimento" che già nel settembre 2011 ha realizzato , sotto forma di slideshare, questo coraggioso documento che prendo in prestito e ripropongo qui, per quanti amano visitare e leggere questo minuscolo blog e per quanti avranno il coraggio di leggere le slides che seguono (basta cliccare sul seguente link attivo):
Ci sono a volte delle domande esistenziali
che attanagliano le persone e non sembrano trovare risposte plausibili, se non
all’internodell’ astrazione politica
pura o...della fantasia più sfrenata oppure, come più spesso accade, ... della barzelletta.
Quella sul “DAQ” è una di queste domande, già
a partire dal significato dell’acronimo che più o meno dovrebbe indicare il “
DISTRETTO AGROALIMENTARE DI QUALITA’”. Una realtà progettuale probabilmente
destinata a non andare molto oltrelo
stadio di progetto, patrocinata dal Gal della Piana di Gioia Tauro e da alcune organizzazioni dei produttori, tendente a dare
una prospettiva nuova all'agricoltura pianigiana e dell'hinterland di Reggio
Calabria e presentato in pompa magna il 30 gennaio scorso dal presidente della
seconda Commissione del Consiglio regionale della Calabria, ''Bilancio,
Programmazione economica, Attivita' produttive e Fondi comunitari'', Candeloro
Imbalzano, e dall'assessore all'Agricoltura, Michele Trematerra, inappositaconferenza stampa.
La fiorente agricoltura nella Piana di Gioia Tauro
Non voglio assoluatamente entrare nel
merito del progetto, che per definizione sarebbe auspicabile si realizzasse,
alla stregua di quanto è sempre auspicabile ci sia almeno un movimento di acque
nella stagnazione nauseabonda
dell’agricolturadel comrensorio della
Piana e dell”interland” reggino ( che bella cosa la terminologia inglese:
riesce a rendere elegante persino la realtà di degrado e di miseria più
becera).
Brevssima cronaca del seguito...
A poche ore della presentazione del
progetto, l’assessore provinciale all’agricoltura GaetanoRao dichiarava a Reggio Press:
“La conferenza stampa organizzata da
esponenti autorevoli della Regione Calabria per presentare il Distretto
Agroalimentare della Piana di Gioia Tauro e dell’Area dello Stretto mi pare,
questa sì, mera propaganda elettorale... . Sono fermamente convinto che così
come è stato concepito, lo strumento che si intenderebbe promuovere non
possiede i requisiti previsti dalla legge. Non mi pare, infatti, che sui
territori interessati insistano produzioni certificate e tutelate tali da
suffragare l’esistenza del Distretto di Qualità... . Secondo me stiamo
rasentando la follia. Che qualcuno recuperi il senno della ragione ed inizi a
parlare di agricoltura vera e di problemi veri... Dove sono i soldi delle
calamità naturali 2007 e 2008 che, nel passato, sono stati dirottati altrove?
Dove è quell’attenzione straordinaria che l’On. Imbalzano aveva promesso?... Di
ritorno ieri a Rosarno, un agricoltore mi ha chiesto in che cosa consistesse
l’iniziativa presentata sul distretto agroalimentare di qualità e se avesse a
che fare con i danni da cenere vulcanica o se potesse favorire, nell’immediato,
l’accesso al credito delle imprese. L’On. Imbalzano provi a dargli una
risposta. Ora e non nel 2020!”
La
rispostadell’assessore regionale Imbalzano , giunta nella stessa giornata e
ripresa da Strilli.it, aveva il seguente tenore:
“La dichiarazione stizzosa e
inconsistente dell’assessore provinciale Rao sull’istituendo ‘Distretto
Agroalimentare di Qualita’ della Piana di Gioia Tauro si commenta da sola. Il
tono utilizzato dimostra in modo lapalissiano che la sua è solo una banale
polemica politica, frutto di livore generalizzato verso l’intera Amministrazione
regionale... Forse Rao ha confuso per un qualsiasi convegno quella che
era una autorevole conferenza stampa del Comitato promotore e della Regione per
presentare un progetto reale, frutto dell’iniziativa, dal basso, del territorio
nonché della virtuosa sinergia tra Dipartimento Agricoltura regionale,
GAL della Piana, Organizzazioni rappresentative di centinaia di produttori,
Ente Parco dell’Aspromonte, associazioni di Categoria, Consorzio di Bonifica di
Rosarno e decine di sindaci... –(l’assessore Rao) ha perso una ulteriore
occasione per non abbandonarsi alle sue ormai ben conosciute ‘esternazioni’,
frutto evidentemente di una strana ossessione: quella cioè di considerarsi
l’unico vero assessore all’Agricoltura dell’intero Paese. Al contrario, pur rinnovandogli
l’invito a una virtuosa collaborazione nell’interesse del territorio, credo che
prima o poi dovrà farsi una ragione ben diversa di questa nostra iniziativa”.
Caneloro Imbalzano
Gaetano Rao
Ci siamo! Il battibecco tra i due assessori (
che mi permetto proditoriamente di accostare,
almeno nella foto che illustra questo post, perchè li ritengo più simili tra
loro di quanto essi stessi non pensino) , pur facendoci conoscere alcuni
retroscena più o meno inediti, più o meno gravissimi (ritardi e modalità abnormi
nella concessione dei risarcimenti relativi a calamità naturali pregresse, problemi
insormontabili di accesso al credito da
parte delle imprese agricole, mancanza,
a monte, di un minimo di certificazioni di qualità...) , pur facendoci ancora
riflettere su quel deserto colturale e culturale nel quale ci muoviamo ormai
nella Piana, conferma senza dubbio, come diceva Pirandello, che tutto sommato
...non è una cosa seria. L’ennesima!
Riprendo integralmente il servizio apparso in questi giorni sul giornale on line Linksicilia
di Gabriele Buonafede
Il Governo-USA ammette pericoli su smaltimento armi chimiche. Quello italiano li nasconde
Il segretario alla difesa USA Chuck Hagel (nella foto) è stato chiaro: “Come sapete, la vostra missione non sarà facile”, ha detto in un messaggio all’equipaggio della Cape Ray. “I vostri giorni saranno lunghi e difficili. Ma il vostro duro lavoro, la vostra preparazione e dedizione faranno la differenza.”
E ancora: “Per questo vi saremo sempre riconoscenti. Saremo
riconoscenti anche alle vostre famiglie per l’amore e il sostegno che vi
danno. A nome del nostro Paese e del popolo americano, vi auguro un
successo completo. Prendetevi cura di voi. Dio vi benedica”.
Parole che sono inconsuete per noi. E che ammettono un certo grado di pericolo nell’operazione,
tanto da consigliare il governo americano a incoraggiare, secondo le
proprie modalità e la propria cultura, chi se ne dovrà occupare.
Strane, inedite parole per noi italiani, impossibili a immaginare da parte del nostro governo che invece ha parlato di “operazione ordinaria”, di “mancanza di pericoli”, di “opuscolo alla popolazione”,
per altro mai distribuito. Insomma, laddove il governo americano mette
l’accento su pericoli e onori di una missione evidentemente pericolosa,
il nostro governo nasconde, minimizza, si vanta di “eccellenze” che
vengono scoperte all’occorrenza. Un vizio antico, purtroppo.
Da registrare anche la totale
mancanza di notizie da parte dell’esecutivo italiano a popolazione e
amministrazioni locali che hanno chiesto più volte d’essere almeno
informati. Finora tutto è stato vano e le uniche informazioni
provengono da giornali e TV straniere o da pochi giornali italiani come
il nostro.
Stupisce ancor più il contrasto nell’atteggiamento. Laddove
l’amministrazione-USA ringrazia chi sarà esposto nell’impegno per
un’importante missione di pace, il governo italiano non solo non ha
informato, ma ha snobbato e trattato come “sudditi” i propri cittadini. Altro che ringraziamenti…
Quando la notizia si è venuta a sapere comunque, Palazzo Chigi si è
guardato bene dal ringraziare per lo meno quelle popolazioni che,
volenti o nolenti, dovranno tenere il fiato sospeso per almeno una
settimana. Ha persino fatto proposte grottesche, come quella
dell’”opuscolo”, e continuato a tacere. L’esecutivo italiano è arrivato a
pubblicare, senza vergogna, un video muto e privo d’informazioni sulla
tardiva riunione con i Sindaci più direttamente coinvolti: una specie di
quei video da “Pravda” stalinista, che al massimo serve per autocelebrare il potere assoluto e segreto. La mappa con il percorso delle armi chimiche siriane nel Mediterraneo così come è stata pubblicata dalla BBC.
Nel frattempo, emergono una serie di fatti che è impossibile
nascondere. Le armi chimiche, transiteranno per alcuni giorni vicino
alle coste calabresi e siciliane: i 2-3 giorni in cui
l’imponente schieramento di scorta seguirà le due navi cariche di agenti
fortemente tossici e le 12-48 ore in cui questi saranno trasbordati a
poche centinaia di metri da scuole e abitazioni.
L’operazione, con tutta ovvietà, provocherà una grande militarizzazione dell’area dello stretto di Messina (molto vicino a Gioia Tauro) e
del Mediterraneo centrale con consistenti flotte navali e aeree NATO e
non-NATO per una durata di diverse settimane o anche mesi.
Il fiato si dovrà tenere sospeso per ben più delle 48 ore annunciate
dal governo italiano. Lo si dovrà tenere sospeso, come si evince dalle
parole del Segretario alla difesa americano “per giorni lunghi e difficili”. Non è un segreto, infatti, che il Mediterraneo centrale, e soprattutto il Mar Ionio, sarà in stato di allerta per i tre mesi necessari allo smaltimento di questo primo carico. E si tratta solo di un primo carico, altre
centinaia o migliaia di tonnellate di componenti del sarin e
dell’iprite aspettano d’essere imbarcate e trasportate nuovamente verso
la Calabria.
La cosa durerà, per stessa ammissione di OPAC e USA, per molto tempo: alcuni mesi come minimo. Che Dio ci benedica. E ci protegga.
Per il sito ufficiale del Dipartimento della Difesa USA con il comunicato e le parole di Hagel (in inglese) vai a questo link
Negli
innumerevoli centri e parchi commerciali
che ormai sovrabbondano in una Piana sempre più prostrata economicamente e i cui
170.000 residenti sono soltanto una
cifra convenzionale sempre più erosa da forme di emigrazione silenziose e preoccupanti,
le luci che sfavillano ogni sera sono
ormai inversamente proporzionali al numero degli acquirenti che si recano con qualcosa in mano alle casse dei vari
esercizi commerciali.
Sono
migliaia, milioni di luci, di leds, ma non riescono affatto a riscaldare più di
tanto questo gelido inverno della Piana, specialmente nella tendopoli,ormai sempre più baraccopoli,
di San Ferdinando, nei pressi della quale appena poche settimane fa è morto per
il freddo un giovane liberiano. E la situazione è tutt’ora in via di
peggioramento, specialmente
da quando i riflettori si sono spostati dal problema degli immigrati a quello
ugualmente drammatico del transito della nave dei veleni nel vicino porto. I medici di Emergency che
operano nella zona pochi giorni fa hanno
segnalato alla Asp di Reggio Calabria
alcuni casi di scabbia e un
focolaio di tubercolosi, per i quali l’unico intervento effettuato è stato a
carico del comune di San Ferdinando, il cui sindaco Domenico Madafferi ha fatto disinfettare più volte le tende, ma
non le baracche sorte come funghi nelle quali gli operatori medici si rifiutano
di entrare.
In
questo inferno di freddo senza fine va
avanti anche l’inchiesta della procura
di Palmi. Dopo vari sopralluoghi nella tendopoli e l’acquisizione di documenti,
il procuratore Giuseppe Creazzo sarebbe intenzionato a incontrare il nuovo
prefetto per cercare di smuovere qualcosa, perché la situazione potrebbe
precipitare. E se precipitasse, se il sindaco firmasse l’ordinanza di sgombero,
dove andrebbero gli immigrati che non trovano posto nella tendopoli? A fare la
fine degli oltre duemila “invisibili”, che, come hanno rivelato ancora una volta molti giornali poche
settimane fa, sarebbero sparsi nelle
campagne del rosarnese?
In
questo inferno di buio pochi giorni fa però si è accesa una luce piccolissima, ma
tanto potente da riscaldare più dei
mille e mille leds che illuminano a giorno
i vicini centri e parchi commerciali...
E’ la luce che si accende
nella "la chiesetta dei cristiani", nata su iniziativa di don Roberto
Meduri, parroco di S. Antonio al Bosco di Rosarno, coadiuvato dagli stessi
immigrati sia cattolici che di altre confessioni cristiane. Una piccola chiesa nella tendopoli che si illumina, grazie a una
batteria, ogni domenica sera per la messa e durante la settimana per momenti di
preghiera. C’è un tavolino come altare, alcune panche, una croce di metallo
offerta da un artigiano di Rosarno e perfino una piccola campana.. E infatti
alcuni momenti di preghiera sono interconfessionali. Prima tutto al buio, come
il resto della vita degli immigrati, ora con la luce fornita dalla batteria.
Un bel segnale di speranza tutto sommato, come la piccola moschea nata in un’altra baracca a
poche decine di metri o,
come osserva un giornalista di Avvenire, la baraccopoli sorta
in modo ordinato con le baracche tutte in fila quasi fosse un villaggio, con strette
vie e piazzette dove gli immigrati mangiano. Ma dietro l’ultima fila di
baracche cumuli di rifiuti che nessuno raccoglie (ogni tanto vengono bruciati)
e un rigagnolo di acqua sporca, dove scorrazzano cani randagi e qualche pecora.
E già perché poco più avanti c’è una sorta di bazar con le baracche spaccio
alimentare, le baracche ristoro dove si cucinano e si vendono polli e carne di
pecora. Tutto insieme, con ordine ma evidentemente con scarsissima igiene
(l’unica acqua calda è quella prodotta su fuoco a lega e venduta a 50 centesimi
a secchio).
Eppure la vita va avanti: poco
lavoro ma tante speranze come ha scritto un immigrato su una maglietta stesa
tra le baracche: «For a new life», per una nuova vita. E la domenica mattina, al
termine della messa , don Roberto invita spesso gli immigrati a intonare un
loro canto in lingua "twi" e i bambini rosarnesi a ripetere il
ritornello: «Maria madre di Gesù aiutaci». Ma esiste ancora un ministro di nome Kyenge?
Il culto di san Biagio nella Piana di Gioia Tauro, nella diocesi tutta, è uno dei più resistenti e vivi , malgrado le devastazioni iconoclaste perpetrate da tanto razionalismo, che in qualche modo ha impregato e impregna forse ancora alcune propaggini ecclesiali... Culto legato alla figura e ai carismi taumaturgici (in particolare per tutti i malanni della gola e del ventre ) di questo santo vescovo, operante in tempi in cui ancora si credeva ai carismi di guarigione... , ma singolarmente sentito, vissuto e partecipato ancora oggi in tanti piccoli centri, come Scido, San Procopio e Plaesano.
Proprio la devozione al Santo in quest'ultimo paesino della Piana nordorientale, ci viene mirabilmente descritta e ricordata in questa stupenda pagina dalla penna di Umberto Di Stilo, che ringrazio vivamente per questo suo pregevolissimo intervento sul blog.(Bruno Demasi)
di Umberto Di Stilo
Ci sono, specie nel Sud,
diverse località e piccoli centri conosciuti solo ed esclusivamente per una
loro fiera, per il loro santo protettore, per un pellegrinaggio, per un preciso
avvenimento che caratterizza la loro stessa identità geografica. Sicchè, nella Calabria
reggina, Acquaro di Cosoleto è conosciuto per la festa di San Rocco, Terranova
Sappo Minulio per l’annuale pellegrinaggio in onore del “SS. Crocifisso”, Polsi,
in Aspromonte, per la sua Madonna della Montagna, ecc.
Lo stesso discorso vale
per Plaesano che da sempre si identifica con San Biagio, con il pellegrinaggio
del tre febbraio e con le classiche ed immancabili “tre girate” attorno alla
chiesa che costituiscono una delle più genuine e schiette tradizioni di fede
della gente di Calabria.
Plaesano, un pugno di
case sommerse in un mare di secolari olivi, vanta origini remotissime e da
sempre, ogni anno, il tre febbraio, richiama migliaia di persone di ogni età e
condizione sociale.
Sorto in epoca molto
antica, il primo nucleo abitato si costituì presumibilmente attorno ad un
castello il cui primo proprietario fu un tal Plagitzanos dal quale
successivamente prese il nome di Preizano o, come si legge in diversi
documenti, “Praiezzano”.Dalla fine del 1300 al
1850 Plaesano è stato sempre legato a Galatro, prima perchè facente parte dello
stesso feudo e della stessa baronia, poi - dal 1835 al 1850 - perchè sua
frazione. In atto è frazione di Feroleto della Chiesa e, pur facendo registrare
una costante espansione urbanistica, supera di poco i mille abitanti.
Questi, però, si
centuplicano il tre febbraio, allorchè, da sempre, diventa l’ ”ombelico della
Piana” tant’è che sin dalle prime ore del mattino, le strade che lo collegano
agli altri centri della zona si popolano di pellegrini che vanno a sciogliere i
loro voti ai piedi del Santo. Giungono dalla montagna,
dalla pianura e dalla valle. Il paese, infatti, è
situato in cima ad una collina larga e folta di olivi che si allunga tra due
valli, dai monti verso il mare e finisce in un terrapieno qualche chilometro
oltre l’abitato; da un lato scende rapida, con fratture e burroni, dall’altro
si distende con un pendio dolce e solatìo, in cui i vigneti formano delle chiazze
chiare tra gli olivi. Da questa parte si arriva dalla Piana, dopo che la strada
ha attraversato l’ampia e luminosa valle del Metramo, verde di aranceti.
I pellegrini ora
arrivano in macchina, giacchè solo quelli dei paesi vicini (Galatro, Feroleto,
Laureana) riuniti in allegre e chiassose comitive, seguendo la secolare
tradizione locale, raggiungono a piedi il piccolo centro, ma una volta -fino alla
fine degli anni sessanta- a Plaesano, il tre febbraio, era un continuo affluire
di “massari” sul loro caratteristico carro tirato dai buoi i quali, senza
scendere dal rudimentale mezzo di trasporto e prima di entrare in chiesa a
venerare e ringraziare il Santo, come tutti gli altri pellegrini, si
affrettavano a compiere tre giri con il carro e gli animali attorno alla
modesta chiesetta.
Questa di Plaesano era
considerata anche la festa dei massari e, più precisamente, la festa del mondo
agricolo e contadino. Non erano pochi, infatti, gli agricoltori che a Plaesano
portavano in chiesa (e molti lo portano ancora) un pugno di cereali che,
benedetti, mescolavano a quelli della semina assicurandosi così una buona
germinazione ed un felice raccolto. Inoltre la festa di Plaesano è ancora
conosciuta come la “festa dei tre giri”. E, anche se l’origine di
questo antico rito è piuttosto oscura, ancora oggi, ogni persona che si reca
alla festa deve compierlo; deve girare tre volte intorno alla vecchia chiesa
che ha la facciata rivolta verso la piazzetta ed è circondata da una viuzza
stretta come un corridoio.
Per tutto il giorno è un
continuo girare di persone (e, una volta, anche di bestie; di intere mandrie,
di armenti al gran completo); il giro non si deve mai interrompere. “E’ un
girare uguale e lento come dell’asino legato alla stanga del pozzo, regolare
come di un satellite intorno al suo pianeta”, scrisse Fortunato Seminara.
Secondo una ben radicata
tradizione, infatti, chiunque raggiunge Plaesano nel giorno della festa del
Patrono e trascuri di compiere i tre giri, è da considerare come uno che manchi
di rispetto al Santo.
La cerimonia dei “tre
giri”, infatti, non sembra doversi intendere come “deposizione attorno alla
chiesa dei mali e delle cattive influenze” ma ha solo il significato di omaggio
doveroso al Santo il quale, però, -secondo un’antica credenza popolare- si vendicherebbe
con coloro che non si curassero di compiere l’atto di omaggio. I giri devono
essere tre perchè nella simbologia cristiana il numero tre rappresenta la
Trinità. Secondo alcuni studiosi, invece, i tre giri attorno alla chiesa sono
da collegare alle tre apparizioni di Cristo a San Biagio, la notte precedente
il suo arresto ed il suo martirio.
Fra gli aspetti del
culto di San Biagio, ricollegabili ad episodi della sua vita, il più importante
è quello di taumaturgo per le malattie della gola che trae origine dal noto
miracolo della spina di pesce e dalla orazione che il martire avrebbe fatto
prima di morire, chiedendo a Dio di risanare da questa malattia chiunque
l’avesse pregato in suo nome, ma a San Biagio viene anche
attribuita la facoltà di guarire i mali di ventre. A Plaesano quasi tutti i
pellegrini arrivano muniti di un frammento di tegola (‘u straku) che,
avvolto in un panno di bucato o, comunque, in un pezzo di stoffa, provvedono a
mettere in contatto con la statua dl Santo. Lo stesso frammento viene quindi
portato a casa per applicarlo sul ventre dei bambini in caso di necessità. In
questa evenienza il dolore scomparirà.
Perchè proprio un
frammento di tegola? Pare che fino al 1783 i pellegrini portassero un intero
mattone. Il terremoto di quell’anno, però, (era il 5 febbraio, ed il
pellegrinaggio in onore del Santo aveva avuto luogo esattamente 48 ore prima dl
“flagello”) ridusse tutte le abitazioni della zona in un ammasso di macerie,
sicchè l’anno successivo i fedeli, anche in segno della loro precaria
condizione di vita, portarono a Plaesano per la consueta benedizione, un
piccolo frammento di tegola, ‘u straku, appunto. Straku che,
nonostante i progressi fatti registrare nel campo medico e scientifico, ancora
oggi, il tre febbraio, molti dei pellegrini che giungono a Plaesano non
rinunciano a portare con loro, magari ben celato in moderne e capienti borse
femminili. Nessuno, infatti vuole trovarsi sprovvisto nel malaugurato caso che
fosse necessario applicarlo sul ventre dolente dei bambini, a mo’ di
analgesico, per far sparire il dolore.
Oggi, era avanzata della
tecnologia, a Plaesano il 3 febbraio c’è chi rimpiange il genuino, semplice
mondo contadino di un tempo; c’è chi rimpiange la sfilata dei carri agricoli,
dei calessi, dei mezzi di ogni sorta che, carichi di persone, intervallati e
seguiti da lunghe file di gente a piedi, giungevano al santuario. I carri
cominciavano a giungere all’alba ed il loro arrivo continuava ininterrotto fino
a mezzogiorno, fino all’ora della messa solenne e della processione della
Statua del Santo per le vie del piccolo centro.
La processione è sempre
la stessa, così come è lo
stesso lo spirito che anima i fedeli che,
numerosissimi, seguono la Statua lungo il suo girovagare per le viuzze del
paese. Non c’è strada che non sia percorsa dal sacro corteo. Non c’è abitante
di Plaesano a cui non sia data la possibilità di vedere sotto il suo balcone la
statua del Santo di Sebaste. Poi, nelle prime ore del
pomeriggio, tra canti, scoppi di fuochi pirotecnici e sonori rintocchi di
campane, accompagnato da una marea di pellegrini, San Biagio fa ritorno in
chiesa.
Nei pressi del sacro
tempio i giovani e volenterosi portatori, osservano qualche minuto di riposo
per sistemarsi bene sotto la vara. Quindi ripartono e quando la processione
giunge nella piazzetta prospiciente la stessa chiesa, ad un segnale convenuto,
i portatori, di corsa, fanno compiere alla statua del Santo i “tre giri” sullo
stesso percorso e lungo la stessa viuzza dei pellegrini. Sono pochi minuti
di confusione e di fervore indescrivibile. I fedeli, tenendo ben stretti i loro
bambini si radunano nella piazza o si addossano ai muri delle case, mentre un
complesso bandistico esegue una allegra marcia sinfonica. Tutti gli occhi sono
rivolti allo sbocco della viuzza; nell’uscire da quella curva la statua sembra
sbandare sulla destra, ondeggia, sembra che da un momento all’altro possa
cadere.
Ogni qualvolta la statua
arriva davanti alla chiesa,
i portatori, dimostrando grande abilità, tutti
insieme accennano ad una genuflessione. E’ un attimo. San Biagio si piega in
avanti verso il sacerdote e gli altri celebranti che, insieme ai fedeli,
aspettano la conclusione dei tre giri. Poi riprende la corsa sulle spalle degli
abili portatori. E i fedeli, sempre più
pigiati tra di loro, trattengono il respiro e pregano. C’è chi si batte il
petto coi pugni, chi stringe più forte a sè la propria creaturina, chi si
limita a segnarsi devotamente. Sui volti di tutti si
legge l’intima partecipazione al particolare momento di fede.
Ultimati i tre giri, sia
pur sfiniti, i giovani portatori riescono a trovare ancora le necessarie
energie per gridare “Viva San Biagio” e per far scomparire la statua
all’interno della chiesetta, passando tra la folla di fedeli con un rapido
sobbalzo.
* * *
Verso l’imbrunire,
a poco a poco, i pellegrini riprendono la via del ritorno. Un tempo, quando si
spostavano a piedi, ogni tanto una comitiva si fermava lungo la strada, si
improvvisava un circolo e si trovava sempre chi era disposto a gonfiare una
cornamusa o a mettere mano ad una chitarra. E il pellegrinaggio,
improvvisamente, si trasformava in una festa popolare.
Adesso non più. Adesso
il tre febbraio Plaesano è presa d’assalto dalle macchine, dalle motorette e
dagli immancabili - come sempre - caratteristici venditori di mostaccioli, ceci
(calia) e noccioline.Adesso il rientro a casa
delle migliaia di pellegrini è più rumoroso, più scoppiettante ma sicuramente
meno allegro e festoso. Lungo le strade,
comunque, oggi come un tempo, si respira a pieni polmoni.
La festa di Plaesano,
tutto sommato, è come un presagio di primavera, cioè di vita rinnovata. Talvolta infatti, ma non quest'anno, anche se si è
ancora ai primi di febbraio, la stagione è di una clemenza inverosimile, il
sole splende tiepido in un’aria ferma e tersa come cristallo. E nelle siepi che
costeggiano la strada, qua e là, occhieggia già il biancospino, rendendo più
completa e perfetta l’illusione della primavera.