martedì 24 novembre 2015

SCIMITARRE E LUPARE :IL PRESUNTO “SCUDO NDRANGHETA” CONTRO L’ISIS

di Bruno Demasi
     La sensazione diffusa – forse diffusa anche ad arte - è che il Sud in genere, ma la Calabria in particolare, siano al sicuro dalle mire terroristiche dell’ISIS per i buoni uffici che sarebbero interposti dalla ndrangheta e per il potere di quest’ultima anche rispetto a queste aggregazioni sanguinarie. Ma quanti in Calabria vogliono ricordare che da noi c’è già da un pezzo una strage strisciante, la maggiore incidenza di omicidi rispetto a tutto il resto d’Italia con una percezione della criminalità tra le più basse della Penisola?
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       Se i dati ISTAT 2014 ( cioè gli ultimi pubblicati, riferiti al 2013) non fossero tremendamente shoccanti e inzuppati di rosso, davanti alla favola della ndrangheta che avrebbe influenza persino sull’ISIS e che proteggerebbe sia gli uomini di  buona volontà che quelli di volontà cattiva della Regione , tenendoci al riparo dalle mire del terrorismo islamico, ci potrebbe far rotolare a lungo per le risate.
     Non sappiamo quanto possano essere realistici da queste parti gli allarmi verso il pericolo Jihad e quanto possano essere strategici gli obiettivi “sensibili” calabresi in grado di destare l’interesse del terrorismo. Di certo sappiamo invece che l’ecatombe dalle nostre parti è incessante da lunghi anni, prima ancora che l’ ISIS venisse partorita dai moderni mostri politici internazionali: un lunghissimo fiume di sangue che probabilmente neanche questa creatura sanguinaria riuscirebbe a eguagliare ammesso e non concesso che si dedicasse a scrutare e a colpire la nostra regione. 

    Di certo c’è che in Calabria si uccide più che in tutte le altre regioni d'Italia con una incidenza di quattro volte superiore alla media nazionale, ma i Calabresi non percepiscono rischi dalla criminalità e nello studio “Noitalia 2015” dell’ Istat è proprio la Calabria che si colloca ampiamente al vertice dell ‘ orrenda classifica degli omicidi volontari commessi o comunque tentati, con un rapporto rispetto alla popolazione pari a 2,437 omicidi ogni 100.000 abitanti. 

    In queste Olimpiadi del crimine e del piombo, in questa gara dell'odio e del disprezzo per la vita, in cui ci collochiamo vincitori assoluti ai nastri di arrivo, addirittura la Campania è soltanto seconda ,con un rapporto di 1.32, seguita da Sicilia, Sardegna e Puglia , con valori compresi tra 1,32 e 1,09 omicidi consumati per 100 mila residenti ( Il valore più basso, dopo la Valle d’Aosta in cui non ci sono stati omicidi volontari, si registra invece co lo 0,24 in Veneto ) .
    E per comprendere quanto sia elevato ed orrendo il tasso registrabile in Calabria basta osservare il dato medio italiano che  è  appena di  0,83 omicidi volontari consumati per 100 mila abitanti. 

     In una situazione del genere ci si aspetterebbe che l'analisi della percezione della criminalità, e in particolare del fattore di sicurezza, facesse emergere l'esistenza tra i Calabresi quanto meno di un minimo di preoccupazione , ma l’altra classifica, quella riferita al livello di percezione del rischio di criminalità, presenta una Calabria che, sempre per il 2013, vede solo il 21.6% di famiglie che percepiscono il rischio criminalità contro il 40,8% del Lazio o 37.2% della Lombardia.
    Insomma nell’immaginario collettivo calabro tra abbuffate narcotizzanti di nduja o digiuni imposti dalla povertà galoppante non solo il rischio criminalità non esiste, ma è anche ridicolo preoccuparsi del terrorismo internazionale.
    Tanto – dicono - la criminalità organizzata dalle nostre parti è senz’altro più forte…!

venerdì 20 novembre 2015

LEA GAROFALO, MEMORIA DI SCAMBIO...

di Bruno Demasi

   Persino i martiri calabresi di mafia possono diventare testimonial di questo o di quell’interesse mediatico che non ci appartiene, che tutto copre e mette nel congelatore, mentre le verità vere vengono seppellite nei grandi immondezzai che ormai ricoprono questa terra.
    In un’intervista rilascia a “La C News 24” Marisa Garofalo, sorella di Lea, ci gela con le sue verità, ma non so quanti si scandalizzeranno.
“Sono schifata ! Pubblicizzare l'Associazione Libera in un Film dove a pagare con la vita è stata mia sorella Lea! Anche io e mia mamma ci siamo costituiti parte civile nel processo di mia sorella non solo l'associazione Libera!” A Marisa Garofalo, sorella di Lea, il film di Marco Tullio Giordana  sulla vicenda della testimone di giustizia fatta uccidere dall'ex compagno, non è proprio piaciuto. Lo ha scritto già su Facebook al termine della messa in onda, lo ribadisce oggi, in un'intervista a Lacnews24.it.
Ma cosa non è piaciuto, a Marisa, in particolare?
“Non mi è piaciuto come è stata rappresentata Lea, nei modi e negli atteggiamenti, modi rozzi che non erano suoi. Anche la mia famiglia è stata rappresentata in modo vergognoso. Lea non era quella. Non aveva quei modi.”
Ma c'è stata qualche scena o qualche personaggio che è stato invece reso per come lei lo ricorda?

Nessun personaggio in particolare. Forse solo la scena in cui Denise si è rivolta ai carabinieri, ma il film è stato impostato male, non mi ha emozionato proprio. La storia di Lea invece è una storia che emoziona, ogni volta che la racconto. Questo invece è stato un film che il regista e Don Ciotti hanno studiato a tavolino per fare emergere un'immagine importante dell'Associazione Libera.
In che senso?
Mi è sembrato più un film su Libera che su Lea. Io non sono stata mai contattata, eppure ero l'unica a poter dare spiegazioni più precise di Lea, a me lei ha sempre raccontato tutto, dal tentato rapimento alla situazione che si era creata con Cosco. E stato tutto poco veritiero: ad esempio, dopo la scomparsa di Lea, Denise è stata per sei mesi a casa mia, non da mia mamma. Pur di non nominarmi hanno cambiato la storia. E quando Lea uscì dal programma di protezione, siamo andati io e mio marito a Campobasso in macchina per prendere lei e Denise, non sono tornate in treno. E poi c'è stata una scena che mi ha dato particolarmente fastidio... 

Quale?
La scena di Carlo Cosco a casa di mia madre, che da dei soldi a mamma, una cosa mai successa, lui non è mai entrato in casa di mia madre, lei non lo voleva vedere proprio, quando capitava di vederlo, addirittura cambiava strada. Le dico che probabilmente farò anche una denuncia su questa cosa, sto valutando con il mio avvocato.
Marisa, ma perché ha tutto questo risentimento nei confronti di Libera e Don Ciotti?
E' nato tutto dai funerali di mia sorella, ai quali io non sono stato invitata, è stata esclusa la mia famiglia. Eravamo andati a Milano dieci persone, quando mi sono presentata un collaboratore di Don Ciotti mi ha detto che si stava preparando per la Messa e che quindi mi avrebbe ricevuta dopo. Sono stata anche esclusa dietro le transenne, come se fossi una curiosa qualunque, non la sorella di Lea. Poi quando ho sentito, durante l'omelia, Don Ciotti che elogiava Carmine Venturino (il pentito che ha partecipato alla sopressione del corpo di Lea e che ha permesso di trovarne i resti, ndr) me ne sono andata, non potevo restare. E' vero che si è pentito, ma è sempre la persona che ha fatto a pezzi e ha bruciato il corpo di mia sorella. E poi lui si è pentito solo dopo la condanna, per ottenere uno sconto di pena. Poteva anche pentirsi prima. Dopo la morte di mia madre, pochi mesi prima, io ero l'unica rimasta della famiglia di Lea. Eppure ho saputo solo da internet dei funerali a Milano. Che poi anche in quello, hanno deciso altri per lei, alcuni hanno deciso quando doveva morire, altri invece dove farle il funerale e seppellerila. Perchè Lea voleva essere sepolta a Bergamo. Qualche giorno prima della sua morte, aveva mandato un messaggio ad una delle suore che l'avevano accolta a Bergamo, dicendole: “Se mi succede qualcosa, fammi seppellire a Bergamo” Perchè negarle quest'ultima volontà? Perché seppellirla a Milano? 

Ma lei Don Ciotti lo ha sentito qualche volta?
Mai, non mi ha mai cercato, anche dopo i funerali, anche dopo aver letto i miei sfoghi sui giornali, non mi ha mai cercato, anche per un chiarimento. Piuttosto, ogni volta che parlavo in pubblico contro Don Ciotti o contro Libera, saltavano gli incontri con Denise. E' successo per tre volte.
Da quanto tempo non vede Denise?
Tre anni a febbraio. Non l'ho mai vista dopo i funerali. Ho solo ricevuto una sua lettera in cui mi diceva che non voleva avere più niente a che fare con la famiglia della madre, ma per me non veritiera, quella non era la scrittura di Denise. Come vede ho le mie buone ragioni per avercela con Don Ciotti e con tutta l'organizzazione..."

martedì 10 novembre 2015

La penna del Greco: IL MARE E LA QUISTIONI MERIDIONALE

                                              di Nino Greco
    Non so se e  quanto se la prendano Gramsci, Fortunato e Salvemini quando affermo  che dopo di loro il Meridionalismo è diventato il pantano delle oche nel quale ancora oggi sguazzano in molti per costruirsi l’alibi di un impegno politico e sociale inesistente e per farsi stanziare altri soldi. Un impegno tanto inesistente e balordo che persino il Fascismo peggiore , da Mussolini, alla vecchia e nuova DC, a Berlusconi, fino ai Napolitano , Monti e Renzi, ogni tanto ha spolverato e spolvera la vecchissima tarantella figurata del meridionalismo sbracato solo per fare dispetto atroce agli Italici collocati da Napoli in giù e rompere loro …la testa di chiacchiere e menzogne. Nulla a che vedere insomma con la storia narrata dal Greco in questo fortunatissimo racconto, che in questi giorni vede la seconda ristampa. Storia di gente semplice, ma che sa confrontarsi con il potere nella dimensione paesana e sovrapaesana, di gente che malgrado tutto, malgrado i paradossi, riesce a discernere la vera realtà sociale all’interno della filigrana di bugie , promesse e raggiri di cui erano maestri i politicanti di un tempo e i loro servi …(Bruno Demasi).
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- Si avvisa la popolazione che oggi dalle ore 16 alle ore 21 sarà sospesa l’erogazione dell’acqua - annunciò il banditore con altoparlante, percorrendo le vie principali di Pretì.
- Mu vi cacciavanu i ‘ntrami! -[1] Strillò onna Serafina, rivolta all’automobile del banditore.
Non era ancora estate e il sindaco, con un’ordinanza, aveva provveduto già a razionare l’acqua.
Il getto di acqua che a stento si era ricavato con i lavori finanziati dalla lautissima mensa della Cassa per il Mezzogiorno, non era sufficiente a soddisfare i bisogni del piccolo comune aspromontano.
Nonostante le numerose sorgenti naturali di cui erano ricche le vicine montagne, il paese in estate pativa la sete. Gli abitanti erano ormai abituati a questa ricorrente angheria della stagione. Chi poteva riempiva tutti i commitati: vasche, catini, fiaschi e damigiane. Chi non faceva in tempo si accodava alla lunga fila che andava a formarsi nelle fontane pubbliche poste rispettivamente sulle strade dell’Ospedale e del Camposanto e alimentate dal cosiddetto camino vecchio[2] che, a differenza del nuovo impianto di approvvigionamento, continuava a dare acqua senza interruzioni.
Una deviazione della condotta portava l’acqua anche ai rubinetti della casa del sindaco. Pochi metri di tubazione allacciati al vecchio camino per evitare le lunghe code alle fontane alla prima cittadina che spesso, per sua bontà, apriva le porte del garage, dove aveva fatto installare un rubinetto, per far fare rifornimento ai vicini.
Il calvario iniziava con i primi caldi. Quando il fontaniere comunale si accorgeva che il livello del serbatoio scemava oltre il limite previsto, informava il sindaco il quale, puntualmente, emanava la solita e classica ordinanza di sospensione dell’erogazione dell’acqua. Solo la data cambiava, il resto era tale e quale all’anno precedente.
L’informazione però non giungeva a tutti: molti cittadini non avevano modo di prenderne visione, tanti altri non sapevano leggere e così si ricorreva al vecchio sistema del banditore. Automobile con amplificatore collegato alla batteria, fine dicitore, un pieno di benzina e via per le strade del paese. Il “passa parola” nei rioni completava l’informazione.
- Cummari caccianu l’acqua! - [3] era la voce corrente nei vicoli e - ndavivanu u nci caccianu l’occhi o sindacu e a cu u misi ja ssupra!- [4] era la tipica invettiva di risposta.
Qualcuno a quel sindaco aveva pur dato i voti per vincere le elezioni, ma quando si ripresentava il problema dell’acqua, sembrava che nessuno l’avesse votato; eppure, a ogni tornata elettorale, la Democrazia Cristiana faceva cappotto. Pieno di voti alle comunali, incetta alle politiche; percentuali elevate al di là di qualsiasi media nazionale; si arrivava oltre il 60%: un perenne plebiscito.
Le campagne elettorali per le comunali si caratterizzavano, oltre che per le sfide dei partiti, per le sfide all’interno degli stessi. La caccia alla preferenza era senza quartiere. Montagne di facsimili col numareju[5] entravano in tutte le case. 

Era importante disporsi in lista con dei numeri facili da scrivere. I preferiti erano: 1, 8,10, 18. Molti analfabeti prima delle elezioni venivano istruiti dai candidati a scrivere i numareji. Pagine di quaderni a quadretti e numeri da copiare. L’asta(1) , due piccoli cerchi uno sull’altro(8), un’asta e un cerchio(10), un’asta e due cerchi(18). La settimana che precedeva le elezioni era un via vai per appurare i progressi di scrittura e la memorizzazione del simbolo. Per molti era andare a scuola per la prima volta.
- Mina nda cruci! - [6] Suggerivano i democristiani
- A falci e u marteju! - [7] Dicevano i comunisti
- U focu, a fiamma! -[8]i nostalgici fascisti
- La croce è il simbolo della morte! - dicevano gli avversari DC.
- Falce e martello? Un futuro di lavori forzati, basta la falce del vostro lavoro - contro i comunisti.
- La fiamma vi brucia, è segno di distruzione - giù contro i fascisti.
Slogans diretti, duri e bugiardi, per suggestionare in qualche modo le sensibilità di uomini e donne di animo semplice. Gente che si ritrovava invasa la casa da notabili fino a qualche giorno prima indifferenti alle loro esistenze.
Si faceva leva su tutto. Soggezione autentica di fronte ad un avvocato o a un medico che scendeva nei più remoti tuguri pur di catturare un voto. Preti, medici condotti e avvocati: grandi elettori per comunali e politiche. Promesse di aiuto o sistemazione di un figlio: il bramato posto fisso.
Comune o Ospedale erano le mete, come se fossero fabbriche. I più ingenui pensavano che tra i tanti ci potesse stare anche un loro figlio. Un figlio impiegato con tutto ciò che ne derivava: benessere, rispetto e invidia. Sì, certo, anche l’invidia, qualcuno pensava che fosse un segno positivo avvertire l’invidia degli altri e che ciò fosse il parametro di misura del livello di emancipazione della propria famiglia.
Era il viaggio della fantasia. Pensieri senza filtri e voli pindarici. Ogni padre sognava il figlio impiegato: - Perché non dare un voto a una persona che aiuterà mio figlio? - Una forte e malcelata voglia di riscatto: - Mai la zappa a mio figlio, non deve fare la mia vita! - il desiderio dei tanti.
Era il più grande segno di speranza di un padre nell’immaginare così il futuro di un figlio, specialmente di chi aveva vissuto una vita marcata da fame e bisogni.
Quell’anno si votava per le politiche: l’agitazione e le contrapposizioni infiammavano la campagna elettorale. I notabili dei partiti e le segreterie locali, come sempre accadeva, si erano mobilitati a portare sui palchi eretti nelle piazze, uomini politici di chiara fama. La politica nazionale arrivava solo attraverso le loro voci e qualche manifesto che pochi leggevano. Anche a Pretì, cosi come nei piccoli comuni, le sfide si accendevano negli ultimi giorni.
- Cittadini! Questa sera, in piazza Umberto I, parlerà per il Movimento Sociale Italiano l’onorevole Raffaele Valentini, accorrete numerosi! -. Una voce gracchiante scosse quel muto, caldo e sonnolento pomeriggio di maggio.
Le note della canzone “Giovinezza” enfatizzavano e sottolineavano l’invito rivolto alla popolazione.
- Cumpari, sentistivu? - [9] Uscì allarmata Rosina a Pìnnara. - Caccianu l’acqua ? -[10]
- No cummari, chissa è ‘a machina di votazioni! - [11] precisò alzando gli occhi Cumpari Micheli che era seduto all’ombra sul muretto davanti casa sua.
- Chimmu votanu all’anchi allariu! -[12] imprecò ancora Rosina, non nascondendo il sollievo per il mancato pericolo di dover fare scorta di acqua.
- Eh nno, cara cummari, i votazioni su mportanti, ricordativi ca u guvernu simu nui! - .[13] Affermò con sicumera di uomo navigato. - Ieu vaiu e votu. E stavota votu pa cruci!-[14] proseguì.
Cumpari Micheli, ultrasettantenne in pensione, da qualche anno diceva che la Posta era il suo pedi ttrovaricu[15], la fonte del suo benessere. - Ponnu bramari quantu vonnu! - [16] diceva - ormai ‘a me barca è o sciuttu! - [17]
Era la sentinella del rione; con le sue fantasticherie appariva agli occhi dei vicini come chi ne sapeva una più del diavolo. Su ogni cosa aveva l’aneddoto pronto e in più aveva sempre a portata … di lingua la soluzione per tutti problemi. A proposito del problema dell’acqua, sosteneva che l’acqua stessa fosse l’origine di molte malattie perché arrugginiva le budella e i mal di pancia non erano altro che buffareji[18] che nuotavano nello stomaco.
 - Io mi curo col vino! L’acqua la lascio a voi ignoranti! - sentenziava goliardicamente. Come se l’acqua servisse solo per bere. Per questi motivi non si curava della mancanza dell’acqua, tanto a quella ci pensava sua moglie. 

Era anticonformista per eccellenza, ridanciano e sostenitore di tesi surreali, tanto da far credere a qualcuno che avesse studiato d’avvocato. In Piazzetta, quando si trovava al fresco della maestosa magnolia con gli altri amici, teneva banco; i suoi racconti erano sempre declamati con enfasi trascinante, al punto da far credere a molti dell’autenticità di quanto narrato.
Dopo una vita di stenti e difficoltà, da poco, con la pensione, si era trovato ad assaporare la tranquillità economica da sempre agognata. Tanti, come lui, erano visti come i “borghesi” dei poveri: vivevano con poco ma con la certezza di averlo a vita.
Le pensioni sociali stavano diventando la vera linfa, della gracile economia, dei piccoli comuni calabresi. Braccianti, contadini e operai ormai al tramonto della loro vita di lavoro vissuta con affanni, segnata da lavori improvvisati, che non avevano compiutamente maturato i diritti per la pensione, si trovarono l’inattesa fortuna di questo esiguo ma sicuro compenso mensile. Il successo economico nazionale aveva lambito di riflesso e con ritardo questo piccolo mondo che appariva sempre più lontano dal resto d’Italia. Distanza enorme, antica e inesorabile; eredità di quel Risorgimento ingeneroso e patrigno per la gente del Sud.
Erano pochi soldi, ma molti di più di quanto ne guadagnavano in un anno di lavoro. Cumpari Micheli era uno di loro. Con gli arretrati della pensione aveva comprato anche un televisore.
Fino a qualche anno prima, questo eccezionale apparecchio, era presente solo in poche case; le più disponibili aprivano le porte ai vicini sprovvisti ed erano tantissimi ne approfittavano per gustare i resoconti di grandi eventi o i varietà più popolari.
Quello di Cumpari Micheli era diventato il televisore del rione. Sua moglie, con maestria, aveva cucito una custodia di stoffa per preservarla dalla polvere come l’oggetto più pregiato di quella casa. La sera, prima di accenderlo, levava le tendine rosse: il sipario di un moderno teatro in casa.
Il suono del televisore era il richiamo per i ragazzi del quartiere. Si aspettava con ansietà l’inizio della “tv dei ragazzi” e quando i telefilm d’azione proponevano scene movimentate con scazzottature e spari, scattava l’allarme:
- Micheli, stutala ca ‘nda rrumpunu! -.[19] Balzava sua moglie che preoccupata si alzava repentinamente e la spegneva, tra il disappunto e le risate degli spettatori occasionali; tutti ordinatamente, accovacciati, come galline, sui gradini della scala che portava su in camera da letto.
- Aspettati cincu minuti, dopo chi si sciarrianu a iapru natra vota! -.[20] rassicurava tutti. E loro giù, a ridere ancora. Per lei era reale ciò che appariva dentro quel vetro grigio e convesso. Uno straordinario mobile nero dotato di tre pulsanti che s’illuminava, come per magia, al pigiare di uno di essi. Portava il mondo dentro casa: quelle immagini vive non potevano essere finzione.
L’aria dolce del mese di maggio conciliava le prime adunate vespertine di gruppetti di pensionati sulle panchine della Piazzetta. Quattro chiacchiere tra reduci dai lavori dei campi. Orti, sementi, potature e fatti antichi intrecciavano i loro discorsi, mentre restavano in oziosa contemplazione di ciò che accadeva in piazza e nel paese.
Giorni caldi, preludio di un’estate che avrebbe visto i figli di ritorno dalle fabbriche del Nord. Testimoni di un mondo che appariva, agli occhi di chi non aveva ancora visto il mare, il paradiso in terra. Le automobili fiammanti, comprate a rate, dicevano molto dei progressi economici, frutto di lavori quasi sempre pesanti. Ragazzi scappati dai campi e rifugiati in un mondo in pieno “boom” a cui stavano danno il meglio della loro vita, più di quanto quel mondo aveva dato e dava loro.
Sui muri della piazzetta campeggiavano grandi manifesti di ogni colore e di tutti i partiti, una cornice di mille pezze colorate, slogans indirizzati a chi, spesso, non ne coglieva il vero significato; al centro un palchetto di legno. 

Quella era la “Piazza Rossa”. Da quel pulpito tenevano i comizi il Partito Comunista e il Partito Socialista. Mastru Turi lo montava il giorno successivo la convocazione dei comizi e ne montava un altro in piazza grande, su cui sfilavano i candidati della DC e dell’MSI.
Piazza grande moderata, piazzetta progressista. Culle, entrambe, della socialità paesana: Piazza grande borghese, Piazzetta popolana. La prima ospitava la sede il “Circolo dei Signori”; e nei bar si giocava a scopone scientifico, a “popolo” e a “terziglio”. Nei bar della seconda si radunavano gli incalliti giocatori di tresette e briscola, non mancavano le sfide a scopa e capitava, spesso, qualche rota di patruni e sutta[21].
Piccoli assembramenti si formavano intorno al bigliardino e ai tavoli del bar di Don Rafeli, davanti alla Posta. In uno di questi, quotidianamente, Ntonuzzu e Rroccuzzu u Bagnarotu, si ritrovavano per la perenne sfida a scopa. Per ripararsi dal caldo seguivano l’ombra degli edifici spostando il tavolo, cosi come venivano seguiti dai ragazzi curiosi spettatori. Questi sostavano lì: muti, attenti alle giocate e agli accidenti; i più solenni li declamava Ntonuzzu. Quando faceva scopa, l’imprecazione era divertita e la più roboante era:
- Mannaja la Supercortemaggiore, la più potente benzina italiana! -. Tono da bestemmia e volto divertito. Di fronte Rroccuzzu, distaccato, non batteva ciglio. Ntonuzzu ripeteva lo slogan di una rèclame dell’Agip, faceva un gesto teatrale per sottolineare una giocata magistrale e per strappare risate al nugolo di ragazzi testimoni divertiti. Entrambi esperti giocatori di scopa, sapevano contare il “quarantotto” e il “pari e dispari”. Erano avvezzi a fare il mazzuni[22] e abili a eluderlo. Si conoscevano bene. Antagonisti nel gioco e concorrenti nel lavoro.
Entrambi titolari di posto fisso e dirimpettai al mercato comunale coperto, all’ingresso del quale gestivano due banchi di frutta e verdura. Postazioni privilegiate: a vendere ci pensavano le loro mogli. Loro si occupavano esclusivamente dell’approvvigionamento. Tutte le mattine si recavano con le “Lambrette” al mercato all’ingrosso e tornavano puntuali per le sette, orario di apertura del mercato e inizio del lavoro per le loro mogli. Scaricavano le cassette e andavano. Facevano ritorno dopo mezzogiorno, caricavano la merce non venduta e tornavano a casa.
Il pomeriggio era il tempo della sfida: “Partita, rivincita e bella”. Per ogni tornata in palio una birra. Ne bevevano una ciascuno e chi perdeva, pagava tutto.
Rroccuzzu, atteggiamento freddo nelle giocate, era di poche parole e quasi immobile sulla sedia di alluminio, nella quale entrava a stento. Capelli lunghi, castano chiaro, pettinati alla muscagna[23] e contenuti da una buona dose di olio; baffi chiari segnati, sotto le narici, dalla nicotina lasciata dal fumo emesso dal naso. Sigarette, “Esportazione” senza filtro, accese una dietro l’altra:
- A carta voli fumo! - [24] diceva e accendeva con rito scaramantico. Portava la sigaretta alla bocca con il ritmo della giocata, stretta tra le dita della mano destra, ingiallite dalla nicotina. Camicia sbottonata sul petto, laccio d’oro a maglia marina e una croce penzolante che poggiava sul ventre tracimante; duro collaudo per gli ultimi bottoni della camicia.
Ntonuzzo, muscagna corvina e ondulata, mostrava tratti somatici mediterranei, un fisico asciutto e voce imponente. Impazziva per il settebello. Faceva di tutto per accaparrarsi quel punto a ogni giocata e quando lo perdeva in malo modo, si lasciava andare:
- E chi ti fici a magheria u vai sempri ndi iju? - [25]
Oppure scaricava a raffica seriose e fantasiose invettive, geniali nei toni e nelle descrizioni, come:
- M ….a settima pinna i ll’ala sinistra du spiritu santu! -[26] oppure - M…a Santu Rroccu e u cagnoleju cu pani a vucca!- [27]
La prima: una delicata e parziale imprecazione, quasi in punta di piedi, alla settima piuma dell’ala sinistra della colomba, simbolo dello Spirito Santo. La seconda: l’immagine di San Rocco nella sua interezza narrata con dovizia di particolari. Non erano bestemmie sentite, era una sceneggiatura teatrale all’aperto.
Di tanto in tanto si affacciava Don Rafeli per raccogliere le chiamate[28] di birra. Don Rafeli in quell’incrocio viveva le sue giornate, dopo aver fatto per qualche tempo noleggiatore e riparatore di biciclette, aveva messo su il bar pasticceria con l’aiuto del fratello e ci lavorava insieme alla moglie. Nei giorni di paga delle pensioni trascorreva la mattinata in Posta. Molti pensionati erano analfabeti e per riscuotere il mandato occorreva apporre la firma di un testimone accanto al segno di croce del titolare di libretta[29]. Don Rafeli si offriva a fare da testimone, per chi lo richiedesse e per ogni firma incamerava 150 Lire.
Maggio, per il paese, era un rinascere; l’aria mite e i raggi caldi anticipavano le estati soleggiate. La collina calabra colma di ulivi secolari, faceva già sentire lo stridio delle prime cicale.
Sinuosi tornanti verso valle tra le ombre degli ulivi, poi un lungo rettifilo e sullo sfondo il mare. Campìe[30] e distese di erba da fieno pronta per essere mietuta e lasciata a essiccare col sole di giugno. Braccia forti e mani abili l’avrebbero torciuta e ammannata[31].
La statale collegava Pretì a Casilino. Il primo anticamera della macchia aspromontana, il secondo porta del mare. Nella mentalità degli abitanti di entrambi i paesi era nata e cresciuta, in modo istintivo, una convinta rivalità. 

I casilinesi chiamavano montanari[32] gli abitanti di Pretì e questi rispondevano chiamandoli pisciunari.[33] Non correva buon sangue tra le genti dei due paesi e i pochi chilometri di distanza non erano sufficienti per limitare i contatti. I primi, apparentemente, disprezzavano la montagna, i secondi, nello stesso modo, il mare. In fondo non era così, ma non bisognava dare soddisfazione ai rivali. Perciò ogni momento era buono per rinfocolare la radicata antipatia. Festa faceva Casilino con fuochi d’artificio, altrettanto rispondeva Pretì. Banda pugliese per le serate del santo patrono, con banda pugliese rispondevano gli altri.
Gli abitanti di Pretì percepivano nei marinari casalinesi un piglio più cittadino. Le spiagge di Casilino ogni estate si popolavano di turisti e di emigrati di ritorno: erano un brulicare multicolore di ombrelloni, teli e asciugamani; di camere d’aria di ruote di camion usate come salvagente; bizzarre cinture di sicurezza, per chi provava, per le prime volte, a bagnarsi nell’acqua di mare.
Lidi e spiagge libere invase da famiglie intere; con quantità di vettovaglie in ceste di pezzula[34], coperti da tovaglioli e tenute al riparo dal sole. Dispense portatili di: melangiani chini[35], crocchè e panini imbottiti. Cocomeri sotterrati nella sabbia della battigia, carezzata dalle onde, per mantenerli al fresco. Moderne “scampagnate”e pranzi dentro e sotto i capanni fatti di teli; donne in sottoveste – surrogato del prendisole - per senso di pudore antico. Il costume sarebbe stato troppo per chi aveva sempre portato la gonna sotto il ginocchio. I mariti, con pantaloni cumbiati[36] al ginocchio e torso nudo, pronti a bagnarsi solo i piedi.
Solo i più giovani e chi arrivava dal Nord vestivano costumi, liberi di essere baciati e bruciati dal sole.
Primi avvii di lidi in concessione, microeconomia in movimento. Segnali di un benessere che cominciava a toccare i più.
Questo era Casilino in estate e cosi appariva alle genti di Pretì. Un paese vivace che respirava le nuove tendenze, a conferma che i luoghi di approdo sono i primi ricettori di progresso. Lo sfavillare estivo, l’aria festosa e vacanziera, foriera di emancipazione e benessere alimentavano sempre più l’invidia dei vicini montanari.
                                                                                       . . .
Si era nell’ultima settimana della campagna elettorale, ogni giorno per le vie del paese era un via vai di macchine con altoparlanti e un costante invito: - Vota e fai votare…! - ne seguivano il nome del candidato e del partito.
Automobili attrezzate in perenne ronzio. Una sfida a suon di slogans e musiche di sottofondo.” Biancofiore” di odore democristiano, “Bandiera Rossa” ed “Intenazionale” per i comunisti, “Giovinezza” per MSI, ” Bella Ciao” per i socialisti. Una diffusione gracidata riempiva i silenziosi pomeriggi di quel maggio.
Uno scorazzare convulso, per annunciare i comizi serali e per trascinare il maggior numero possibile di cittadini in piazza. I personaggi di spicco dei vari partiti si riservavano l’intervento a chiusura della campagna elettorale, per cui l’ultimo venerdì delle votazioni era un succedersi di eventi.
Il Movimento Sociale aveva da poco concluso la campagna elettorale; l’On Tripepi, con piglio solenne ed eloquente enfasi, aveva scaldato il cuore dello sparuto gruppo di nostalgici fascisti con il penultimo comizio di una campagna elettorale che aveva visto impegnati tutti i partiti.
L’ultima parola adesso spettava alla Democrazia Cristiana. Cambio di drappo sul palchetto, via la fiamma tricolore per far posto al lenzuolo bianco con al centro lo scudo crociato. I fedelissimi della locale sezione avevano già predisposto tutto. Il drappo bianco avvolgeva il pulpito, una bandiera posta sul lato destro dell’oratore sventolava, mossa da una leggera brezza serale, un leggìo e una lampadina avrebbero permesso di leggere eventuali cartelle scritte. Prove microfoniche continue per tenere all’erta i presenti in attesa dell’onorevole che avrebbe chiuso i giochi.
La piazza, non gremita, presentava gruppi di cittadini intenti a commentare il comizio appena finito. Seduti sulle panchine alcuni anziani, con aria curiosa, aspettavano l’inizio del round finale prima del rientro casa.
Cumpari Micheli, trasferitosi dalla Piazzetta alla Piazza grande insieme ai suoi abituali amici, sostava sulla panchina alla destra del pulpito. Poche cose avevano inteso dall’oratore precedente e si accingevano ad ascoltare il prossimo, cercando di carpirne qualcosa in più.
Uno stuolo di sostenitori si era sistemato in prima fila per dare sostegno e calore a chi si presentava come la personalità di spicco di questa campagna elettorale.
Tutto pronto:
“O bianco fiore, simbolo d'amore
con te la gloria della vittoria.
O bianco fiore, simbolo d'amore,
con te la pace rifiorirà.” 

Le note della canzone coprirono il chiacchiericcio della piazza, l’attenzione di tutti si spostò sul palchetto. Il Sindaco, il segretario politico paesano e i fedelissimi erano già li, pronti ad accogliere e a presentare l’uomo, il politico e la voce che avrebbe esposto programmi e impegni di cui intendeva farsi portatore presso il Parlamento.
- Amici ! - debuttò il segretario politico. - Dopo una campagna elettorale impegnativa è giunto il momento di tirare le somme. Le nostre responsabilità sono evidenti. Dobbiamo tutti, con il nostro voto, partecipare e sostenere il Partito e gli amici che ci rappresenteranno a Roma. Le nostre terre e il nostro paese in particolare hanno sempre più bisogno di una voce amica, vicina; un sostegno serio, deciso e costante che dia respiro e forza alla crescita economica; di un’azione incisiva che riduca il problema della disoccupazione e dia slancio per un futuro di ricchezze e benessere. Questi sono gli obiettivi che da sempre hanno contraddistinto l’azione politica del nostro amico che ho ancora il piacere e l’onore di presentare. Nel ringraziarlo a nome mio e del Partito per l’impegno profuso, v’invito ad ascoltare e domenica a sostenere Sua Eccellenza On. Dario Figliozzi! -
Un applauso accompagnò la stretta di mano e l’abbraccio del segretario con l’onorevole; le prime file del pubblico applaudirono per qualche minuto e mentre lui aggiustava il microfono, facendo intendere di voler parlare a braccio, Cumpari Micheli, rivolto agli amici, commentò:
- Azzo eccillenza? U chiamau eccellinza! È chi è viscuvu’-[37]
Era d’uso rivolgersi con appellativi del genere solamente a vescovi, a cardinali e a prefetti. L’eccessiva ruffianeria aveva portato il segretario a dare, con pomposità, dell’eccellenza all’onorevole Figliozzi che nell’ultima legislatura Sottosegretario al Ministero del Turismo.
L’onorevole, impettito, sulla scia dell’applauso prese la parola: - Amici, questa cittadina è il luogo migliore per chiudere la mia campagna elettorale. Qui mi sento a casa. Il vostro affetto e il vostro sostegno che ho avuto modo di apprezzare nelle ultime elezioni politiche, mi fanno sentire uno di voi perciò vi ringrazio ancora. In questi ultimi anni le vicende economiche dell’Italia ci hanno visto impegnati su più fronti. Il Governo ha tenuto un costante filo diretto con questa Regione e in particolare con questa parte della Calabria. Molte cose sono state fatte e tante ancora le dobbiamo completare. La crisi che ha attraversato tutta l’Europa ha investito anche il nostro Paese, frenando l’impulso che il Governo, di cui mi onoro di aver fatto parte, aveva saputo dare -
Mentre l’onorevole, interrotto di tanto dall’applauso degli astanti, elencava tutte le iniziative che aveva portato al vaglio del Governo in favore della Calabria, il gruppo di amici di Cumpari Micheli commentava:
- Chistu parra bonu, Si vidi ca fu o guvernu! -[38]
- Si si è veru, ma ijeu cca i chiju chi dici non vitti mai nenti! L’atra vota vinni si futtiu i voti e poi: cu si vitti si vitti - [39]
Cumpari Micheli stava attento, seguiva il discorso facendo intendere di seguire e capire quanto veniva detto.
- Ora, amici, è inutile nasconderlo; noi paghiamo la colpa e le conseguenze di quella che è l’annosa questione meridionale. È il solito e vecchio problema. Non riusciremo mai a dare compiuto sviluppo alle nostre terre se prima non si pone rimedio alla vecchia questione. Stiamo tuttora pagando questo divario che nasce nella notte dei tempi e che condiziona tutto. Sostengo e spero che questa sia la volta buona: occorre dare linfa ai progetti, crederci e con convinzione lottare con tutte le forze, anche le vostre, certo; per fare in modo che questa maledetta questione meridionale non sia più la zavorra e il peso che tarpa le ali a un popolo degno di progresso, voglioso di emancipazione e sviluppo! -
Dai fedelissimi sotto il palco partì uno scrosciante applauso che sottolineò questo passaggio intenso e appassionato.
Cumpari Micheli aveva ulteriormente aguzzato le orecchie; l’enfasi e la passione dell’oratore avevano catturato la sua attenzione. Ora non seguiva più i commenti degli amici: la foga dell’onorevole si era rivelata coinvolgente; era un politico navigato capace di cogliere gli umori degli astanti e dare sfoggio di notevoli capacità oratorie.
In fondo, in quella piazza, tutto era molto semplice; i fedelissimi avrebbero applaudito in ogni caso e la rimanente parte si poteva affascinare con i toni e l’impetuosità. L’onorevole con i suoi discorsi, intrisi di riferimenti alla politica nazionale, poneva continuamente l’accento sulla questione meridionale. Individuava quella come il peccato originale dello Stato centrale nei confronti delle regioni del Sud. Uno stato colpevole di non aver mai attuato e in modo serio un progetto che andasse a ridurre il divario economico e sociale tra Nord e Sud. Un cavallo di battaglia che tornava comodo in tutte le elezioni e a tutti i partiti.
- Amici, venendo qua e percorrendo questo tratto di statale, mi sono reso conto delle ricchezze di cui è dotata la nostra terra. Siamo a due passi del mare e dalla montagna. Il tratto di piano che arriva fino alla costa non ha nulla da invidiare alla pianura padana o alla piana di Sibari. È un tratto di terra che potrebbe offrire serie possibilità anche in termini di opere pubbliche. Per esempio: immaginate un grande tunnel che colleghi le due coste della Calabria, un tunnel che parta da qui, per dare continuità a questa strada e in pochi minuti raggiunga l’altra parte di questo stupendo lembo d’Italia! E poi immaginate se oltre al tunnel di collegamento tra Ionio e Tirreno! Qui (indicando la parte pianeggiante) a fianco di quella che potrebbe essere un’autostrada, nascesse un aeroporto internazionale; un grande scalo capace di servire tutto il Sud, un importante crocevia per scambi commerciali e per passeggeri! - 

L’onorevole cominciava a volare alto, doveva sbalordire e ci stava riuscendo.
- Chi di voi non ha un parente emigrato in Argentina, Australia, Stati Uniti? O in altri Paesi? Ecco, l’importanza dell’aeroporto internazionale è proprio questa. Perché andare a Roma o Milano? Per imbarcarsi e volare in America, quando è possibile far nascere qui una struttura che soddisfi le necessità di chi vorrà andare a trovare i propri cari in terre lontane e parimenti dia loro la possibilità di raggiungere noi in brevissimo tempo? -
Sapeva bene che quello dell’emigrazione fosse un tasto sensibile: in tanti erano partiti per terre lontane e con i cari rimasti nei paesini della Calabria si erano salutati a vita. Distacchi duri e dolorosi tra persone che non si sarebbero più riviste.
- Amici, la vera soluzione della questione meridionale passa attraverso progetti seri, impegno costante e capacità di far pesare i vostri voti, quelli che voi, generosamente, mi vorrete dare, per far sentire la vostra voce dentro il Parlamento nazionale -
Un applauso, stavolta più consistente, accompagnò le ultime frasi dell’uomo politico.
Cumpari Micheli, che aveva assorbito attentamente il discorso e le promesse azzardate dall’onorevole, si staccò dal gruppo dei suoi amici, si portò quasi al centro della piazza e sotto il pulpito e, allo scemare dell’applauso, cercò l’attenzione generale:
- Permettetemi nu momentu! - disse tra italiano e dialetto.
Un mormorio attraversò gli astanti, qualcuno in prima fila abbozzò un sorriso, l’onorevole scrutò questo vecchietto con barritta[40] sulle ventitré che con fare da capo popolo riuscì in un attimo a zittire la piazza.
- Caro ccillenza, vi voglio dire solo due cose - disse con una punta di spavalderia.
Si alzò il mormorio e qualche risata da parte dei notabili sul palco.
- Lasciate che l’amico parli e ci dica il suo pensiero! -disse l’onorevole con tono accomodante.
- Vi volevo dire, caro ccillenza, che qui non c’è nuja quistioni meridionali, comu a chiamati vui; u paisi è tranquillu, e se ndavarria u nc’esti ccacchi quistioni ccà ci la vidiamo noi!- [41]
Le risate contagiarono anche i sostenitori del partito. Solo gli amici di Cumpari Micheli ascoltarono seriamente.
- Spettati nu momentu! - riprese Cumapri Micheli - non finìa! Vui dicistivu ca voliti fare una galleria per andare dall’atraparti dilla Calabria e un aeroportu pemmu potimu jiri a Merica - [42]
Il silenzio si fece sentire, tutti tacquero. Forse aveva qualcosa di molto serio da dire e la scena fu sua.
- Onorevoli, sentiti a mia – continuò - Na cosa sula, chi sarria bona, potiti fari: dassati futtiri a galleria o l’aeroportu pa Merica. Nda ja chianura portatindi u mari!!! Cosi nci ndi potimu strafuttiri i ji quattru pidocchiusi di Casalinisi! E non vi preoccupati, ca ccà i quistioni ndi sbrigamu nui! -[43]
Un applauso, di tutti coloro che fino a quel momento erano rimasti impassibili, coprì le risate dei notabili; Cumpari Micheli si era fatto portatore di una mirabolante proposta dettata solo dalle cose che conosceva, che viveva e che respirava: le rivalità con Casilino.
Fu l’epilogo del comizio, le risate di scherno dei numerosi galoppini e portaborse del partito continuarono senza ritegno nei confronti di chi, secondo loro, era un campione d’ignoranza.
In fondo, però, la richiesta di portare il mare a Pretì non era più stramba delle mirabolanti promesse che qualche minuto prima l’onorevole si era permesso di fare a un pubblico attento, ingenuo, rispettoso e credulone; a gente che nella forma e nella sostanza, da secoli, di rispetto e attenzione ne aveva avuti poco o niente proprio da chi saliva sui quei pulpiti.
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[1] Che vi levassero le budella
[2] Vecchia condotta
[3] Sarà sospesa l’erogazione dell’acqua
[4] E’ da accecare il Sindaco e chi l’ha votato
[5] Il numero in lista del candidato
[6] Fai il segno sullo scudo crociato (DC)
[7] Fai segno su falce e martello (PCI)
[8] Fai il segno sulla fiamma tricolore (MSI)
[9] Compare ha sentito?
[10] Sospendono l’erogazione dell’acqua
[11] No comare, la macchina annuncia un comizio
[12] Che si ribaltassero
[13] Eh no, cara comare le elezioni sono importanti, ricordatevi che il Governo siamo noi
[14] Io vado a votare e questa volta voto la croce- DC-
[15] La mia fonte del benessere ( riferimento ad una qualità di ulivo di buona resa)
[16] Possono gridare quanto vogliono
[17] La mia barca è a riva ( La mia condizione economica è sicura, non corro pericoli)
[18] Girini, piccole rane
[19] Michele, spegni il televisore , lo rompono
[20] Aspettate cinque minuti, dopo la lite l’accendiamo
[21] Con una conta, o con le carte, si eleggeva il Capo ed il Sottocapo i quali decidevano a chi dare da bere.
[22] Barare nel distribuire le carte.
[23] Taglio di capelli alla Mascagni
[24] Accendere la sigaretta per esorcizzare le carte
[25] Ti ha fatto l’incantesimo per essere sempre suo?
[26] Imprecazione alla settima piuma dell’ala sinistra dello Spirito Santo
[27] Imprecazione a San Rocco cosi come è raffigurato nelle immagini in compagnia di un cane col pane in bocca.
[28] Comande
[29] Documento attestante la titolarità della pensione.
[30] Distese, pianure.
[31] Raccolta ed intrecciata
[32] Montanari,in senso dispregiativo
[33] Pescivendoli, in senso dispregiativo
[34] Lamine di legno di castagno
[35] Melanzane ripiene
[36] Rimboccati fino al ginocchio
[37] Eccellenza? L’ha chiamato Eccellenza! Come se fosse un vescovo
[38] Questo parla bene, si sente che è stato al governo
[39] Si è vero, ma di ciò che lui dice qui non si è visto mai nulla. L’altra volta e venuto s’è preso i voti e poi è scomparso
[40] Coppola
[41] Vi volevo dire, caro eccellenza, che qua non c’è nessuna “questione”,(intesa come contesa o litigio di paese) il paese è tranquillo e se dovesse nascere questione la risolveremmo, noi , tra paesani
[42] Aspettate un momento, non ho finito, avete detto di voler fare una galleria per andare dall’altra parte della Calabria e un aeroporto per andare in America
[43] Onorevole ascoltatemi, una sola cosa, da fare, sarebbe ottima; lasciate perdere la galleria e l’aeroporto . In questa pianura portateci il mare! Cosi ce ne possiamo strafottere dei pidocchiosi Casilinesi! E le nostre questioni le risolviamo noi

sabato 7 novembre 2015

LE 2 STAGIONI ALL’ INFERNO E LA TENDOPOLI DI SAN FERDINANDO

di Bruno Demasi

  
    Non esistono le stagioni di mezzo all’inferno , nemmeno come luoghi comuni, nemmeno come elementi di un calendario di carta riciclata, perché nella tendopoli di San Ferdinando le dimensioni al massimo possono essere due: o si scoppia di caldo o si muore di freddo e le grandi scritte ormai sbiadite sui fianchi delle tende logore e sporche, rattoppate o ampliate alla meno peggio, “MINISTERO DELL’INTERNO”, appaiono come titoli di vecchi giornali accartocciati abbandonati nell’ immondizia. 
    A un anno di distanza dallo sgombero della baraccopoli che era nata a ridosso della tendopoli, a sua volta allestita qualche anno fa con lo scopo di ospitare solo transitoriamente le centinaia di immigrati senza tetto la situazione sembra essersi ormai riprodotta ex novo: mancano ancora gli spazi per tutti, specialmente all’arrivo del tempo di raccolta delle arance e delle clementine e di tantissima manodopera nera a buon mercato che in queste settimane giunge da ogni dove col miraggio di guadagnare pochi euro al giorno nelle campagne circostanti. 
   E se mancano gli spazi crescono  a dismisura le baracche. A ridosso delle tende o delle fabbriche abbandonate o sequestrate, ma anche all’interno di esse. L’inferno qui non è neanche a gironi, ma è variopinto e lacero, distribuito alla meno peggio con geometrie da fame tra le strade invase dalle erbacce e spesso anche dai rifiuti in quella che avrebbe dovuto essere la” seconda zona industriale” satellite del porto di Gioia Tauro e che invece è diventata l’allegoria del deserto onnivoro che nasconde o divora definitivamente migliaia di esseri umani relegati al ruolo di bestie. 

   E, se tace glacialmente lo Stato, ritornano i bandi per le manifestazioni di interesse per la “gestione di una tendopoli temporanea per immigrati extracomunitari” lanciati periodicamente dal Comune di San Ferdinando e i conseguenti appalti affidati rigorosamente “ ad associazioni di volontariato” iscritte ai relativi registri regionali o provinciali.
   Bandi di cui si apprezza il sense of humour sebbene non si capisca cosa si intenda con l’espressione “gestione di una tendopoli” e come mai ancora si usi l’aggettivo “temporaneo” per qualificare un ammasso di tende miracolosamente in piedi anche dopo il diluvio d’acqua degli scorsi giorni e il diluvio di parole e di promesse di sempre.
    C’è comunque un volontario qui che continua a combattere la sua battaglia immane contro tutto e contro tutti, specialmente contro l’assuefazione di comodo che fa diventare duraturo ed eterno ciò che avrebbe dovuto essere transitorio: E’ don Roberto Meduri, il parroco della vicina parrocchia del Bosco di Rosarno, che non rappresenta nessuna associazione di volontariato e non è in grado di avanzare alcuna “manifestazione d’interesse” perché il suo unico interesse è quello che ogni sera, spesso dopo un digiuno coatto durato l’intero giorno correndo di qua e di là senza posa a soccorrere e ad aiutare, lo fa salire ancora sull’altare della sua chiesa di campagna per nutrirsi di pochi grammi di Pane e di poche gocce di Vino.
    E il suo oscuro datore di lavoro , originario di uno sperdutissimo villaggio chiamato Betlemme, anch'egli immigrato da sempre e dovunque, nonostante le insistenze di molti, si intestardisce ancora a proibirgli di creare una di quelle associazioni magicamente iscritte nei registri untuosi che aprono tante porte e che tanto lustro e decoro (ma non solo...) danno a chi le crea o a chi  le rappresenta.