lunedì 31 dicembre 2012

MILLE NUOVE TENACI SPERANZE PER L’ANNO CHE ARRIVA PER LA PIANA E PER LA DIOCESI … MA SOLO CON L’OTTIMISMO DELLA VOLONTA’

        di Bruno Demasi
      La lezione gramsciana è più che mai  attuale per noi, qui, oggi, su questo territorio sempre più abbandonato a se stesso : se dovessimo infatti valutarne  il futuro con lo stesso metro e gli stessi elementi con cui si è costretti a valutare anche il  suo recentissimo passato, non potremmo che cadere e scadere ancora una volta nel pessimismo della ragione.

        Basta analizzare  solo due aspetti di fondo :



Il contesto sociale , economico e politico nella Piana

   Sempre più sfilacciato e sempre più privo di identità, il nostro contesto sociale che da un pezzo ha smarrito un sistema valoriale proprio, oggi insegue spesso chimere di arricchimento facile ( o forse anche solo di sopravvivenza) fornendo facilmente manovalanza, sommersa o legalizzata che sia, al crimine. Enon solo al crimine targato ndrangheta…
   I fondi comunitari, gli aiuti di governo, che pure negli anni si nono stratificati e susseguiti con cadenza ed erogazioni impressionanti, non hanno lasciato da queste parti il minimo segno di ripresa e di sviluppo nell’indifferenza pressochè totale dei politici o delle agenzie statali chiamate a un controllo ferreo dei mille  tortuosi rigagnoli in cui tanto danaro  ha trovato  strada.
   Non un solo nuovo posto di lavoro è stato creato nella Piana in questo 2012  a fronte delle centinaia che sino sono perduti: basterebbe  effettuare un piccolo controllo nei luoghi appropriati per accorgersi di quante piccole e piccolissime imprese in questi ultimi due mesi dell’anno sono state costrette a chiudere o a dichiarare il loro privato default.
   Si dirà che la tendenza è simile a quella nazionale o addirittura internazionale, ma la cosa non ci consola affatto: in una terra, come la nostra, in cui l’imprenditoria pubblica e privata sono soltanto delle chimere ormai irraggiungibili, perdere un posto di lavoro, chiudere ciò che già esisteva diventa un vero crimine per la collettività o, piuttosto, l’en nesima fatale sconfitta per una terra in cui persino la speranza del futuro viene ormai delegata agli altri e dove gli altri, comprese banche e partiti politici, vengono solo a vendere i loro prodotti succhidanaro e a comprare sottocosto  spazi per candidature improbabili o per operazioni finanziarie sempre più arroganti.
    Un sistema bancario, politico, imprenditoriale che, parallelo a quello del crimine organizzato,  passa sulle nostre teste in modo ormai palesemente sfacciato, in una società-pollaio, che si azzuffa in continuazione attraverso guerre di poveri e fra poveri. Il tutto nell’indifferenza del mondo scolastico ormai asservito a mode e miti pedagogici improbabili, nella palude di un sistema formativo di facciata, nell’urgenza delle nuove povertà – non ultime quelle degli africani di Rosarno e di San Ferdinando – nell’incertezza di un domani almeno vivibile, sia pure tra gli stenti del quotidiano. Il tutto nell’arroganza di un sistema politico che continua ad autocelebrarsi e ad alimentarsi in modo vorace e pilatesco, anche mediante l’opera di campieri e di vassalli di palazzo che continuano a rimestare con rara maestria nel calderone delle risorse non spese o spese malissimo.

Il mondo ecclesiale nella Piana


    Più che lo sciocco volantinaggio che in questi giorni in qualche paese della Piana vorrebbe muovere confuse e  improbabili accuse ai responsabili ai gradi più alti della nostra diocesi , preoccupa molto invece  l’analisi effettuata lucidamente da F. Arzillo nei giorni scorsi sui nuovi “segni dei tempi” circa il futuro della Chiesa,segni che  per la nostra  terra assumono una rilevanza assolutamente grave.
    Qui da noi l’identità ecclesiale , forse più che altrove, si sta accartocciando su se stessa:tutte  le posizioni  tradizionaliste e progressiste  postulano – sia pure in forme diverse – la presa d’atto della fine della cristianità: i tradizionalisti a favore di un cristianesimo che sopravviverebbe in minoranze combattive, isole felici del tutto impermeabili alla cultura contemporanea; i progressisti inverandosi in una sorta di “puro vangelo”, annunziato da una Chiesa minoritaria pronta a celarsi come lievito nel mondo secolarizzato, assumendone per buona parte la cultura.
       Anche le posizioni tipiche dei movimenti ecclesiali  sulla Piana incrociano pesantemente  questi due atteggiamenti, pervenendo a posizioni di vario segno, accomunate comunque dalla medesima , pericolosissima convinzione di essere minoranza nella postcristianità.
      La secolarizzazione europea è in effetti  un fenomeno tipicamente postcristiano: di qui le notevoli difficoltà che essa pone ai teologi, ai filosofi e agli studiosi in genere. La secolarizzazione nella Piana è invece  solo in piccola  parte un fenomeno postcristiano.
       Là dove il munus docendi, il munus regendi e il munus sanctificandi coesistono e si esercitano senza mezzi termini e senza mezze convinzioni la nostra gente accorre ancora a frotte per chiedere aiuto, luce e benedizione…!
       Là dove invece c’è stanchezza e ripetitività di atteggiamenti, distanza dalle persone e dai loro problemi, là dove c’è stucchevole  o arrogante convenzionalità e poco altro, là c’è l’abbandono progressivo e fatale della fede, che per le nostre parrocchie sta assumendo dimensioni disastrose.
       C’è tanto devozionismo popolare – è vero – ma c’è anche tanta stucchevole rimasticatura di convegni, raduni, convivenze,campi-scuola, pellegrinaggi onerosi, che isola sempre più i presbiteri e le parrocchie  dalla gente.
        Mordersi la coda denunciando e condannando  il devozionismo tradizionale per riproporne uno di ritorno che non ha neanche radici popolari (almeno quelle) è un gioco perdente.
        A tutti i livelli!
Non a caso nel pontificato di Benedetto XVI la difesa della tradizione devozionale e l’annuncio di una fede purificata e ricondotta al suo fondamento spirituale coesistono nitidamente e trovano espressione nelle straordinarie omelie, che proprio per questo assomigliano alle omelie dei Padri della Chiesa e di cui sentiamo tutti il bisogno urgente!
. . .

Con l’ottimismo della volontà dunque BUON 2013, Piana!


martedì 25 dicembre 2012

BUON, FREDDO NATALE NELLA PIANA...

    di Bruno Demasi
            La notizia è di poche ore fa :"La Regione , attraverso il Presidente della Giunta Giuseppe Scopelliti si è impegnata ad offrire un contributo di diecimila euro ed a mobilitare la struttura della Protezione Civile regionale per l'installazione di ulteriori tende per gli immigrati della Piana. La gestione del finanziamento sarà affidata alla Diocesi di Oppido- Palmi."
    Un comunicato dal sapore natalizio, stucchevolmente natalizio.
   E tuttavia lo apprezziamo tutti perchè, se non altro, malgrado l'esiguità quasi ridicola dell'intervento regionale, si riaccende la speranza per migliaia di persone avviluppate dal freddo glaciale delle notti della Piana nell'inferno di San Ferdinando e di Rosarno.
     Ci domandiamo se davvero c'è tanta buona volontà da parte delle agenzie politiche ed ecclesiali perchè mai non si aprano agli immigrati le centinaia di immobili confiscati alla ndrangheta e non si mettano a disposizione le centinaia di milioni di euro sottratti al malaffare e alla criminalità organizzata per  allestire delle cucine e dei dormitori degni di ospitare esseri umani.
     Non dubitiamo dell'oculata gestione dei diecimila euro offerti dalla Regione alla nostra diocesi; dubitiamo invece fortemente che essi possano supplire per più di una o, al massimo due settimane,  ad anni di  incuria e di disatten zione verso l'atroce problema dei "nostri" immigrati.
     Speriamo sia sempre Natale....e comunque Buon Natale!

venerdì 7 dicembre 2012

NON ESTINGUERE LO SPIRITO: L’ESORTAZIONE CHE TORNA A INTERPELLARCI NELLA SOLENNITA’ DI MARIA SS.MA IMMACOLATA.

di Bruno Demasi

      La festa di Maria SS.ma Immacolata acquista quest’anno per gli Oppidesi e per la Diocesi una valenza ancora più nuova dopo la recente ordinazione sacerdotale del  giovane oppidese  Giuseppe Calderone appartenente agli Oblati di Maria Immacolata. E’ un segno che ci induce a domandarci quanto , attraverso la devozione a Maria Immacolata, il popolo di Dio nella Piana possa crescere e mettere al servizio della Chiesa i carismi.

     "E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro, invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell'unico Spirito; a uno il potere dei miracoli;
a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l'interpretazione delle lingue.
"(1 Cor 12,7-l1).

      Quei carismi che, come dice San Paolo, non vengono dati per l'utilità personale, ma per l'utilità comune.Sono appunto, "gratiae gratis datae", grazie date gratuitamente e indipendentemente dalla santità personale.Dunque i carismi in senso stretto sono del tutto a vantaggio della comunità. Per questo "il giudizio sulla loro genuinità e retto uso spetta all'Autorità Ecclesiastica, alla quale, mediante un discernimento non frettoloso e non prevenuto spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (1 Ts 5,12, e 19-21)" (LG 12).

      In questa prospettiva, si può comprendere facilmente che i carismi non sono, come a volte superficialmente si pensa e si dice, "secondari, facoltativi" o, peggio, discrezionalmente accoglibili da chi di dovere. Assolutamente no. Nella vita cristiana i carismi non sono opzionali o accidentali, bensì essenziali ed importanti (cfr. 1Cor 12,18-25)..

     Chiediamo dunque a Maria SS.ma Immacolata, in questa solennità che La onora e che ci riempie di speranza che il discernimento e l’esercizio dei carismi siano paradigmi di rinascita nella Fede anche nella Piana di Gioia Tauro.

domenica 25 novembre 2012

QUANDO L' UNICO SCIOPERO PER LA SANITA' NELLA PIANA E' QUELLO DELLE ...AMBULANZE!

di Bruno Demasi

       Si è appreso con raccapriccio nei giorni scorsi che è stato sospeso il servizio di fornitura delle uniche tre ambulanze attrezzate per i codici rossi che erano dislocate negli ospedali di Polistena, Gioia Tauro e Oppido Mamertina. Ambulanze che erano fornite da una ditta privata con la quale l'Asp di Reggio Calabria aveva attivato il servizio di fornitura. La ditta avrebbe un contratto scaduto da 14 mesi e vanterebbe crediti per quasi 900 mila euro dall'Asp, ragione per la quale avrebbe deciso di sospendere autonomamente la fornitura di ambulanze. 
 
Una situazione di allarme che sta provocando ( purtroppo solo flebili) proteste che ci si augura diventino più chiare e corpose sull’esempio di quanto ha fatto destinate il presidente nazionale dell' associazione "I nostri angeli" Alfonso Scutellà che ha mandato un telegramma urgente al direttore generale dell'Asp. "Apprendo – vi si legge - che nella Piana la ditta che forniva le ambulanze del 118 ha ritirato tale servizio con la conseguenza di mettere a rischio il sistema dell'emergenza sanitaria e il diritto alla salute. Chiedo urgente incontro per capire le ragioni per le quali ciò è accaduto e soprattutto per sapere come l'Asp intende ovviare al problema che potrebbe provocare gravi carenze al sistema sanitario e quindi il rischio per la vita delle persone".

      Non ci sorprendono affatto ormai né lo stato endemico di disservizio né la discutibilissima forma di protesta attuata dalla ditta. Ci sorprende semmai il fatto che la sanità nella Piana e nella provincia di RC abbia avuto bisogno di appaltare a privati un servizio di propria pertinenza, dato che è abbondantemente – o dovrebbe essere - in possesso di mezzi e di personale retribuito per attivarle, considerati i tetti stratosferici di spesa storicamente impegnati per la gestione del parco automezzi e per le spese di personale.

       Ci domandiamo se questo ennesimo baratro di 900 mila  euro di debito sia almeno sotto il doveroso controllo degli organi e delle Istituzioni preposte, al fine di accertarne, se non altro, la legittimità, ma ci domandiamo anche se in questa terra di nessuno che si chiama “Piana di Gioia Tauro”ci sia ancora un’ombra, una traccia, un sentore di “Stato”.

domenica 11 novembre 2012

POLISTENA (DA SOLA) IN PRIMA LINEA PER LA LOTTA ALLA NDRANGHETA

di Bruno Demasi

   Il silenzio assordante di quasi  tutti gli altri comuni della Piana nella lotta alla devastante criminalità e all'ancora più aberrante mentalità ndranghetistica, dobbiamo essere onesti, fa fare a Polistena la figura di un gigante e agli altri sindaci  del territorio quella di lillipuziani, incapaci di sollevare quasi lo sguardo da terra per guardare in alto!

    Sono per contro tantissimi i convegni , i "progetti" antimafia che fioriscono nei nostri comuni e nelle nostre scuole, ma si tratta il più delle volte di stucchevoli rituali che non cambiano ( e forse non vogliono cambiare) nulla...

     Quello di ieri a Polistena è stato invece  un grande momento di lotta e di memoria, di festa e di ribellione, di rabbia e di coraggio da parte degli onesti, di quanti vogliono ridare a questa piana martoriata dall'indifferenza a più livelli la dignità di contesto civile e sociale meritevole di questo nome. Teatro dell’iniziativa una città antimafia che crede e punta nei giovani come vera speranza per il cambiamento.

       Da Polistena un messaggio chiaro e forte da parte di una Calabria che non si arrende di fronte alla ’ndrangheta, alla corruzione, alla zona grigia dei colletti bianchi. In tantissimi (secondo gli organizzatori almeno 5mila persone) hanno raccolto l’invito lanciato dall’Amministrazione comunale guidata dal sindaco Michele Tripodi che, in occasione del 10° appuntamento della “Stagione dell’antimafia”, ha promosso una manifestazione, una marcia dai tanti significati, a cominciare dalla coraggiosa decisione di dedicare due strade, rispettivamente a Peppino Impastato e a Don Pino Puglisi, ed una piazza al giudice Antonino Scopelliti. Quale altro comune della Piana ha "osato" tanto?

     Il  “no alle mafie, no ai corrotti lottiamo insieme per il cambiamento” tracciato a caratteri cubitali sullo striscione  portato in mano dai volontari del Servizio civile nazionale sarebbe dovuto essere il no, la sintesi dei mille no, mai venuti, dalle istituzioni civili della Piana. 
    
 E che alla manifestazione fossero presenti  solo 20 sindaci non ci consola affatto!

venerdì 24 agosto 2012

IL GIALLO DI “MELLA” e “MAMERTO” : da uno pseudotoponimo alle ragioni storiche


        di Bruno Demasi
 
    Quello che per secoli ormai, in varie zone della provincia di Reggio Calabria, e non solo, è stato considerato soltanto un toponimo di dubbia origine, “Mella”, ha una singolarità: non si tratta nemmeno di un luogo  geograficamente specifico , ma diffuso in tutta l’area di influsso arabo-ebraico. Ne danno testimonianza silenziosa infatti le numerose contrade che già in provincia di Reggio Calabria  e nelle province vicine recano ancora più o meno la stessa  denominazione: la “Meja” di Oppido; le “Meda” di San Martino di Taurianova e di San Giorgio Morgeto; le “Melia” o “Mella” di Africo,  Bivongi,  Canolo,  Cittanova,  Cosoleto,  Cirò,  Cropani, Gerace, Gerocarne, Giffone, Mammola, Monasterace, Samo, Scilla, Staiti e tantissime altre.
             Perché dunque una diffusione tanto abbondante di tale pseudotoponimo, che a lungo e con molta approssimazione è stato attribuito all’antica quanto improbabile  presenza in queste zone dell’ippocastano e del relativo nome greco (malos)?
            Per un motivo che, tutto sommato, è semplicissimo: più che di un toponimo in senso stretto, mutuato dalle caratteristiche orografiche del territorio o da altre ragioni, ivi compresa la vegetazione dominante, si tratta di un’indicazione di località vicina all’abitato risalente al periodo di influenza arabo-ebraica nella zona meridionale della  Penisola  e  in  quella insulare. 
L'attuale Mellah di Marrakesh
           “Mella” , anzi “Mellah”, poi      a seconda delle varie parlate locali –  “Meja”,  ”Meda”, ”Melia”, ”Malia” era ed  è termine arabo che indicava il quartiere ebraico  ai margini della città, generalmente fuori dall’eventuale cinta muraria in  zona orograficamente infelice rispetto all’abitato nobile, generalmente in pendio, ma di facile accessibilità e, al contempo, di facile pulizia in quanto il declivio consentiva  il deflusso delle acque o comunque la non stagnazione di esse.
             Era    ed è ancora nelle città islamiche –  (Si pensi al  Mellah di Fes e di tutte le altre città del Marocco ; al  Mellah di Tripoli e , in genere, ai  mellah  un tempo satelliti di quasi tutte le città islamiche, oggi  ridotti a quartieri o semplici rioni etnici) il luogo spregiativamente (“ mellah” in arabo indica una zona escrementizia) indicato come dimora di mercanti  che non vanno tanto per il sottile, il luogo principe per traffici e commerci , in particolare   del bestiame, nel quale gli Ebrei,e non solo loro, per sopravvivere si davano alla mercatura, disprezzata, se non condannata, dalla cultura  cristiana e, sotto vari aspetti, anche da quella islamica.  Quegli Ebrei che , come ci ricorda J.J. Benjiamin,"…sono obbligati a vivere in una parte separata della città…; perché sono considerati creature impure… Con il pretesto della loro impurità, sono trattati con la massima severità e se dovessero entrare in una strada, abitata da musulmani, ne sarebbero cacciati dai ragazzi e dalla folla con pietre e sporcizia… Per la stessa ragione, si proibisce loro di uscire quando piove; perché si dice che la pioggia che li laverebbe potrebbe insudiciare i piedi dei musulmani… Se un ebreo viene riconosciuto come tale in strada, è soggetto ai peggiori insulti. I passanti gli sputano in faccia, e a volte lo percuotono… senza pietà…."
         Nelle città arabe  la mellah era circondata da mura e da porte. Invece, le mellah rurali, come quelle i cui nomi restano nelle Calabrie e, in particolare a Oppido, erano  solo villaggi separati  e abitati prevalentemente da ebrei.
Reperti archeologici  affioranti a "Mella"
         Una quisquilia storica dimenticata, tanto che da quando nell’ormai lontano 1972 (ma già dagli anni ’30 del secolo scorso si segnalavano rinvenimenti di indubbia importanza) sono affiorate in contrada Mella , a breve distanza dai ruderi del castello della vecchia Oppido  (RC), in direzione N-W, le vestigia di un’antica civiltà e di un insediamento civile di grande spessore urbanistico e culturale ( Senza ombra di dubbio ormai,la  Mamerto di straboniana memoria), risalente sicuramente ad età pre-romana, il mondo degli studiosi ufficiali  nell’incertezza di attribuire un nome all’insediamento rinvenuto – e col passare degli anni via via sempre più documentato dagli addetti ai lavori – insiste nella  sciatta abitudine di indicarlo col nome di “Mella”. Cosicché quello che in origine era soltanto un apparente e banalissimo toponimo,la denominazione di una contrada coperta non da frassini e ippocastani, ma da secolari uliveti, è divenuto col tempo , anche in ambito storiografico e pubblicistico, il nome ,o quasi, dell’antica città sepolta e delle sue pertinenze.
       Una denominazione sbrigativa e superficiale!
       E’ infatti  facile, ma aberrante  indicare un sito archeologico prendendo in prestito (provvisoriamente – si dice – vale a dire  definitivamente) il toponimo del luogo del rinvenimento, come se anziché chiamare Sibari  il sito della nobile città magnogreca, le si fosse  affibbiato il nome di “Parco del Cavallo” o  a Medma, l’altrettanto nobile città sulla costa tirrenica, quello di “Pian delle vigne”.
       L’affascinante peculiarità del luogo , anzi dei luoghi di cui sono disseminate le colline circostanti gli abitati di tante  città calabre che recano ancora tale denominazione, ci rimanda ad un contesto culturale che da bizantino diventa dalle nostre parti  tardivamente arabo in molti settori della vita quotidiana e nel quale gli Ebrei e  la cultura araba, tenacemente attecchita, svolgono un importante ruolo economico e culturale.
        E che gli Arabi, specialmente sul versante tirrenico meridionale della Calabria, abbiano giocato un influsso culturale e sociale estremamente importante in sinergia con una cultura ebraica tutt’altro che marginale  lo testimoniano i reperti linguistici misti ancora oggi vivissimi nella nostra onomastica (Modafferi, Morabito, Gangemi, Bosurgi, Macaluso o Molluso) o comunque nel nostro dialetto. A partire dal IX secolo  gli Arabi avevano sottratto le campagne alla sterilità del latifondo ,impiantando nuove colture, sperimentando nuove tecnologie ,dando ai lavoratori della terra una dignità che mai essi avevano avuto ed insieme ad essa una nuova lingua che si sovrapponeva nella ricchezza lessicale al tessuto morfosintattico greco e latino.
        Furono poi gli Ebrei che anche dopo la cacciata definitiva degli Arabi da parte di Federico II, continuarono ad adoperare e disseminare un po’ dovunque la lingua araba almeno fino a buona parte del  XV secolo.
La strada di epoca tardo imperiale rinvenuta a monte di "Mella"
       Tanti gli esempi ancora vivissimi nella zona oppidese e , in genere, in molte parti del territorio calabro: Catusu (Kadus - condotto); zuccu (sukkar –ceppo); gebbia (gebya – cisterna); margiu (marg’ – campo incolto); tuminu (tumjnu – misura agraria); balata (balat – lastra); frastanaca (bistinaka – carota selvatica); gambittu (gammit – canale); rotulu, tuminu, cafisu ( ratl, kafiz, tumn – unità di misura); tafareja (tafarija - cesto); zirra, giarra (zir- orcio); saladda (saladdah – coperta grezza di lana); fannacca (hannaka - collana di ortaggi); farrubbu  (harrub – carrubo); gazzana (hazana – nicchia); musulucu ( musluq – formaggio fresco ); tamarru  (tammar – uomo grossolano);varda (barda’a – soma-sella); afra (hafr – alloro); cuscussu  (kuskus – semolino).
       Il/la Mellah di Oppidum, a differenza di tante altre sorte nelle vicinanze di altri luoghi, ebbe la singolare ventura di crescere sul sito  nobilissimo, ma ormai quasi  illeggibile, dell’antica città pre-romana , quella città che da alcuni anni sta venendo alla luce a poche decine di metri dall’antica cinta muraria medievale di Oppidum  ed alla quale ancora ci si rifiuta pavidamente di dare un nome, il suo vero nome , Mamertum, anche dopo che Rubbettino, con il suo indubbio acume  che dà lustro all’editoria e alla cultura calabrese, già da dodici anni ha ripubblicato, dopo quasi cinque secoli dalla prima e unica edizione del 1516 (Benedetto Clausi “Ridar voce all’antico padre”, Rubettino, 2000 ) l’edizione erasmiana  delle lettere di Gerolamo, nella quale, a pag.273 si legge con estrema chiarezza: “Spartiatae et Messeni “Mamertiam” appellant regionem omnem ad Mamertum Oppidum pertinentem”, dove l’indicazione di Oppidum è chiaramente riferibile a una città specifica e non a un qualsiasi luogo fortificato.
        Ma erano proprio necessari i riferimenti bibliografici, che per secoli sono stati discordi ed hanno oscillato su Oppido e Martirano , per dare un sito a quell’antica Mamertum, accuratamente descitta da Strabone, che  gli archeologi hanno già documentato da almeno venti anni  in zona  Mella di Oppido e  che  si ostinano ancora a chiamare sbrigativamente  solo “Mella”?