Volevo far calare il silenzio sulle mie riflessioni annotate qualche giorno fa in questo diario sulla situazione ignominiosa in cui versano gli alunni diversabili nella grande maggioranza delle scuole della Piana di Gioia Tauro, ma un articolo uscito su "La Repubblica" (giornale ormai detestabile per molti versi, ma non privo di qualche sussulto di verità, come quello a cui mi sto riferendo) mi ha riportato ancora una volta a pensare con rabbia e con tristezza a questo grave problema.
scuole o li utilizza per la fornitura degli assistenti educativi, delle colpe delle scuole e dei consigli di classe nella progettazione di interventi educativi che includano i diversabili e non solo "per" i diversabili ( il più delle volte scaricati alla progettazione educativa formalizzata sulla carta solo dal docente di sostegno).
Non ho scritto però dello schematismo operativo frettoloso delle commissioni ASL demandarte alla valutazione iniziale ed in itinere del diversabile e, soprattutto, di due situazioni di fondo che consideravo marginali fino a qualche giorno fa, ma che invece si stanno rivelando fondamentali nella loro crudezza.
La prima riguarda il sostanziale e globale atteggiamento di sfiducia dei genitori di questi ragazzi nei confronti della scuola: un amico molto coinvolto mi ha detto testualmente "Non credo nella Scuola: se non avessi speso privatamente tanto denaro, mio figlio oggi sarebbe in una situazione di sviluppo molto precaria". Un atteggiamento eloquente verso una scuola considerata più come una tappa obbligata per la socializzazione e la crescita sociale del diversabile che non un mondo di occasioni didattiche ed educative credibili.
La seconda invece riguarda una malintesa convinzione da parte delle associazioni e dei singoli
genitori degli allievi diversabili, quella di pensare che la quantità e la qualità dell'integrazione didattica, educativa e sociale sia direttamente proporzionale alla quantità di denaro erogato da parte dei soggetti territoriali o statali responsabili ed impiegato (spesso casualmente) da comuni e scuole. Non è assolutamente vero! Qualità e quantità di interventi mirati e utili ed efficaci non dipendono, se non in parte, dai finanziamenti ricevuti ( molti dei quali comunque vengono letteralmente sprecati ) Dipendono dalla capacità di organizzazione, dalla mediazione culturale e sociale demandata anche alla scuola, soprattutto dalla sensibilità di quel mondo di docenti, allievi e genitori che gravitano intorno al diversabile il più delle volte per accentuarne i problemi anzichè per tentare di risolverli o almeno smussarli.
La pagina che segue è molto eloquente in questo senso. (Bruno Demasi)
La scuola, dentro e fuori. L’attesa di chi é già oltre
Ero a fare supplenza in una classe prima non mia, perché, in questi giorni, anzi settimane e mesi, prima del vero inizio della scuola, si “coprono i buchi”. I colleghi non sono stati ancora nominati per coprire tutte le cattedre, per cui nelle classi si fa a turno, fra i docenti, “per tenerli” gli alunni. Nella classe, con trentadue studenti, ho subito notato un’alunna in carrozzina e respiratore artificiale. Parla scrivendo su un tablet e mi scrive “Aspetto il mio insegnante di sostegno. Ma gli altri professori li ho tutti” e alla fine mi clicca anche un cuoricino. In compenso, gli amici di classe e di paese di Rosella (nome di fantasia, ndr) non la fanno sentire sola. “Siamo suoi amici dalla scuola elementare”. Eppure, Rosella non smette mai di guardare fuori dalla classe,
attraverso la grande finestra che dà sul cortile. Sembra solamente preoccupata di ciò che sta al di là: sguardo fisso e pensieroso. Ho dovuto alzarmi, per capire e vedere. Seduto, su una panchina, all’ombra di un albero, un uomo. Mi ha scritto: “E’ papà. E’ un pazzo! Mi aspetta dalle otto fino a quando esco”. Tutto è cominciato con il papà di Rosella, curiosamente interessato al suo stato alla Nanni Moretti in Caos calmo. Mi ha raccontato: “Siamo tantissimi” quasi per discolparsi di qualcosa. Si tratta di genitori che hanno i loro figli “con handicap gravissimi e che, come me, per paura, fobia e un po’ perché non ci fidiamo tanto neanche di voi docenti, preferiamo aspettare e stare sempre pronti”.
E il papà di Rosella me ne ha fatti conoscere altri di uomini e donne come lui. “Abbiamo anche un gruppo di auto aiuto in cui ognuno sperimenta il confronto con gli altri genitori che vivono il disagio di aver rinunciato anche al lavoro, pur di stare ventiquattrore su ventiquattro insieme a creature che da un momento all’altro potrebbero non esserci più”. Infatti, si tratta di bambini e adolescenti come Raffaele, uscito dal coma dopo tanto tempo “e finalmente tornato a scuola, riconosce solo tre dei suoi amici di scuola di sempre”, mi racconta suo padre. Pierangelo, che ha perso la vista “e mi racconta ancora dell’aula colorata che lui stesso aveva dipinto con i sui compagni e noi genitori, che ci siamo auto tassati, per ripristinare l’aula dei nostri figli”. Si tratta della scuola che, a prescindere dalla vista o meno, funziona, perché “continua ad avere gli stessi colori di sempre, per Pierangelo – racconta la madre – Lui vorrebbe stare a scuola per tutte le ore della giornata, perché mi dice che qui ascolta le cose che lo faranno diventare qualcuno”. Pierangelo vorrebbe
insegnare Filosofia, come suo padre, docente di Storia e Filosofia in un liceo. E queste madri e padri sono il braccio forte di noi insegnanti, quella parte buona e che resta di una pedagogia utile al cambiamento delle persone. “Io – sostiene la giovane madre di Francesco – mi sento parte di voi. Il lavoro dei docenti, nella scuola, e qualche volta anche al di fuori, è troppo importante. Forse, più importante del nostro di genitori. Francesco pende dalle labbra della sua insegnante di Lettere e difficilmente mette in dubbio quello che lei gli dice, a differenza di quello che gli dico io”. E mi faccio raccontare, dal diretto interessato, Francesco, cosa è per lui la scuola: “E’ dove mi hanno insegnato che anche quelli come me (Francesco è nato con una malformazione del volto) hanno spazio e diritto ad esserci, non di più o di meno, perché io sono un mostro. Anzi, dalla letteratura ho imparato a capire quanto i mostri piacciano anche ai miei amici di classe”.
Francesco, con un’ironia e una forza travolgenti, mi racconta dell’interesse dei suoi compagni di studi per “Kafka e i suoi insetti, e per tutti quelli che hanno scritto pagine e pagine di belle e bestie, brutti e cattivi, benigni e maligni e che rendono ancora il sogno possibile della letteratura. Se la scuola ci insegnasse di più ad accettarci, anche rispetto ai nostri limiti e difetti, sarebbe una scuola che promuove, non con gli attestati”. Conosco anche Domenico, terza elementare, e sua madre, “un’altra di quelle che restano dietro la porta”. Suo figlio “non respira bene e spesso ha delle crisi difficili da gestire. Per questo io sono
qua”. Valentina da tre anni “trascorro l’intera mattinata a scuola. In compenso ho letto decine e decine di libri, nell’attesa di aspettare Domenico, che a metà mattinata mi riporto a casa, perché, a seguito di un’operazione gli ha causato un disturbo abbastanza grave dell’attenzione”. Ma la scuola ha provveduto diversamente per lui. Me lo racconta lo stesso studente di nove anni: “Ogni pomeriggio, a turno, vengono i miei amici di classe, che mi vengono a spiegare le cose che io non ho fatto in tempo a sentire in classe”.
Anche in questa occasione si tratta di un’esperienza scolastica di grande importanza: bambini di nove anni che fanno da insegnanti ad un loro coetaneo, mettendo in atto non solo la loro capacità di attenzione in classe, ma quell’antica e grande arte che si chiama amore. Quella che nella scuola, di dentro e di fuori, non può mancare. (Pubblicato su “la Repubblica” del 27 settembre 2014)