martedì 31 marzo 2015

IL VINO REGGINO E LA SUA MAGNIFICA STORIA

CARATTERI E DIFFUSIONE DEL "REGIO DI CALABRIA", UNO DEI VINI  PIU'  NOBILI DELL'ANTICHITA'
 di Felice Delfino
Una nuova pagina inedita di grande storia, tracciata con la  cura sapiente e  minuziosa di uno studioso  molto attento al nostro glorioso passato
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   “In Vino veritas” l’antico detto romano, ancora oggi ben noto e diffuso nel linguaggio comune. È risaputo certamente come gli effetti inebrianti del vino agiscano sul sistema nervoso disinibendolo, inducendo coloro che sono ebbri a essere vulnerabili, a dire ciò che in stato di coscienza non avrebbero mai avuto il coraggio di dire e a perdere il controllo di sé, giungendo a volte anche a gesti inconsueti. D’altra parte Omero ricorda del “..vino pazzo che suole spingere anche l’uomo molto saggio a intonare una canzone e a ridere di gusto, e la manda su a danzare, e lascia sfuggire qualche parola che era meglio tacere”. Pindaro apostrofava che: “il vino eleva l’anima e i pensieri, e le inquietudini si allontanano dal cuore dell’uomo”. Aveva nettamente ragione: C’è chi beve da solo per dimenticare o per alleggerirsi dal carico dei problemi quotidiani, ma c’è anche chi lo fa in compagnia degli amici. Bere vino è soprattutto un momento aggregativo e di grande condivisione, ha rallegrato, ma rallegra tutt’oggi le tavole di ogni casa.
   Un ruolo importante lo ha rivestito in occasione dei simposi, dove il piacere del bere era coniugato alla cultura, un connubio particolarmente interessante: il simposiarca sceglieva una tematica da trattare e ognuno dei conviviali esponeva il suo punto di vista. Il Simposio di Platone ne è un significativo esempio: l’argomento centrale intorno al quale ruota il dibattito narrato nell’opera, è l’Eros (amore carnale, passionale) sentimento ben diverso dalla Filia (l’amore amichevole) enunciato nel Fedro.
    Il banchetto di cui parla Platone nel Simposio, è organizzato a casa del poeta Agatone, il quale vuole festeggiare il successo da lui ottenuto nel concorso tragico o delle Lenee o delle Grandi Dionisie del 416 a.C., invitando per l’occasione, alcuni suoi carissimi amici: il discepolo Aristodemo, il retore Fedro, l’amante Pausania, il medico Erissimaco, il commediografo Aristofane e il saggio filosofo Socrate. Ognuno fa vertere il proprio discorso verso ciò per cui è più specializzato. Avevano già mangiato e bevuto molto; chissà quale fosse il vino consumato, ciò non è possibile affermarlo dato che Platone non lo specifica. Certamente si doveva trattare di un buon vino, data l’occasione speciale che aveva avviato quel simposio. E se quel vino fosse stato quello reggino?
    Ovviamente, è improbabile che così fosse, ma anche se sembra assurdo, non è completamente impossibile, in quanto come vedremo più avanti, era un vino che nel mondo classico aveva una importanza internazionale. Nel mondo antico il consumo di vino era frequente per i più ma anche tra i meno abbienti e la sua produzione avveniva con meticolosa cura e con sapiente arte, in quanto destinato anche ai palati più raffinati ed esigenti. Soprattutto l’edonista che faceva del piacere un vero e proprio stile di vita, non si accontentava di vini qualunque, ricercava i più prelibati per dissipare la sua ingordigia, per cui optava o per prodotti di maggiore livello qualitativo, smerciati all’interno dei grandi circuiti commerciali dell’epoca, oppure optava volentieri al consumo dell’ambrosia, il vino mescolato col miele, una bevanda ricercatissima e non comune data l’espressione attribuitagli di “nettare degli dei”.
   Esiodo nelle Opere e i giorni (VIII secolo a. C.) ricorda come ai suoi tempi la coltura della vite ed il commercio del vino fosse diffusa un po’ in tutta Europa, Italia e Spagna comprese. Il poeta parla dei vasi di terracotta i pithoi, del tempo della vendemmia (Ottobre) e del processo di pigiatura, di fermentazione dell’uva, di conservazione dei vini, per lo più vini resinati i cui vasi venivano interrati una volta rivestiti di pece e resina. Alla fine, il vino era filtrato e travasato in anfore, varianti di forma a seconda delle poleis, e raffiguranti a volte scene di vendemmia, altre di banchetti.

  Nell’Antica Grecia era rinomato il vino della Frigia (consumato dai Troiani) e dell’isola di Lesbo, terra natia della grande poetessa d’amore Saffo. Gli antichi Romani facevano riferimento anche ai vini prodotti nella penisola iberica, in effetti, nella zona di Marcà sono state rinvenute antiche giare romane. Sappiamo che dalla città catalana di Tarraco (detta anche Tarragona) il vino spagnolo del tempo venne esportato a Roma o in altre zone dell’Impero, ciò è significativo del suo prestigio. Priorat così si ricorda una delle più antiche denominazioni vinicole spagnole, mentre il Doc Priorato era la vasta porzione territoriale di 1500 ettari, nel Nord Est della Spagna ( località catalane) nell’immediata vicinanza della provincia di Tarragona, controllata dal Monastero di Scala Dei, fondato nel XII d,C. , dai monaci Cartusiani. Il clima secco e influenzato dall’aria marittima per la vicinanza col Mar Mediterraneo, associato al terreno vulcanico creò le condizioni favorevoli per realizzare degli ottimi vini dalle forti gradazioni alcoliche che avevano ottenuto l’apice della loro fama tra il XVIII ed il XIX d.C. e dopo un breve periodo di decadenza, quest’area vinicola risorse negli anni Novanta del secolo scorso, grazie a viticoltori consci dell’opulento potenziale a disposizione.
     Sono stati loro a riattivare, usando le moderne tecnologie, la lavorazione dei vigneti coltivando le uve dalle bacche nere: Cariñena; Garnacha: nelle varietà “Tinta”, “Peluda” e anche “Blanca” per ottenere soprattutto vini dolci e liquorosi; Cabernet Sauvignon una varietà di uva francese, la più rinomata al mondo, che seppur straniera, si è ben adattata anche in Spagna; l’uva Merlot e Syrah che conferisce un caratteristico sapore fruttato ed apportatrice di sensazioni balsamiche e speziate. Nei Paesi Baschi abbiamo invece lo Txacoli, un vino bianco secco fruttato prodotto ancora a Bakio (Bizkaia) e Getaria (Guipzcoa). Anche altri antichi vini provenienti dall’Africa Settentrionale o da altre zone del mondo arricchiscono questo già corpulento quadro. In Italia, gli Etruschi disseminano molte viti introducendo la pratica di coltivazione della vite maritata: la vite si avvinghia ad un albero, ciò fa subito venire in mente al reggino, l’oracolo di Delfi, consultato dai Greci Calcidesi nell’VIII sec. a.C., prima di fondare Rhegion: infatti, si profetizzava che un maschio (un fico) si univa ad una femmina (una vite) e lì era il luogo della fondazione. Altre viti e relative tipologie di coltivazione sono introdotte prima dai Greci e poi dai Romani. Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis sostiene che ai suoi tempi esistevano 195 varietà di vini, e solo la metà erano prodotti in Italia. Un lungo elenco può essere stilato circa i vini più prestigiosi, che non cito tutti, per motivi di opportunità, e consumati del passato in cui sono inclusi tre vini del territorio italico che possiamo tranquillamente etichettare come “principi”: Sorrentino, Priverno ed il Reggino. Quest’ultimo è stato osannato niente poco di meno che dallo storico Ateneo di Naucrati nella sua opera, collocata nel II secolo d.C., “I Sofisti a banchetto”. Quali sono le motivazioni che spinsero questo storico a elogiare un prodotto tipicamente peculiare e caratteristico della nostra terra?
    Le ragioni vanno evidentemente ricercate innanzitutto nelle sue qualità dolciastre e liquorose, era un vino, oggi diremo, da dessert così come attualmente lo sono il Moscato e il Passito prodotto a Pantelleria. Altre caratteristiche sono riscontrabili nel carattere e nella sua longevità avendo una grande capacità di conservazione (quindici anni) garantita dalla pece aspromontana con cui veniva cosparso l’interno delle anfore vinarie.
    Un ulteriore elemento che eleva ancor più il livello del vino reggino, consiste nel fatto che sono stati realizzati degli appositi recipienti per contenere il vino prodotto a Reggio e in località limitrofe, ossia particolari tipologie di anfore note in epoca romana e agli inizi di quella bizantina e denominate dagli addetti ai lavori come KEAY LII e prodotte nelle fornaci locali. L’attestazione archeologica diventa così un valido aiuto nel dimostrare il carattere cosmopolita del vino reggino, partendo dal presupposto che i frammenti di KEAY LII sono emersi dalle campagne di scavo di vari siti occidentali e orientali, aventi una significativa distanza geografica, l’uno dall’altro: da Lazzaro al Nord Africa, dalla Spagna alle isole britanniche.
    La produzione del vino reggino e di queste caratteristiche anfore è riconducibile anche al mondo ebraico. L’indizio indiscutibile che fa protendere verso questa affermazione, consiste nel bollo con il sigillo della Menorah (il candelabro a sette bracci simbolo dell’ebraismo) contrassegnato nei manici. L’intuizione immediata e molto semplice è che tutto sia partito dalla produzione ebraica di vino Kasher, ad opera di ebrei osservanti che prestavano personale attenzione nella coltivazione della vite e nella lavorazione dell’uva prima ancora di avviare il processo di realizzazione di un vino “adatto” che non contraddicesse le rigide disposizioni alimentari del kasherut; poteva essere consumato nella vita domestica o nelle liturgie o ancora venduto nei mercati rivelandosi, in tal senso, un grande successo affaristico. Naturalmente, il vino reggino che era prodotto e venduto anche dai mercanti cristiani ha dato, dall’antichità al post-medioevo, vanto e lustro alla città in riva allo Stretto che cambia progressivamente nome (“Ρήγιον" in età greca; in neogreco "Ρήγιο"; "Rhegium" in epoca romana; coi saraceni diventa "Rivah"; ricordata anche in francese medievale come "Risa";"Ríjoles", in castigliano (spagnolo) medievale e rinascimentale come ricordano la "Primera Crónica General" (detta anche "Estoria de España") - testo redatto su iniziativa del re di Castiglia e León Alfonso X il Saggio (r.1252-1284) -, ma anche in "Los treinta libros de la monarquía eclesiástica" opera
del XVI secolo di Juan de Pineda; mentre in spagnolo moderno è semplice "Regio de Calabria"), ma non perde l’importanza commerciale, la quale, solo dopo i Borboni, inizia a scricchiolare fino a cedere completamente dopo l’Unità d’Italia (1861) che impoverì in modo drastico il Sud Italia. La vendita del vino prodotto a Reggio continua a perdurare anche in età spagnola, quando i rapporti economici Spagna-Sud Italia si intensificarono.
    Oggi l’Italia è il secondo produttore al mondo con 44,4 milioni di ettolitri prodotti e ha registrato un significativo e positivo fatturato di 14,6 miliardi di euro. Utilizzando e riadattando in un contesto diverso un’espressione di Gabriele D’Annunzio la nostra, in ambito enologico, è una “vittoria mutilata”, gioiamo a metà dato che siamo anche fanalino di coda nelle vendite online. Comunque sia, osservando il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto (analogia migliore di questa non potevo fare visto che di vini stiamo parlando), anche la Calabria sorride constatando il successo dell’anno in corso (2015) di sei etichette che negli ultimi anni tempi tengono alto il nome della regione in campo internazionale: il passito Collimarini 2013 dell’azienda Poderi Marini di San Demetrio Corone; il Moscato Passito di Saracena 2013 della Cantina Viola di Saracena; il rosso Magno Megonio 2012 delle Cantine Librandi di Cirò Marina; il Cirò Rosso Classico Superiore "Aris" 2011 della Cantina Arcuri di Cirò Marina; il rosso Magliocco 2010 della Cantina Lento di Lamezia Terme e il passito Mantonico 2010 della Cantina Ceratti di Bianco. Ad arricchire questa splendida cornice trionfale aggiungiamo anche il rosso Aris 2011 proveniente direttamente della Cantina di Sergio Arcuri di Cirò Marina, è entrato nella rosa dei 25 vini a cui Ais ha attribuito il premio speciale Tastevin.
    Purtroppo, in questa speciale classifica in cui svettano eccellenze note dai più esperti sommelier ed intenditori, oltre a quello di Bianco, non figurano, ahimè, altri vini della Provincia reggina. Perciò, mi permetto di sollevare nella mano destra un calice traboccante di vino facendo un caloroso brindisi ai lettori del presente articolo, augurando ogni bene, con la speranza che il vino reggino possa ritornare e, perché no, superare il livello dei suoi antichi fasti. Accompagno la frase benaugurante ad un saggio consiglio: data la brevità dell’esistenza umana, prodighiamoci a viverla nel miglior modo possibile, senza privarla dei piaceri, evitando però gli eccessi e mantenendo un giusto e corretto equilibrio. 
   Ricordava giustamente Benjamin Franklin: “Non si può vivere bene dove non si beve bene. Il vino rende più facile la vita di tutti i giorni, meno affrettata, con meno tensioni e più tolleranza. Chiedi consiglio al vino, ma poi togliti ogni dubbio con l’acqua”. Se ci abbandoniamo al piacere moderato del bere, non accontentiamoci però di vini qualunque: “La vita è troppo breve per bere vini mediocri” (Johann Wolfgang von Goethe). Prosit !!

mercoledì 25 marzo 2015

AI CALABRESI CHE GRIDANO AI NERI: “SPERIAMO CHE AFFONDI LA NAVE”…

di Bruno Demasi
  
   A tutti coloro che continuano a insultare i calciatori immigrati del Koa Bosco e si augurano ad alta voce che affondino i barconi che li trasportano in questo nostro inferno; a tutti coloro che continuano a tacere sul razzismo da quattro soldi e sulla barbarie in cui siamo precipitati; ai raggiri della politica grassa, addormentata e dimentica dell’educazione e della formazione dei nostri giovani abbandonati a sè stessi; ai silenzi della società cosiddetta civile e di  certa parte di Chiesa perse dietro le loro ritualità, i loro cavilli e i loro imbarazzi: VERGOGNIAMOCI!
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   L’ennesimo atto di violenza ai danni del Koa Bosco, la squadra di calcio formata interamente da immigrati africani, vestita appena qualche giorno fa dalle divise regalate dal CONI Calabria, voluta , seguita e nutrita del poco pane che riesce a racimolare da don Roberto Meduri, parroco al Bosco di Rosarno, è scoppiato al campo sportivo di Paravati in provincia di Vibo Valentia nel corso dell’incontro tra la Vigor, squadra locale, e il Koa stesso, per il campionato di terza categoria.
   Dal pubblico presente prima due o tre tifosi, poi un gruppo di una trentina di persone hanno iniziato a urlare in dialetto ai calciatori del Koa: “niri di merda”. “tornatavindi dundi venistivu”, “Dovevate affondare sui barconi” ed altre raffinate facezie del genere. I calciatori del Koa hanno reagito e uno di loro è stato espulso dal campo , il che ha determinato il passaggio repentino del pubblico alle vie di fatto: invasione di campo, sputi, insolenze urlate , botte indiscriminate e la sospensione della partita che l’arbitro ancora minorenne è riuscito a malapena a interrompere. Solo l’ intervento dei carabinieri ha potuto creare una palizzata intorno Koa Bosco in mezzo al campo mentre fuori dall’area di gioco aggrappati alle reti di recinzione, i tifosi urlavano ancora violenza, rabbia e anatemi di ogni genere significando che fino a quando quella squadra di negri non sarà tornata da dove è venuta li aspetta solo questo trattamento.
    Un episodio significativo, preceduto da altri analoghi avvenuti in passato, che scoraggia don Roberto, che, a sua volta, mentre guidava il pulmino sul quale era riuscito fortunosamente a caricare i suoi calciatori, è stato fatto oggetto anch’egli di insolenze di ogni genere( “portatilli a sti nighiri ) e che sta seriamente pensando al ritiro della squadra per la mancanza assoluta di condizioni minime di civiltà e il rischio elevato di violenze ancora più gravi.
    Stiamo lasciando sfiorire nel gelo assoluto la primavera del Bosco di Rosarno, un’isola poverissima di rara civiltà , di carità onesta e dignitosa, dove la Chiesa degli ultimi e la Parola di Dio si fanno miracolosamente carne giorno per giorno in mezzo alla palude che le circonda. In tutti i sensi!

domenica 22 marzo 2015

Sorsi d’Aspromonte: ‘A PUJARA (di Ciccio Epifanio e Bruno Demasi)


   Nell’antica sapienza aspromontana e oppidese , quando il calcolo del tempo, delle stagioni e della fatica era affidato alla precisione assoluta del meccanismo celeste, “A Pujara” - letteralmente la chioccia (‘A hjocca) col suo magnifico seguito di pulcini -  indicava  la costellazione delle Pleiadi, cui veniva attribuita non solo una valenza di calendario stagionale, ma anche una vera e propria funzione di orologio, quando gli orologi veri e propri erano solo appannaggi dei “signurini” e dei relativi campieri che vi calcolavano sempre ad abundantiam la fatica immane dei loro braccianti.
   D’inverno infatti la Pujara sorge  ad un’ora di notte ed è mezzanotte precisa quando la costellazione diventa esattamente perpendicolare sull’orizzonte. In estate, più precisamente nel mese di agosto, la Pujara sorge a mezzanotte (ora solare, s’intende) e tramonta dopo il sorgere dell’alba. Dalla fine dell’autunno invece, almeno dalla festa di Sant’Andrea (29 novembre) in poi, tramonta in concomitanza con il sorgere dell’alba.
   Quasi sempre il sorgere nel cielo e il tramonto della Pujara sono annunciati da “U tri bastuni”, l’agglomerato di tre stelle in riga della costellazione di Orione, che sorge e tramonta esattamente un’ora e mezza prima delle Pleiadi.
   Nei miti aspromontani mutuati dai Greci e nell’immaginario dei poveri, per significare il destino beffardo
dell’umanità sofferente, ‘A Pujara indicava non solo una generica immagine dell’Abbondanza, ma anche il favoloso tesoro costituito dalla chioccia e dalla sua ricca covata, tutte d’oro, che magicamente uscivano dalla loro tana inaccessibile scavata sotto contorte radici di enormi ulivi o di querce secolari e portavano la ricchezza senza fine o la morte al temerario che osava afferrarle dopo aver compiuto i canonici tredici giri dell’ albero gigantesco senza respirare.
   In questa magnifica ballata di Ciccio Epifanio tutta l'antica saggezza astronomica perduta viene fatta rivivere con  l'abituale rigore metrico rivisitando in modo commosso e struggente la leggenda antica e  la strada che conduce a Oppido attraverso Mazzanova. (Bruno Demasi)

‘A PUJARA


Amici e genti, se staciti all’erta,
vi cantu di la cerza e di la hjocca
cu la pujara tutta d’oru certa,
mu duna la furtuna a cu la tocca.


O musa tu chi leji li calendi
sciogghji lu bellu libru di li cunti,
e fai lu cantu forti mu si stendi
quandu lu ventu miscita li frundi.


O musa tu chi leji li calendi
sciogghji lu bellu libru di li cunti.


O’ chianu du Pileri ncè na cerza
chi di li campi la Madonna tocca,
e quandu agustu a la metati sterza
a puntu ‘ i menzanotti quandu hjacca



cu fa tridici giri di la cerza
e lu rihjiatu sapi mu s’attrassa
d’oru e smerardi di natura certa
nci nesci la pujara cu la hjocca.


Cu fa tridici giri di la cerza
Nci nesci la pujara cu la hjocca.


Si dici ca fu n’omu assai valenti,
cu sangu a l’occhi e cu lu cori forti
chi senza fari tanti cumprimenti
lu pattu vorzi fari cu la sorti.


Avia chiumputu già l’urtimu giru
la hjocca si mbasciava mu l’afferra
ma ntisi 'mpettu l’urtimu rispiru
catti cu l’occhi aperti e schina 'n terra.


Ma ntisi 'mpettu l’urtimu rispiru
catti cu l’occhi aperti e schina 'n terra.


Orioni caccijiava ja vicinu
e supra Mazzanova avia lu cani
si chiumpiu nda 'nu lampu lu distinu,
e chija notti no' pigghjiau domani.



Ma mentri si ciangìa la mala sorti
cantau lu cuccu supra a 'na livara
guardau li stiji di l’urtima notti,
‘n celu sprendia la hjocca e la pujara.


Guardau li stiji di l’urtima notti,
‘n celu sprendia la hjocca e la pujara.
                                                               (Ciccio Epifanio)