di Nino Greco
Un altro bel racconto rigorosamente tratto da un episodio della realtà romanzesca ricorrente nei piccoli paesi in tempi non molto lontani, immortalato dalla penna di Nino Greco in concomitanza con la presentazione del suo romanzo , LA TANA DEL FAJETTO, che avverrà sabato, 18 aprile, alle ore 10,30 nella sala episcopale a Oppido Mamertina e alle ore 17,30 nel Book Store Mondadori a Gioia Tauro (Parco commerciale Annunziata).
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Quelle piogge, dopo le calde giornate settembrine, spalancavano le porte alle fantasticherie e alle ricerche:il tempo dei funghi giungeva così, all’improvviso. Chi ne aveva da dire, narrava delle prime raccolte:
jancheji, caddarari, gajineja e cucuriti. Spesso era una gara a chi la scaricava più grossa, una spasmodica voglia comune di catapultarsi in coste e anfratti e dirupi di quelle montagne. Tantoché il paese sembrava vivesse sulle quintalate di funghi, tesori degli eldoradi aspromontani.
L’ incanto stava anche nell’udire i nomi che indicavano lacchi, valloni e piani :
l’acqua d’a fami, l’acqua d’abìtu, l’acqua d’u fagu, l’acqua d’a prena. Poi ancora
Mastrugianni, ‘u vaccarizziu, ‘a mamertina, ‘a cerasara, stranguluscia, petra cappa, petra cuccuma. Sentieri remoti, ma nelle descrizioni dei fungiari parevano semplici contrade, ‘llocate di leggendarie raccolte, percorsi impegnativi che dicevano dell’audacia e della conoscenza dei luoghi dei tanti che osavano come cercatori.
Cosicché s’incignava settembre e si andava avanti fino alle prime nevi, fino a quando la montagna non diveniva ostile. Tutti, o quasi, alla ricerca del fungo, spesso solo per il piacere di poter dire ho trovato “ una chilata”, oppure “trovai dduj mmorza”, e non restare indietro al cospetto dei tanti che a loro volta dicevano di pesate da meraviglia. Qualcuno buscava la giornata. Altri ammaccavano solo il tempo.
Tra i tanti sfaccendati risultavano anche: Don Ninì, Rroccuzzu e Don Cecè.
I tre amici tutti i santi giorni, dopo pranzo si ritrovavano in piazzetta e, utilizzando le proprie auto - a mano girando- s’inerpicavano fin lassù. Preferivano di pomeriggio, con calma. Le levatacce per il posto le lasciavano agli altri.Secondo le dottrine dei fungiari non era conveniente infatti andar a cercare funghi di pomeriggio, conveniva andare di mattina presto per accaparrarsi il posto migliore, ma loro – Don Ninì e gli altri – di questa teoria se ne fottevano. Andavano in montagna a panza china, spesso solo per fare vesperi con pane, pecorino e un buon litro “d’u patri d’a fezza”. Parcheggiavano al solito posto e cominciavano a setacciare luoghi meno impervi e agevolmente praticabili, poiché ormai, per tutti e tre, il primo pelo era già andato.
***
Fu un giorno, un po’ più tardi del solito, che Don Ninì arrivo in piazzetta e non vedendo né gli amici né le auto, bussò alla porta di Totò, uno dei tanti fratelli di Cecè.
-Totò, hai visto e dui sciancati !- chiese, inquieto, Don Ninì.
- Un quarto d’ora fa sono partiti per la montagna, ma tu non sei andato oggi? chiese Totò.
- Mi dovevano aspettare!- imprecò.
- Ho fatto tardi, ma loro potevano anche passare da casa per dirmelo! – stizzito.
- Chi prescia 'i mammina ‘ndavivanu’? - disse incazzato, immaginando che avrebbe dovuto trascorrere un pomeriggio in solitudine, senza merenda e senza la cugghjunella che cadenzava la loro frequentazione.
Don Ninì, da qualche anno in pensione, era un carrettaru di
prim’ordine; per l’attività di famiglia aveva dato incarico ai figli e
lui si destreggiava tra circolo operaio, funghi e piazzetta.
Rroccuzzu, pensionato, aveva per anni assistito, tra i meandri dell’analfabetismo, braccianti e operai con domande per la disoccupazione e avvii di pratiche per il pensionamento. Col suo lavoro, discreto e garbato, aveva, di fatto, aiutato quella comunità composta per lo più da povera gente. Ora si godeva quei pomeriggi con gli altri due compari di ventura.
Don Cecè, il più grande di otto fratelli, galantuomo di razza e persona onestissima, era stato meccanico e aveva avviato a Oppido la prima attività di noleggio auto con conducente. Amava però molto contare fatti e nelle sue narrazioni ritornava prepotente un periodo della sua vita in cui diceva, di essere stato carabiniere. Non si era mai appreso in che modo, ma si suppone avesse assolto il servizio militare come carabiniere volontario.
Quel periodo gli aveva segnato la vita e col suo fare offriva
aneddoti e fatti realmente capitati - lui diceva , ma i dubbi la
facevano da padrone - in cui appariva sempre sulla ribalta della scena
come unico e indomabile protagonista. Un genio del racconto e quando si
esaltava in modo particolare, difronte a spettatori attenti, non
lesinava fantasie per caricare, oltre ogni gloria, le sue gesta e, come
si dice, se si era al chiuso bisognava aprire le finestre per fare
uscire le balle.
Don Ninì non si rassegnò, mise in moto la sua macchina e si avviò. Sapeva come e dove raggiungerli, loro erano stanziali. Dopo la passeggiata tra i faggi era sufficiente avere a
disposizione un parapetto di cemento per poggiare sopra le vettovaglie
per lo spuntino. Voleva raggiungerli, anche quel giorno, per pasteggiare
con loro:che se ne importava dei funghi, a lui bastava il resto. Non
aveva digerito, però, di essere stato lasciato a Oppido, sta cosa lo
‘mpuzzunava un po’ e mentre si avvicinava ai “primi chiani”, pensò che
quel giorno doveva essere diverso dagli altri e che doveva far pagare
pegno per la mancanza di riguardo che avevano avuto nel non aspettarlo.
Arrivato poco prima dello spiazzo, dove abitualmente lasciavano l’auto, accostò la sua in maniera che non si notasse tanto, scese e s’incamminò nel fitto sottobosco cercando di non essere veduto. Non si sbagliò. Li avvistò intenti, a poca distanza l’uno dall’altro, a rovistare senza frenesia tra fogliame, arbusti e felci.
- Alto là chi va là !- Urlo Don Ninì, nascosto dietro al fusto di un faggio, storpiando la voce.
Loro si fermarono di botto, incrociarono gli sguardi meravigliati e buttarono l’occhio intorno, cercando di capire da dove potesse arrivare quell’intimazione.
-Non vi muovete siete circondati!- riprese Don Ninì- Buttate panieri e coltelli!- urlò ancora.
Sempre più sorpresi,i due eseguirono, gettarono per terra i panieri e i coltelli, e mentre lo facevano, scrutarono nella direzione da dove proveniva la voce.
- Non vi muovete e non vi girate! Siete sotto tiro! Un vostro gesto può costarvi caro!- perentorio nei toni e col piglio da comandante.
-Tenete le mani in alto!- continuò – Chi siete! Come vi chiamate! Da dove venite!
- Gioffrida Vincenzo, Oppido Mamertina, meccanico, autonoleggiatore in pensione ed ex carabiniere, sono molto amico del generale D’Ippolito - pronunciò con apprensione, cercando di essere convincente e esibendo una credenziale, secondo lui forte, e sempre con le mani in alto.
- Che sta dicendo!? Il generale è morto venti anni fa! A chi vuole imbrogliare!?- Don Ninì, minaccioso, non sapendo nemmeno chi fosse il generale D’Ippolito.
-Non sapevo fosse morto, scusatemi; con lui ci siamo conosciuti quando feci il giuramento da carabiniere- esclamò Don Cecè , timoroso.
- E lei chi è ?
- Camilleri Rocco, pensionato e responsabile della camera del lavoro di Oppido - rispose Rroccuzzu, non celando una forte emozione mista a paura, volendo, anch’egli, essere persuasivo.
Erano ormai fermi da alcuni minuti con le mani in alto tra i faggi e sotto il tiro di una voce, mentre intorno regnava il silenzio.
- E’ in corso un’operazione, molto pericolosa e non vogliamo testimoni, non vi dovete muovere né abbassare le mani, siete sotto tiro, anche se non ci vedete! Quando finirà tutto, potrete riprendere il vostro da fare!
- Agli ordini !- rispose Don Cecè, rispolverando l’intonazione da carabiniere.
- Fra mezz’ora tutto sarà finito, poi potrete lasciare questo posto! Non fatelo prima o rischiate di beccarvi qualche pallottola!-.
Mentre pronunciava queste parole, si udì il motore di un elicottero. Fu casuale, ma a Don Cecè e a Rroccuzzu apparve come la controprova di ciò che stava avvenendo intorno e sopra di loro.
Don Ninì, col volto soddisfatto e un sorriso da canaglia, come solo lui sapeva essere, scivolò in silenzio tra i faggi. Giunse dove era parcheggiata la sua auto, l’aprì mise in moto e partì per Oppido.
I due rimasero lì, fermi e muti. Tutt’intorno taceva né rumori né intimazioni.
L’elicottero si era fatto sentire ancora, ma poi era sparito, il manto del crepuscolo si stava già abbassando e la nigghjiata stava per cacciare gli ultimi residui di luce.
Ai due compari sovvenne quanto era accaduto un anno prima a due loro
compaesani, che, sorpresi dalla nebbia, calata repentinamente, persero i
riferimenti per recuperare la via del ritorno e si trovarono a vagare
per tutta la notte. Rischiarono di precipitare dal vallone a strapiombo
che si affaccia su Platì, ma la saggezza di aggrapparsi alla coda di una
vacca e poi di seguirla fu provvidenziale, sapevano bene che l’animale avrebbe evitato
dirupi e timpe. Furono trovati all’indomani dai carabinieri in forte
stato di confusionale.
Don Cecè abbassò lentamente un braccio, poi l’altro, nulla si udì. Si guardò intorno. Rroccuzzu lo seguì. Nonostante la voglia di fuggire dalla foschia, i loro movimenti furono lenti come a scandagliare se fosse possibile muoversi. Furono attenti e apprensivi; la voce li aveva abbandonati da almeno mezz’ ora e Don Ninì, ormai, era giunto a Oppido.
Ripresero i panieri e i coltelli, affrettarono i passi, non aprirono nemmeno la truscia col formaggio e il pane, entrarono in macchina e si avviarono.
Solo Cecè aprì bocca durante il viaggio. Si lanciò a narrare, come suo uso, sulle tecniche e le tattiche riguardanti le operazioni come quella vista - immaginata- poco prima. Raccontò, con i modi e i toni a lui più adatti, di alcune azioni dove -a suo dire- si distinse per valore e coraggio.
Furono a Oppido. La sera ormai aveva steso tutte le sue ombre più scure. Giunti davanti casa di Cecè, Rroccuzzu accosto, lo fece scendere, e si avvio verso la sua.
Don Ninì, però, era in agguato, nascosto dietro l’angolo del Bar
Centrale. Dopo aver visto scendere Don Cecè dalla macchina e infilarsi
dentro la sartoria, sveltamente si avviò con l’intento di raggiungerlo.
- Cecè! Oggi avete fatto le lepri! Mi avete lasciato qua! Che modi sono questi! Che begli amici ho! esordì col tono incazzato Don Ninì, irrompendo dentro la sartoria.
- Questa me la pagherete!
- Ninì ! assami stari! No sai chi ndi capitau ! aspetta ca ora …. ti cuntu!- Disse Don Cecè, con la mimica di chi aveva da scaricare notizie importanti.
- Meno male che non sei venuto! E che spaghetto ci siamo presi !- disse.
- Senti: nu battaglioni di carchi 500 carabinieri ! i menzi eranu a cavallo ! Camionetti fino all’acqua d’abitu! Cani lupi! Tuttu u battaglioni di cacciatori!– si fermò scuotendo la testa per dire meraviglia, riprese.
- Siamo stati circondati! Ci hanno perquisito e mentre uno stava per fare lo sbruffone, l’ho bloccato presentandomi come carabiniere e collega, lui si è messo sull’attenti perché conosceva anche lui il Generale D’Ippolito! Figurati che ancora loro sono là. Mi ha confidato il capitano che stavano conducendo un’operazione complicata. Cinque elicotteri atterravano e si alzavano d’i Chiani ‘i Juncu portandu rinforzi! Tutta la montagna ora è bloccata, cercano trenta latitanti, solo noi siamo riusciti a passare il posto di blocco, grazie al fatto che sono un ex carabiniere, ed eccomi qua! - fece uno sbuffo e si fermò…- vidi ca fu megghju ca non venisti!
Don Cecè si mostrò per come gli piaceva essere: se solo Don Ninì, nascosto dietro al faggio, avesse sparato un colpo con una scacciacani, la battaglia di Montecassino sarebbe stata poca cosa difronte alla sua smisurata e innocente fantasia.