sabato 24 dicembre 2022

LA NOVENA DEL NATALE IN OPPIDO MAMERTINA ( di Don Letterio Festa )

      Sulla tradizione forse  più sentita dovunque, ma in particolare nel mondo aspromontano, la novena di Natale, tanto si è scritto rievocandone sensazioni, suggestioni e immagini e sicuramente tanto  rimane da scrivere non solo per riscoprirne lati inediti, origini e folklore, ma soprattutto per studiarne significati vecchi e nuovi in un contesto di fede e di religiosità spesso indissolubilmente intrecciati.
    A questo proposito appare validissimo lo studio meticoloso e  a tutto tondo condotto da Don Letterio Festa sulla tradizione presente in Oppido Mamertina, culla di mille melodie pastorali e, in particolare, di quel prezioso capolavoro di suoni e di versi composto dall'avvocato Filippo Grillo, col titolo "Suonano mille campane" che ancora oggi dà tono, voce e sentimento a questa bella tradizione.
    La  rievocazione dei fasti antichi e moderni  di questa eredità antica sul filo delle (poche) memorie e delle (tante) sovrapposizioni pseudoculturali che nel tempo hanno tentato di sommergere la novena natalizia, con la sua struggente magia di canti e suoni e di pathos sempre fresco  è , a sua volta, un piccolo capolavoro di Don Letterio Festa che  ne fa con grande scrupolo storiografico e pedagogico occasione felice di riflessione sulla nostra identità popolare, ma specialmente sulla nostra identità cristiana, senza la quale ogni tradizione rischia di annacquarsi o di smarrirsi (Bruno Demasi)
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Introduzione


    Il“Direttorio su Pietà popolare e Liturgia”, preparato dalla Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti, afferma che: «la Novena del Natale ha svolto una funzione salutare e può continuare ancora a svolgerla»[1]. Essa riguarda il periodo che va dal 16 al 24 dicembre, sentito e vissuto del Popolo cristiano come un tempo di grazia, nel tempo di grazia dell’Avvento, per la preparazione spirituale dei fedeli alla Solennità del Natale del Signore.
    Già nella struttura della Liturgia “ufficiale” della Chiesa, esiste una particolare attenzione ai giorni dal 17 al 23 dicembre, caratterizzati dalla introduzione, nella Liturgia dei Vespri, delle così dette Antifone «O», così chiamate perché iniziano sempre con la particella «O»: «O Sapienza…, O Signore…, O Germoglio…, O Chiave di Davide…». Esse si fanno risalire, tradizionalmente, al Papa Gregorio Magno ma già nel IV secolo, in Gallia ed in Spagna, si celebrava un primitivo Avvento che cominciava proprio il 17 dicembre per culminare nella più antica festa natalizia dell’Epifania, a sua volta di origine orientale, il 6 gennaio.
     Le Antifone «O» esprimono, più che un’invocazione, l’ammirazione dei credenti davanti alla Grotta di Betlemme - «Admirantis est potius, quam vocantis» (Amalario di Metz) – e il loro testo è ispirato ai “sospiri” dei Profeti dell’Antico Testamento che desideravano ardentemente la venuta del Redentore. Tale ispirazione biblica si trasmetterà, poi, anche ai testi di origine popolare usati in ogni dove durante la Novena del Natale. Tra i diversi formulari prodotti per solennizzare questi giorni santi, ebbe particolare fortuna quello nato in ambito benedettino, redatto sui testi latini e cantato con melodia gregoriana, successivamente tradotto in italiano dai Benedettini di Subiaco negli anni Sessanta dello scorso secolo. 


Il Natale in Oppido Mamertina

   Come in tutti le Città ed i Paesi di Calabria, il Natale è da sempre, ad Oppido Mamertina, una delle festività dell’anno tra le più amate e attese. Un proverbio, diffuso in tutta la Piana, esprime la forza dell’attesa vissuta in preparazione alla festa e ricorda le tappe salienti che la precedono:

«Sant’Andria porta la nova
ca lu 6 è di Nicola,
a l’8 è di Maria,
a lu 13 è di Lucia,
a lu 25 di lu veru Missia!». 


   Il tempo festivo si apre, infatti, con la Novena dell’Immacolata di cui si venera, nella Cattedrale, un prezioso simulacro ligneo, custodito nell’omonima cappella posta alla sinistra dell’Altare maggiore. Quindi il 6 dicembre, nella popolare e vetusta chiesa dell’Abbazia, si celebra San Nicola, antico Patrono della Città, a cui erano dedicate, già nella vecchia Oppido, le due Parrocchie cittadine, per poi passare nella chiesa di San Giuseppe dove si conserva una bella immagine di Santa Lucia, la Vergine e Martire siracusana la cui memoria liturgica ricorre il 13 dicembre. 
 
   Il culmine delle festività natalizie si ha nella sera della Vigilia, vissuta come una festa di famiglia e conclusa con il solenne pontificale del Vescovo in Cattedrale. «Come nei tempi andati ancor oggi ad Oppido il Natale è la festa della famiglia: e dai paesi più lontani e perfino dalle Americhe, molti si recano in seno alla propria famiglia per la fausta ricorrenza. E spesso non v’è altro scopo del lungo viaggio, che quello di rivedere i congiunti e di sedere insieme a tavola la sera della Vigilia, fra la dolce commozione degli affetti famigliari. Nella Vigilia si mangia di magro ed il Cenone o il pranzo succulento di diciotto pietanze, in tutte le famiglie, viene imbandito di sera: zeppole e frittelle di ogni specie, pesce fritto e quanto di meglio offre la stagione e la borsa. Invece del tradizionale capitone, qui si fa molto uso del baccalà che si prepara in diverse maniere. In tutte le famiglie agiate si prepara il tradizionale cappone e si fa grande uso di torrone, di dolci, di vini e di liquori. Si gioca alle carte il “sette e mezzo” o alla tombola o alle nocciuole. E quando nella mezzanotte squilla la campana per la Messa, il popolo, conforme alle vecchie consuetudini, accorre numeroso in chiesa»[2]. Qui, ancora oggi come un tempo, il Vescovo «porta in processione il Santo Bambino fra canti, suoni, luci, spari, fiori e squilli di campane e di campanelli, per deporlo poi nella grotta del presepio»[3]. L’immagine del Bambinello, venerata nella Cattedrale oppidese, fu un dono di Mons. Giovanbattista Peruzzo, che resse la nostra Diocesi dal 1928 al 1932, e che lo fece giungere, «in fasce e in soffici trine»[4], da Castiglione dello Stiviere, il paese d’origine di San Luigi Gonzaga, nel Natale del 1929. La Messa di Natale era, inoltre, caratterizzata in Oppido, fino agli anni Trenta dello scorso secolo, da un altro caratteristico particolare: «Finito il Vangelo un piccolo alunno del nostro Venerabile Seminario ascendeva il pergamo, e con gli accesi ardori d’un vergine cuore, inneggiava all’infinito amore ed all’umiltà di un Dio che nasce Bambino»[5].

Il Natale in Oppido e la Musica

   La particolarità più originale del Natale oppidese è comunque il ruolo di primissimo piano che in esso ha da sempre avuto la Musica. Nell’Ottocento, i Canonici del Capitolo intonavano il «Dormi, dormi benigne Iesu»[6], accompagnati dalle voci argentine dei giovani Seminaristi. Altri canti avevano le parole del celebre Abate Giovanni Conia e la musica del Canonico Giuseppe Annunziato Muratore, compagno di studi di Bellini e Mercadante. 

   Ispirato dal dolce suono delle nenie natalizie del suo Paese, scriveva l’Abate Bruno Palaia, «vanto e decoro del Clero oppidese»[7], contemplando la mistica scena della Natività: «la Vergine fu rapita e volò incontro all’oggetto dei propri amori che avea vagheggiato da tutta l’eternità e l’abbracciò nell’estasi. “Madre”: “Figlio”. Due poemi; due amori; due dolcezze; due gaudii indicibili; due sinfonie; due gorgheggi. E il Padre guardava estasiato e lo Spirito agitava l’ali distese come colomba che volteggi e tubi sul nido e gli angeli suonarono e cantarono l’Alleluia del loro cuore vibrante»[8].
  Le stesse espressioni musicali risuonavano per bocca dell’allora giovane Canonico Giuseppe Pignataro: 

«La melodia vagò lenta ne l’aria
quale nube d’incenso:
splendeva la capanna solitaria
sotto l’azzurro immenso»[9]

   Mentre nella Cattedrale, per le solenni celebrazioni delle festività natalizie, la Schola cantorum e l’Orchestra eseguivano la «Pontificalis secunda» del Perosi e la «Pastorale» del Bost[10].
   Ma la più popolare ed amata espressione della festa è offerta, ieri come oggi, dalle chitarre, gli strumenti a fiato e le fisarmoniche del gruppo di Musicisti che anima il Natale in Oppido Mamertina e che ha la sua più caratteristica e bella manifestazione nei giorni della Novena.

Il testo della Novena 


   Questa pia pratica si svolge, da tempo immemorabile, nella chiesa Abbazia. La chiesa di San Nicola superiore o di San Nicola “extra moenia”, popolarmente detta “dell’Abbazia”, ha le sue origini nella vecchia Città di Oppido. Di questa chiesa e della Parrocchia annessa, abbiamo notizie documentate a partire dal tardo XVI secolo[11].
   Già il Vescovo Giuseppe Maria Perrimezzi aveva pubblicato, nel 1728, un imponente testo di preghiere e meditazioni di oltre 250 pagine, dal titolo «Sentimenti di divozione al Bambino Giesù»[12] ma per diversi decenni si seguì come testo di riferimento per la Novena di Natale quello edito da Mons. Antonio Maria Curcio nel 1893. Questa Novena, secondo il gusto del tempo, era costituita da cinque «affetti», alternati da cinque strofe in canto, e conclusa con un «santo proponimento»[13]. Negli anni Cinquanta dello scorso secolo, la Novena aveva inizio con la messa alle ore 5 del mattino. Dopo la Messa «celebrata in canto» con l’accompagnamento dell’Orchestrina, si esponeva il Santissimo Sacramento, si recitava la Preghiera a Gesù Bambino, si cantavano le Antifone maggiori e il “Magnificat” e si concludeva con la Benedizione eucaristica[14].
   Dopo il Concilio Vaticano II, l’Abate, Mons. Francesco Zappia, Parroco della Parrocchia di San Nicola, diede alla Novena l’impostazione attuale. A lui si deve, oltre che il riordino delle preghiere e dei canti, anche la rinascita della caratteristica ensmble di strumenti che, pur richiamandosi alla tradizione precedente, ha però aggiunto un tocco di novità negli arrangiamenti musicali e nell’atteggiamento dei musicisti, rinnovando positivamente il volto della caratteristica orchestrina. Ad essa, per questo motivo, è stato dato il simpatico nome di «The Bati’s Band».
   Ai nostri giorni, la Novena del Natale ha inizio, in Oppido, alle prime luci del mattino. Un grande fuoco viene acceso accanto ad un altrettanto grande ed artistico presepio, costruito lungo la facciata laterale esterna della chiesa, mentre il suono festoso delle campane accoglie i fedeli che numerosi si avviano per la celebrazione. Nel frattempo, già da un’ora prima, l’Orchestrina che animerà la messa ha percorso le vie del centro abitato, suonando le nenie e i canti tradizionali natalizi per invitare alla preghiera. Questa si apre con una monizione del Celebrante che introduce i fedeli nel tempo festivo e li esorta alla preghiera fervente. Seguono le strofe del canto «Vieni, o Signor, la terra in pianto geme» - di autore anonimo - diffuso in diverse Parrocchie d’Italia, al quale succedono tre strofe, tratte dagli «affetti» della Novena di Mons. Curcio, alternate dal canto «Abbiate pietà, Signore», anch’esso di autore ignoto allo stato attuale delle ricerche.

Le pastorali ed i canti del Natale oppidese 



   Per il resto, la celebrazione è allietata dall’alternarsi delle pastorali e dei canti tradizionali del Natale oppidese.
   In antico, le pastorali erano proprie del luogo e del tutto originali, spesso composte da anonimi autori locali. Alcuni canti furono composti dal Canonico Giuseppe Annunziato Muratore per quanto riguarda l’arrangiamento musicale, mentre le parole erano dell’Abate Giovanni Conia[15]. Successivamente, celebri furono le pastorali del Maestro Achille Longo (1832-1919)[16].
   Tra i tanti canti e le pastorali del Natale oppidese, sono presenti in questa nostra raccolta musicale, quelli più popolari ed ancora in uso. La pastorale «Piva all’antica» è del Maestro milanese Paolo Mauri (1885-1963), autore di numerosi brani di ispirazione sacra, mentre «Cornamusa popolare» è stata composta dal lodigiano Leandro Passagni, pseudonimo del Maestro Alessandro Pigna (1857-1928). Tra le composizioni più recenti, troviamo il canto «Suonano mille campane-Ninna nanna» dell’Avvocato oppidese Filippo Grillo (1911-1996). A Mons. Gaetano Cosentino (1924-2008), Rettore per diversi lustri del Seminario vescovile della nostra Città, si deve la pastorale «Campane di Natale» mentre il popolarissimo canto «Campane a festa» è stato composto da un varapodiese che a Oppido è stato per parecchi anni Maestro della banda locale, il Prof. Raffaele Monteleone (1911-1980). Le parole della nenia di Natale «Ceramejaru» sono di Don Silvio Albanese (1929-1976), parroco della Parrocchia oppidese del Calvario, mentre a Giacomo Tedeschi, nonno del più famoso Poeta tresilicese Geppo, si deve il canto «Dormi Bambino»[17] ed al seminarese Vincenzo Nostro, Maestro, nel 1907, di una delle tante Bande oppidesi, è dovuta un’armoniosa «Pastorale». Infine, è stata composta dal Maestro Stefano Scicchitano, pure lui oppidese e per diversi decenni direttore della Banda cittadina, la pastorale «Momento lieto».
   Allo stato attuale delle ricerche, non è stato possibile dare una paternità sicura ai brani «Motivo tradizionale» e «Notte di Natale». 
 

     I testi di questi brani musicali, redatti alcuni nel dialetto oppidese ed altri in lingua italiana, riprendono e sviluppano i temi cari alla devozione popolare del periodo natalizio, armonizzati e arrangiati con alcune caratteristiche del tutto originali e di grande impatto.
   Le così dette “pastorali” sono dei canti realizzati appositamente da autori con una certa esperienza musicale e che intendono trasmettere dei messaggi e dei contenuti teologici ben precisi e seguono lo schema musicale del 6/8 mentre il canto popolare fa uso di strumenti e ritmi tipici della cultura musicale calabrese, ottenuti con l’uso di organetto, zampogna, pipita e triangolo.
   La particolarità più evidente nella Novena oppidese è proprio quella degli strumenti musicali utilizzati per l’esecuzione dei brani al fine di armonizzare e arrangiare nel migliore dei modi questi brani. La caratteristica vera e propria è, infatti, data dal largo uso di strumenti a fiato quali i clarinetti; il sax tenore e contralto; il corno e la tromba, accompagnati dalle chitarre e dalle fisarmoniche.
  
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[1] Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, Direttorio su Pietà Popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 103.
[2] V. Frascà, Oppido Mamertina. Riassunto cronistorico, Tipografia “Dopolavoro”, Cittanova 1930, 205-206.
[3] Ivi.
[4] «Cronaca diocesana», in Bollettino ecclesiastico. Ufficiale per gli Atti vescovili della Diocesi di Oppido Mamertina, II (1930) 1, 15.
[5] «Oppido Mamertina. Le funzioni del natale», in La Calabria Cattolica, I (1883) 4, 11.
[6] Cfr. ivi.
[7] G. Marzano, Scrittori calabresi, Edizioni MIT, Corigliano Calabro 1960, 119.
[8] «Il Natale», in Albori. Rassegna quindicinale di vita e cultura calabrese, III (1927) 22-23, 1.
[9] Ivi, 2.
[10] Cfr. «Cronaca diocesana», in Bollettino ecclesiastico, 15.
[11] Cfr. R. Liberti, «L’Abbazia, seconda chiesa parrocchiale di Oppido», in Calabria sconosciuta, VIII (1985) 3, 91-94.
[12] Cfr. G. M. Perrimezzi, Sentimenti di devozione al Bambino Giesù, Regia Stamperia Fernandez-Maffei, Messina 1728.
[13] Cfr. A. M. Curcio, Preghiere ed atti di religione proposti alle chiese della sua Diocesi dal Vescovo di Oppido Monsignor Antonio Maria Curcio l’anno del Giubileo episcopale di S. S. Leone XIII, Stabilimento tipografico del Cav. A. Morano dell’Istituto Casanova, Napoli 1893.
[14] Archivio della Parrocchia di San Nicola Superiore in Oppido Mamertina, «Liber cronicon parrocchiale 1956-1959», 36.
[15] G. Pignataro, «Il Musicista Giuseppe Nunziato Muratori e i suoi parolieri e Giovanni Conia. Nova et vetera», in Historica, VI (1979) 3.
[16] Frascà, Oppido Mamertina, 206.
[17] Una canzone natalizia con lo stesso titolo si può trovare su Internet cantata dal tenore oppidese Pasquale Feis insieme ad una versione di “Tu scendi dalle stelle”, registrate per la Columbia a New York nel 1917 (Cfr. http://www.dailymotion.com/video/x3j7tjf “Dormi Bambino” e su https://www.youtube.com/watch?v=TKPckU3qGPs “Tu scendi dalle stelle”; ulteriori notizie in R. Liberti, «La musica a Oppido Mamertina vecchia e nuova», in Calabria sconosciuta, XXXIV (1011) 132.

domenica 18 dicembre 2022

LA FESTA EBRAICA DI HANNUKAH OGGI E NELL’ANTICA OPPIDO ( di Bruno Demasi)

   Inizia al tramonto di oggi , 18 dicembre, per il mondo ebraico, la festa irrinunciabile di Hannukah, detta anche Festa delle Luci, dell’anno 5783 ( 2022/2023 per il mondo e per la datazione cristiani). Una festa antichissima di sicuro celebrata anche nell’antica Oppidum o, per meglio dire nel suo mellah, dove, tra l’altro, viene documentata con ragionevole sicurezza la presenza di una giudecca ( plausibilmente con la propria sinagoga) (Cfr. : Rocco Liberti “Gli Ebrei nella piana di Terranova” in “L’alba della Piana”, settembre 2017, pp.24-26). 


   Hanukkah è una festività della durata di otto giorni che commemora la consacrazione di un altare nel Tempio di Gerusalemme dopo la ricostruzione  avvenuta in seguito alla vittoria del popolo ebraico, sui Seleucidi guidati dal re Antioco III , che aveva costretto gi Ebrei ad abiurare alla loro fede ed aveva profanato il sacro edificio destinandone una parte  ai riti di nuovi culti pagani. Dopo la riconquista, per purificare il luogo sacro, fu comandato di ripristinare l’Arca dell’Alleanza e di accendere per otto giorni di fila le luci della Menorah ( il candelabro a 7 bracci, simbolo di Israele) e per alimentarlo si cercò olio d’oliva puro. Secondo la tradizione però, la quantità di olio reperita non sarebbe bastata neanche per un giorno, ma, come per miracolo essa durò per tutti gli otto giorni previsti per i festeggiamenti, per i quali dunque si inaugurò un apposito nuovo candelabro ( La Channukiah) a 9 bracci (uno per ognuno degli otto giorni di festa, più uno centrale di servizio per l’accensione di tutti gli altri) . 
 
    La festività di Hanukkah, dopo quella che commemora il dono della Torah, è ritenuta unanimemente la più importante per la religione ebraica. Essa inizia il 25 del mese di Kislev e prosegue per 8 giorni concludendosi nel mese di Tevet (il 2 o 3 a seconda che Kislev duri 29 o 30 giorni). E’ dunque una festa mobile come per la Pasqua cristiana, cioè non ricorre ogni anno nei medesimi giorni, ma ricade, secondo il calendario ebraico luni-solare, in un giorno da calcolare tra la fine del nostro mese di novembre e quella di dicembre (coincidenti infatti grosso modo con i mesi di Kislev e Tevet).

   Una festa che anche nell’antico mellah -  il nome di derivazione araba dato alle giudecche poste rigorosamente al di fuori dei centri abitati più importanti -  di Oppidum e del circondario cui detta città faceva capo a partire dall’epoca tardo bizantina ( all’incirca la cosiddetta “Tourma” delle Saline) veniva celebrata dal mondo ebraico in maniera riservata, quasi familiare, con la puntualità e la precisione nell’osservanza dei precetti tipica da sempre del mondo ebraico, mentre nelle stesse settimane e a poche centinaia di metri più a monte, a S-E dallo stesso mellah, si celebravano gli splendori del Santo Natale nella cattedrale cattolica di Oppidum. 

   Ci si chiede come mai , al di là delle residue testimonioanze epigrafiche e onomastiche di cui parla il Liberti (Art. cit.) e di poche altre, non esistano  fonti documentarie più precise che ci riportino a un passato decisamente importante per queste balze aspromontane sulle quali il mondo ebraico ha intessuto con intelligenza le proprie attività innovative a livello artigianale, economico, medico e scientifico. Una domanda  quasi angosciosa alla quale potrebbe dare risposta in parte il decreto del luglio 1510  di Ferdinando II d’Aragona che, come aveva già fatto per la Sicilia 18 anni prima, espelleva brutalmente dalle Calabrie e da tutto il Regno gli Ebrei, molti dei quali, per sfuggire alle poersecuzioni, anche a Oppidum furono costretti ad abiurare alla loro fede e a convertirsi in modo coatto al Cattolicesimo, assumendo la denominazione più o meno spregiativa di “Marrani”. Tuttavia tale espulsione, sia pure violenta e burrascosa, non avrebbe cancellato completamente le tracce lasciate sicuramente dagli Ebrei nel loro fiorente mellah se non fossero intervenuti nei secoli successivi, e a più riprese, terremoti di consistente potenza che hanno via via squassato il territorio oscurando le vestigia non soltanto dei culti e delle attività ebraiche, ma anche delle precedenti civiltà che avevano lasciato sicure tracce in quello stesso luogo.

   Sic transit gloria mundi! Ma anche la memoria più povera e scarna può restituirci  rinnovati motivi di orgoglio  e di commozione.

domenica 11 dicembre 2022

DBE: UNA CASA EDITRICE ANTICA E NUOVA PER L’ASPROMONTE E IL MEDITERRANEO (di Bruno Demasi)


   Risale al 1977 la fondazione della Casa Editrice Barbaro a Oppido Mamertina, nel cuore di un Aspromonte molto misero ed esposto più che mai alle cronache nazionali e anche internazionali quale presunto  ricettacolo di estorsori e di sequestratori di persone. Un marchio doloroso, forse indelebile, sicuramente ingiusto, come ingiusta è ogni generalizzazione , nel Bene e ne Male. 

   Che tale etichetta negativa, più che prendere atto di una situazione complessa di assenza (spesso voluta) dello Stato, servisse soltanto a tenere il calcagno della Penisola sulla testa (comunque durissima) degli abitanti dell’Aspromonte riuscirono a dimostrarlo indirettamente una manciata di piccoli o piccolissimi imprenditori che, malgrado tutto, malgrado le ristrettezze dei tempi (specialmernte a livello economico, morale e di legalità) si lanciarono con coraggio in avventure aziendali che con alterne fortune diedero, per la loro parte, lustro a questo territorio.

    Tra tutti mi piace ricordare Domenico Barbaro, Gioiese di nascita, Oppidese di adozione che covava dentro di sé il sogno dell’emancipazione di questa terra - dipendente, allora come oggi, in tutto e per tutto dai beni e dai servizi forniti dal Nord - attraverso un nuovo ed inedito slancio produttivo che non solo avrebbe potuto affrancarci dal giogo economico imposto dalle aziende settentrionali, ma anche dalla lievitazione quotidiana dei prezzi che a quell’epoca – imperante una lira debolissima e stracciata – continuava a creare solo povertà dopo un fantomatico boom economico registrato ad arte dalle cronache del ventennio precedente  e che  non si era sognato neanche di sfiorare queste contrade abbandonate a sé stesse.

   Domenico Barbaro aveva creato proprio in quegli anni in quel di Gioia Tauro, ancora emporio ed epicentro commerciale di tutta la Piana omonima, un’azienda tipografica modernamente concepita non solo per l’uso di tecnologie di avanguardia che consentivano un abbattimento dei prezzi di produzione, ma anche la creazione di un ricco catalogo di stampati ad uso della pubblica amministrazione da sempre dipendente, per questa come per altre materie, da alcune grosse e rinomate società tipografiche del Nord che fagocitavano ingenti risorse del nostro territorio. L’impresa funzionava bene, ma non soddisfaceva in pieno le mire più lungimiranti di Domernico Barbaro che, dopo una serie di discussioni e valutazioni con alcuni amici di cui si fidava, si buttò anima e corpo, in concomitanza con la conclusione di un preesistente suo rapporto di lavoro dipendente, con quella che divenne subito la sua nuova ragione di vita: un’impresa nell’impresa: una casa editrice mamertina, tutta aspromontana, tutta calabrese. 
 

   Nacquero così le Edizioni Barbaro e con esse rividero la luce molte opere di autori calabrersi ormai gravemente dimenticate che, insieme ad alcuni studi storici inediti sul Mezzogiorno e sulla “Questione Meridionale”, iniziarono una rapida opera di divulgaziione di cui – credo – possano ancora oggi essere tesimoni decine e decine di biblioteche scolastiche, e non solo della Piana di Gioia Tauro, che facevano a gara per dotarsi di un materale editoriale divenuto presto prezioso e introvabile anche per le tirature forzatamente limitate. Il catalogo editoriale divenne presto ricercato e selettivo e vari scrittori e studiosi di sicuro spessore cominciarono a collaborare e aa garantirne la qualità , la versatilità, il taglio meridionalistico.

  Piace ricordare a questo proposito (cito quasi a memoria) Pasquino Crupi, autore di una pietra miliare nello studio dell’emigrazione calabrese (“La Tonnellata umana”); Rocco Liberti, autore di “Cina chiama Calabria” ( uno studio che fece conoscere molto da vicino la figura egregia del missionario oppidese Filippo Antonio Grillo, esempio insuperato di abnegazione nella Cina del XIX secolo);  Ettore Capialbi e Francesco Pititto, curatori dell’ancora oggi fondamentale collana bimestrale dell’ “Archivio storico per la Calabria”; Carlo Carlino, curatore della fortunatissima piccola antologia di cose di Calabria dal titolo “Re, poeti e contadini”; Beniamino Giovanni Mustica che diede alle stampe un’intrigante e inedita ricerca dal taglio ironicamente antiunitario “Chi fermò il treno di Ferdinando?”; Carlo Guarna Logoteta, autore di una poderosa Storia di Reggio Calabria; Nicola De Meo; Attilio Piccolo, Isabella Lo Schiavo e tantissimi altri che illustrarono con sincera passione storica lo stato degli studi calabresi in quello scorcio problematico eppure vivissimo che era l’ultimo quarto del secolo scorso.

   Domenico Barbaro non riuscì a cogliere i frutti di una semina così abbondante e intelligente a causa di un’incipiente malattia che lo avrebbbe portato prematuramente alla fine e che lo costrinse presto a cedere, suo malgrado, la sua avviatissima attività editoriale alla deliese Caterina Di Pietro, la quale, coadiuvata dal marito Raffaele Leuzzi, appassionato di storia e storie locali, continuò l’attività editoriale di Domenico Barbaro per oltre due decenni con merito e sacrificio.

   E’ tuttavia di oggi la commovente novità che vede ritornare alla famiglia Barbaro, sotto i migliori auspici possibili, l’attività editoriale, ripresa con rinnovata passione dal figlio Remo, sapiente estimatore dell’arte editoriale e continuatore per vocazione dell’ambiziosa missione paterna. Con il nuovo marchio “DBE”( Domenico Barbaro Editore) egli infatti non solo esprime un atto di omaggio alla figura del fondatore, ma vuole anche fare riferimento a un serio e moderno progetto di rivisitazione e di rilancio non solo della cultura aspromontana , ma di quella calabrese nel suo insieme, proiettata verso un orizzonte decisamente mediterraneo


   I primi titoli che nella nuova gestione la casa editrice ha messo in catalogo sono infatti molto eloquenti: si va dalla ristampa anastatica di “Antonello capobrigante calabrese”, il dramma con cui Vincenzo Padula , sullo sfondo della spedizione garibaldina, tratteggia in modo monumentale i caratteri storici e culturali di una Calabria già irta di contraddizioni, per arrivare all’”Abbate Gioacchino” di Felice Tocco, una pietra miliare poco conosciuta negli studi su Gioacchino da Fiore nonchè sulle idee e i movimenti ereticali nella cui impietosa e profonda vivisezione l’autore è un’indiscussa autorità. Ad essi si affianca la struggente raccolta delle "Leggende del mare" di Maria Savi Lopez e il non meno raro "Del furore d'aver libri" di Gaetano Volpi.
 
 
   Scelte editoriali emblematiche, non facili, ma proprio per questo eloquenti, pagine irrinunciabili che mancano sicuramente in tantissime biblioteche e che coniugano in modo chiaro l’antico e rinascente amore per la terra di Calabria con lo sguardo proiettato verso un contesto meridionalistico più ampio attraverso due studi riproposti quasi subito, e non a caso, dalla rinnovata casa editrice: uno sulle tradizioni sarde (Stanis Manca: “Sardegna leggendaria”- 1910) e un Dizionario Sintetico aggiornato sulla “Simbologia medioevale”, curato meticolosamente da Gonario Rauc. Ad essi si affianca imperiosamente la pubblicazione di un intrigante quanto inedito ritratto della complessa figura di “Eleonora d’Arborea – Regina guerriera, giurista illuminata e donna…” tracciato sapientemente da Donatella Pau Lewis su binari di analisi poco conformistici che ne rendono le pagine avvincenti e dense di sorprese: ne scaturisce la figura di una donna del passato antesignana di mille battaglie politiche che hanno come teatro proprio il mondo mediterraneo con tutte le sue aspre contraddizioni.

    La storia delle Edizioni Barbaro, oggi DBE, che inorgoglisce l’originario contesto aspromontano in cui ha visto la luce ormai quasi mezzo secolo fa, è dunque ripartita come meglio non avrebbe potuto e, se queste sono le premesse, sicuramente farà ancora parlare molto e per molto tempo di sé.