venerdì 28 aprile 2023

Memoires 3: OPPIDO MAMERTINA AL TEMPO DEI MITI E DELLE ESALTAZIONI (di Rocco Liberti)

Leggendo con l’abituale interesse e con attenzione sempre spontanea questa nuova e succosa pagina inedita di Rocco Liberti, e in particolare la sua ironica conclusione, viene in mente la famosa e amara osservazione di Winston Churchill, allorquando, al termine della guerra, affermava: ”Bizzarro popolo gli Italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti…" . In effett il popolo oppidese sembra non sia affatto sfuggito alla regola generale che vide sia al Nord che al Sud un’adesione massiccia alla propaganda e ai miti del Ventennio . Ed altrettanto massiccia e generalizzata nel giro solo di alcuni giorni dopo il crollo del regime fu la corsa ad indossare con disinvoltura una nuova casacca o a cercare affannosamtente di indossarla. L’Autore con ricordi e riflessioni di prima mano e in modo disincantato e lieve ci riporta in prima persona in quel clima oppidese arruffato e mutevolissimo in cui ci sembra quasi  di esser vissuti anche noi. Gliene siamo ancora una volta grati.(Bruno Demasi)

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    Pure il Fascismo ha fatto la sua parte in Oppido, checché se ne dica. Non tutto era prepotenza. Non tutto era autoritarismo. C’erano sicuramente, ma, dopo il logico assestamento, la vita sembrava scorrere naturalmente e la cittadinanza partecipava entusiasticamente e senza forzatura alle manifestazioni che si svolgevano di rimpetto al monumento dei caduti. Masse di lupetti, balilla, avanguardisti, piccole e giovani italiane, semplici cittadini coprivano le due grandi piazze. Attorno a queste non mancavano persone che mugugnavano e dicevano la loro, come il cosiddetto avvocato B., avvocato in quanto perorante presso la Conciliazione, peraltro ex-insegnante che, vinta una causa avverso il direttore didattico Francesco De Cristo, ma trasferito in un centro della fascia ionica, aveva preferito ritirarsi a vita privata o il ciabattino mastro Carmelo G., ma se ne rimanevano in disparte e niuno se ne curava. Alquanto ripetitive le loro diuturne discussioni con mia madre circa il modo di giudicare la situazione politica. Certo, il mondo si percepiva ormai sotto quella luce! Le cose di questo mondo! Caduto Mussolini e morto il fascismo, mastro Carmelo ha finito col difendere il Duce e il regime.

Mi si è rivelato illuminante un episodio accaduto parecchio tempo dopo per capire che tanti che apparivano i “padroni del creato” in fin dei conti si montavano la testa con l’avallo del sistema. Anche la gente bene non difettava dall’atteggiarsi in stile autoritario, ma i comportamenti si qualificavano tutt’altri. Negli aa. 60 mi trovavo all’ufficio postale di Tresilico con Tito Demaria. Questi, celiando ha apostrofato un tizio quale “Comandante”. Trattandosi di un anziano piuttosto dimesso e umile, per curiosità ne ho chiesto poi informazione. Da trasecolare! Era nientemeno mastro M., che in periodo fascista in uniforme, ostentando un vistoso berretto col fez e con in mano un frustino, era il terrore di noi ragazzi specialmente quando suonava la sirena per dare l’allarme. Ordinava imperterrito di metterci obbligatoriamente pancia a terra. Al che, stupito, mi sono espresso prendendo a prestito la frase che la pucciniana Tosca rivolge all’indirizzo di Scarpia appena ucciso: Davanti a lui tremava tutta Roma! Evidentemente, erano in molti a recitare! 


    Bando a deplorevoli atteggiamenti, c’era pure l’Opera Balilla poi GIL ad accogliere e guidare, anche se con una precisa intenzione, in educazione, istruzione e perché no anche divertimento la gioventù. A capo si offeriva la cosiddetta signorina della GIL, una M., che non vedevamo di buon’occhio sia per l’aspetto ritenuto arcigno che per il comportamento, ma crollato il fascismo ha mantenuto altra condotta ed è stata considerata in modo differente. Erano i tempi! Mannaggia i tempi! Le divise purtroppo irreggimentano l’uomo. Nei locali appositamente adibiti, alcune case popolari nuove di zecca sulla via Rocco de Zerbi e accosto alla piazzetta Mamerto, le distrazioni vi  erano presenti. Rimembro appena qualche adunata, come si diceva e che vi operava un proiettore cinematografico che ammanniva i soliti filmetti comici. Non erano bastanti le sedie per tutti e sovente dovevamo rimanercene accovacciati sul pavimento.
 
    Mi è rimasta impressa una circostanza. A un momento sullo schermo compare un “donnone” e subito esplode un gridìo fragoroso e unanime: “’a Pappalarda”! Da qui risa e strepiti che non smettevano più. Chi era ‘a Pappalarda? Una signora gigantesca e dalle forme sproporzionate di origine napoletana col cognome ridotto al femminile che a Oppido professava l’impegno di levatrice (nel luogo era la prima diplomata a esercitarla. In antecedenza erano impiegate le cosiddette mammane o levatrici empiriche. L’ultima, donna Concettina Morabito, pur essendo anziana a tal ragione era stata spostata dal Comune con incarico di operare a Piminoro). Abitava nelle vicinanze e somigliava in tutto e per tutto all’attrice apparsa sullo schermo. I ragazzi sono birboni! 

   Ulteriore reminiscenza attiene a una divisa da balilla, che mia madre (mio padre era militare in quel di Vibo Valentia che ancora da tutti si nomava Monteleone) non è riuscita a ottenere perchè non ce n’erano a sufficienza, anche se si consegnavano dietro pagamento. O i pianti che ho fatto quando ho visto i miei compagni che se ne pavoneggiavano! Pure se nel Ventennio il denaro non abbondava i genitori volevano che i loro figli portassero la loro brava divisa come tutti gli altri. La divisa si appalesava qualcosa di notevole effetto. Che farci! Era la moda! Alla GIL si riproponeva annualmente la celebrazione di una Befana fascista, nella cui occasione si distribuivano doni ai più piccoli. Il disegno sul fondo, che rappresenta l’Italia che saluta Mussolini era di Domenico Mazzullo. Questi è stato contrario al Regime, ma bisognava pur mantenere una famiglia! Va da se che il dipinto è sparito in un battibaleno, scrostato o celato sotto uno strato di vernice. Sovrastava la paura per il futuro! Per timore dell’arrivo dei nemici a casa mia i bauli con la biancheria unitamente alle fotografie sono stati allogati in un sotterraneo e questo lo si è ricoperto fino al colmo con terriccio e sabbia. Ma non era sufficiente. Nelle foto interrate sono stati prima ingenuamente occultati con inchiostro i segni che denotavano presenza di fascismo, persino le mostrine delle divise militari. 

A pace fatta ogni cosa è ritornata al suo posto. A proposito di Mazzullo soccorre un’amena vicenda. Finita la guerra sono risorti i partiti. A Oppido si andava costituendo, tra gli altri, quello socialista. Gli adepti erano convocati nella sede di corso Vittorio Emanuele, propriamente, guarda caso, dove ora risiede la famiglia Mazzullo e si stava per avviare la discussione quando quegli, avvistato che tra i caporioni c’era un fascistone, se n’è immediatamente involato borbottando: non si può essere più nemmeno socialisti! L’Italia non per nulla si è configurata la patria del Girella immortalato dal Giusti. Era ormai maturato il tempo di un mutamento di casacca.

 

Rocco Liberti

martedì 18 aprile 2023

Memoires 2: OSPEDALE ED ENTI MORALI NELLA NUOVA OPPIDO (di Rocco Liberti)

    Su quello che fu un vero e proprio faro di civiltà solidale per l’intera Piana di Gioia Tauro ecco un’ altra ricchissima pagina inedita di Rocco Liberti, sicuramente irrinunciabile dopo quella dedicata al Salone della Cattedrale di Oppido. Ancora una volta il rigore del racconto storico, senza alcuna approssimazione, è coniugato sapientemente con echi, suggestioni e ricordi personali che ne arricchiscono e vivificano il contenuto. Un altro regalo di grande pregio dello Storico e Scrittore non solo alla sua città, ma all’intero contesto aspromontano, per tanto tempo dileggiato e disprezzato dai media nazionali, per tanto tempo invece baluardo esemplare di civiltà e di socialità contro la barbarie generalizzata. Strutture a quei tempi quasi impensabili, come l’ospedale, gli enti di accoglienza per piccoli, orfani e anziani, il seminario, continuavano a perseguire nei secoli XIX e XX nella rinata Città Mamertina la strada della civiltà faticosamente e testardamente aperta dagli avi della città distrutta dal terremoto del 1783 e, nel medesimo tempo, additavano, almeno all’intero territorio della Calabria meridionale, quella via del progresso che purtroppo presto è stata smarrita, come sembra voler sottintedere con amarezza Rocco Liberti, cui va la corale gratitudine per questi ricordi ed esempi che non dobbiamo assolutamente smarrire ( Bruno Demasi) 

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    Nella Oppido ricca di popolo e strutture sociali nel XIX secolo non c’era soltanto il Seminario a istruire ed educare la popolazione. Ci avevano pensato per tempo persone di alto sentire che, con le loro idee e propri beni avevano dato vita a tanti percorsi. Del resto, la città rinata al piano della Tuba si trascinava dietro l’eco delle istituzioni del passato, tre conventi di frati e uno di suore, l’Accademia Mariana del Perrimezzi, l’ospitale di Santa Caterina, il monte di pietà e quello frumentario voluto dal Mandarani, il monte dei giovani avviato da Lorenzo Amato Grillo Caracciolo a pro della gioventù studiosa e probabilmente di altre, delle quali non si è tramandata traccia documentale.

   Il patrimonio dell’ospitale della vecchia Oppido è pervenuto perlopiù intatto dopo il grande flagello, ma un ospedale vero e proprio è stato costituito nel 1848 con quanto ottenuto dal lascito del gentiluomo con interessi a Oppido Antonio Mazzitelli per accorta iniziativa del vescovo Coppola.

   I Mazzitelli, almeno con Riccardo, abitavano nella loro villetta di Corso Luigi Razza. Ma in successione vi hanno contribuito degli oppidesi con importanti offerte: Francesco Gullace, Isabella Taccone, Francesco Liberti, Candido Zerbi, Filippo Fasano, Annunziata Carlino, Giuseppe Esposito Gullace e Salvatore Albano. Nel nosocomio, con attività di cura vera e propria avviata nel 1870, si sono alternati clinici di rilievo. Nel Novecento tra tutta una sfilza si sono distinti Laghi, Casella, De Donato, Santa Cruz, Lucente, Mazzeo, Lanucara. La prima sede si avvisa quella dove poi è stato installato il laboratorio analisi, di fronte all’ex-Padiglione Albenga, l’ospedale baraccato donatoci dopo il sisma del 1908 da quella città ligure. L’edificio odierno è stato costruito negli a. 30 per interessamento dell’avv. Salvatore Pastore, che ne ha perorato la causa direttamente col ministro Luigi Razza. Ecco il motivo dell’intitolazione al suo nome dell’arteria viaria principale. Durante la guerra nel dismesso locale hanno funzionato alcune classi della scuola elementare, le IV e le V. Nel 1941-42 in IV c’ero anch’io e il maestro era Francescantonio Meligrana, nell’altra insegnava Saverio Lentini. Nell’ultimo scorcio sono arrivati i soldati feriti evacuati dall’ospedale reggino della Croce Rossa soggetto a possibili bombardamenti. La stessa presidente dell’Ente, contessa Evelina Gioffrè Plutino è venuta ad abitare a Oppido, nel palazzo che fa angolo tra via Coppola e via Annunziata già di proprietà dei sacerdoti Vorluni. Io, pur essendo piccolo, mi sono recato sovente a visitare i militari degenti dato che una mia zia con altre amiche di Azione Cattolica andavano in giro a raccogliere presso le famiglie oppidesi ciò ch’era possibile per assicurare loro il pasto in un crudo frangente nel quale la fame si tagliava a fette. In cucina erano impegnate le suore di carità e il profumino, che avevamo di certo scordato, delle sostanze messe a cuocere ce ne faceva rammentare. Mi è rimasta memoria soprattutto dell’odore di carne bollita. Sicuramente i militari avevano bisogno in primo piano di un buon brodino. 

    Anche per l’Asilo Infantile gli Oppidesi sono debitori a un vescovo, Antonio Maria Curcio e ad un sacerdote, Domenico Marino Zuco. Originato nel 1895 e sistemato in uno stabile appositamente acquistato, era guidato dalle Suore di Carità. Affidato all’ECA, ha chiuso i battenti negli aa. 60 del trascorso secolo, quando, eretta una scuola materna statale, è stato soppiantato da quest’ultima. L’Asilo è riuscito un ottimo veicolo d’istruzione ed educazione per gli Oppidesi. Di tante suore che si sono succedute ne ricordo particolarmente una, Suor Albina, che ha agito lungamente. Anch’io quasi in sullo scadere degli a. 30 ho frequentato l’istituto e ho ben impresse memorie sulla disposizione delle stanze, del cortile e del teatrino dove si offrivano recite per la cittadinanza ed autorità varie che accorrevano con dovere e piacere.

    Ho due vividi ricordi. Un primo riguarda la mia partecipazione a una rappresentazione. Essendo timidissimo, non ne volevo sapere di recitare la parte assegnatami, ma ho dovuto soccombere e non so come sia stato accolto. In un’altra occasione davvero più eclatante sono letteralmente fuggito dall’asilo e me ne sono andato in diretta al mio domicilio attraversando ben tre piazze e un lungo corso. Allora abitavo nella casa di piazza Mamerto oggi Albano. Cos’era successo?
 

   Non sopportavo per niente l’odore che emanavano le fave bollite e all’asilo se ne davano spesso. Il disgusto superava ogni limite, tanto da farmi stare male, per cui, eludendo la sorveglianza, a un bel momento mi son fatto coraggio e ho preso la via di casa. Immaginarsi i miei familiari quando mi hanno visto arrivare non so se baldanzosamente o mogio mogio. Fatto sta che d’allora il controllo si è più che raddoppiato. Nei locali dell’asilo, debitamente riadattati, oggi funzionano l’istituto per il sostentamento del clero e, almeno di nome, altri uffici. 

    L’Orfanotrofio delle fanciulle, così detto inizialmente, in seguito Orfanotrofio Femminile, è nato da un testamento del 1904 della nobildonna Maria Anna Germanò detta “‘a figghiola” altresì in età matura per via che il suo comportamento era quello di una bambina. Allogato nel palazzo avito, appresso ha usufruito di altro più capiente e moderno unito allo stesso. Negli accoglienti locali hanno presto trovato ricetto e conforto ragazze orfane di un genitore viventi nel territorio comunale. Le Suore di Carità, che vi erano proposte, impartivano loro una buona istruzione e le ammaestravano per come potevano nelle indispensabili arti muliebri, come cucito, ricamo ecc. Ce n’erano in buon numero e spesso venivano condotte a passeggio attraverso il paese. Il percorso era sempre identico. 

   Se ne partivano dalla via Seminario oggi Germanò e scendevano lungo la via Curcio. Ce ne accorgevamo quando attraversavano la strada accosto alla piazza col Monumento ai Caduti. Allorché la gente avvertiva il loro passaggio serpeggiava tra gli astanti quasi un senso di pietà per la perdita di uno dei genitori di ognuna di loro. A quei grami tempi, quando a portare soldi a casa era a malapena uno dei coniugi, l’accoglienza in Orfanotrofio di una delle figlie sollevava la famiglia da un grave peso. Alquanta tristezza ti coglieva quando osservavi il loro vestiario. Si trattava di una divisa non certo fine e tutta d’un colore che offriva poco all’immaginazione. L’istituto ha avuto vita fino a che ci sono state orfanelle da accogliere e sostanze per mantenerle. Negli anni ’60 l’ente ha terminato il suo iter e al suo posto, dopo un breve passaggio con un’associazione reggina, è nato l’Ente Morale Famiglia Germanò, che, avvalendosi anche di quanto devoluto dal giudice Antonino Pignataro, ha ristrutturato il vecchio edificio e costruito altro più capiente di carattere sanitario.

   Se le orfanelle al loro passare destavano un che di mestizia, non era così per i “previtoccioli”, che vedevi transitare sul medesimo tragitto. Chi erano i previtoccioli, che spregevolmente certe volte denominavamo con un brutto termine facilmente accostabile per il suono? Erano i seminaristi, gli allievi del Seminario, quindi i “piccoli preti”. Era uno spettacolo veramente piuttosto lugubre. Infagottati nelle loro lunghe zimarre ostentanti una pendente fascia nera e con un largo cappello calcato sul capo detto romano o saturno richiamavano subito la ragazzaglia che si trovava nei paraggi e il grido “passanu i previtoccioli” era di prammatica. Indossavano una divisa che non si attagliava in nessun modo a dei bambini. Tanto vero che quando è arrivato dall’Alta Italia il vescovo Raspini, una delle prime operazioni a cui ha provveduto è stata quella di eliminare le zimarre con l’appariscente cappello e sostituirle con dei vestitini di colore non esageratamente scuro e dei baschetti per il capo. Perché tante famiglie inviavano i figli al Seminario? Alcune certamente con la volontà di avere un giorno un figlio prete, ma altre per pura necessità non essendovi in loco scuole di grado superiore.

    Una specie di scuola media, con l’egida dell’Enims è stata istituita in pieno periodo bellico, nel 1942 e i corsi si dispiegavano nell’immobile dove in estate operava la Colonia Italo-Balbo (oggi parte della costruzione, variamente mutata, è abitata dalla famiglia Freno, altra ospita un ambulatorio dell’ASL). Terminato il conflitto bellico è subentrata la Scuola Media Statale. Nel 1945-46 anche questa, che dipendeva da Palmi, è stata soppressa e per un anno ognuno si è cercata una diversa opportunità. Pochi, come me finito a Taurianova, sono andati in altri paesi, ma i più sono stati accolti in Seminario, dove sono stati istituiti regolari corsi. Diciamo che quello è stato un anno scolastico da dimenticare e non andiamo oltre! Abbiamo dovuto quasi tutti ripetere l’anno. Dei docenti della scuola media alcuni risultavano residenti in Oppido e appena laureati, come Sara Pignataro, altri non lo erano (Gerardo Carbone) e altri ancora provenivano da istituti eterogenei come l’Avviamento Agrario (Achille Menghi). Il prof. Macrì arrivava da Varapodio. Non c’erano libri di sorta. Chi aveva famiglia abbiente ne recava qualcuno sottratto a un antico canterano, ma per la maggior parte il contenuto delle materie, che poi dovevamo studiare a casa, ci veniva dettato giornalmente. Bisogna aggiungere che all’epoca pure i quaderni scarseggiavano e gli appunti si prendevano spesso e volentieri su altro tipo di taccuino.

   Per i poveri e vecchi abbandonati è intervenuta con personali sostanze altra nobildonna, d. Beatrice Grillo, deceduta nel 1930, che ha fondato un Mendicicomio sul lato nord della via Curcio, esattamente sul luogo dove sorgono le case di De Pasquale e Scattarreggia e la strada che da via Curcio s’immette sul Corso Aspromonte. All’epoca quest’ultima arteria era nella mente di Dio perché all’intorno era campagna e c’era solo un vicolo che portava sulla strada che immette al fiume Rosso. Che è che non è, l’istituzione è finita rapidamente in malora, si dice per colpa di amministratori non troppo ligi o maldestri e il tutto, stante la rinuncia del vescovo che n’era amministratore e che si era ormai stancato di ricorrenti brogli, è caduto nelle mani della famiglia Buda di Tresilico. I vani dell’istituzione sono stati dati, forse in affitto, a famiglie che ne avevano bisogno e sostenere che sono finiti in malora si qualifica un eufemismo. Già negli a. 40 ricordo che vi abitava una napoletana che aveva parenti oppidesi, donna Vincenzina Feis. Quando il sindaco Mittica si è messo in testa di opporre all’angusta via Curcio una strada parallela più ampia ed estesa, che in definitiva ha congiunto maggiormente i nuclei di Oppido e Tresilico, il proprietario ha avuto l’agio di vendere il terreno spezzettandolo. È così che sono nate tutte le costruzioni, che ospitano in buona parte negozi e opifici industriali. 

Rocco Liberti

domenica 16 aprile 2023

LA PASQUA ORTODOSSA NEL MONASTERO DI SANT'ELIA E FILARETE IN SEMINARA

( di  Madre Stefania Stanojkovic)

   Dopo due anni di  semplificazione dei riti imposta dal Covid quest'anno anche la Pasqua ortodossa viene  celebrata in tutto il suo splendore a Seminara, dove rivive  ancora una volta  il suo culmine annuale  la vicenda  davvero  miracolosa del più volte  morto e risorto monastero greco bizantino e infine ortodosso di questa antica città.
 Ad essa è stata a lungo  indissolubilmente legata  la vicenda umana e spirituale, altrettanto incredibile,  dell’igumena Madre Stefania Stanojkovic,  che quando conduceva la comunità di Seminara, ha voluto fare dono  a questo blog, in occasione della Pasqua Ortodossa, del suo commovente e  commosso  racconto in prima persona in cui rievoca  la santità antica della nostra terra e la grandezza di quel Dio che ella ha seguito  in silenzio,  con grande sacrificio e con forza in questi luoghi di antichissima tradizione cristiana sui quali fiorì e rifiorisce ancora per merito prevalentemente suo  la vita monastica ortodossa.
    Madre Stefania oltre che monaca e  già gumena del monastero è anche una valente artista di icone sacre, è  esempio vivente di umiltà e silenzio, ed  è maestra, insieme con i suoi successori,   in  quella preghiera del cuore, l’Esicasmo, che è un baluardo di pace e di guarigione  in una terra oppressa da mille ferite e da mille egoismi.  (Bruno Demasi) .
 

    Il glorioso monastero dedicato ai Santi Elia e Filarete è situato nell’antica Vallis Salinarum (Valle delle Saline), l’attuale Piana di Gioia Tauro, due chilometri a nord-est di Seminara.
   Secondo la biografia su sant’Elia, una visione avuta in Antiochia di Siria indica al Santo dove edificare l”ascetica palestra” e il monastero. La costruzione, inizialmente concepita come asceterio, fa accorrere i primi discepoli, fra i quali il monaco Saba.
    L’imperatore d’Oriente, Leone VI il Saggio, dona alla fondazione beni e rendite cospicue e gli storici datano all’anno 884 la ostruzione del cenobio. 

    Nel periodo normanno il monastero continua a rappresentare un importante luogo di culto, meta di innumerevoli pellegrini desiderosi di venerare le miracolose reliquie dei santi protettori del cenobio. Ma fu anche centro culturale e sede di una delle biblioteche più ricche del territorio, nella quale si conservavano importanti testi liturgici ed opere di letteratura profana.
    Nel 1602 il monastero imperiale di Sant’Elia viene assegnato da Roberto il Guiscardo all’abbazia benedettina di S.Maria, nella valle di Nicastro, nel luogo detto di S.Eufemia. Dieci anni più tardi divenne luogo di culto per San Filareto e successivamente intitolato anche al nuovo Santo: compare difatti come monastero di Sant’Elia il Nuovo e San Filareto sia nel diploma di RuggeroII (febbraio 1133) sia nell’atto datato 3 ottobre 1329 in cui Neofito è identificato come egùmeno dello stesso monastero di Seminara. Altri documenti comprovano la sua esistenza dal XII al XV secolo.

    Il monastero, dopo essere stato uno dei principali centri di fede e cultura ortodossa, nel 1579 diviene sede del primo Capitolo generale della Congregazione basiliana d’Italia. La chiesa romana utilizzerà la congregazione per latinizzare i monasteri greci del Mezzogiorno, assecondando la scomparsa del rito ortodosso dall’Italia Meridionale.
   Il terremoto dell’11 gennaio 1693 distrugge gran parte del convento e i monaci sono costretti a trasferirsi in un edificio “fuori le mura” della città di Seminara. I religiosi, dopo aver trascorso vent’anni in un ospizio per la cura degli infermi, nel 1711 si spostarono in un nuovo edificio fatto costruire all’interno della città. Un ulteriore terremoto, quello del 1783, non risparmia Seminara.
   Il governo di Ferdinando IV di Borbone sopprime i piccoli monasteri e i loro beni vengono assegnati alla neo-costituita Cassa Sacra, con il fine di metterli in vendita e poi utilizzarne il ricavato per sopperire alle ingenti spese di ricostruzione delle aree colpite dal sisma.
   Infine il monastero è stato ricostruito nella prima metà del 2000 grazie all’interessamento del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e ad un finanziamento concesso dalla Provincia di Reggio Calabria. La chiesa di Cipro ha poi contribuito ad arredare gli interni e nell’opera iconografica.
    Il 30 ottobre 2005 il cenobio, fondato undici secoli prima da Sant’Elia di Enna, riapre con la benedizione di Sua Eminenza Gennadios, Metropolita Ortodosso d’Italia e Malta.
    Il monastero,oggi femminile, è sotto la giurisdizione ortodossa d’Italia e Malta, del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, ed abitato da me, unica monaca e igumena Madre Stefania. Ogni domenica è possibile assistere alla Divina Liturgia così come durante la settimana. Celebrata dal sacerdote, padre Elia Iaria e da padre Igor nel Katholikon. 

    Il nostro monastero è uno dei rari casi del sud Italia, dove dopo secoli e secoli si è tornati a celebrare la liturgia dell’epoca di Sant’Elia, secondo il testo di San Giovanni Crisostomo, la celebrazione eucaristica più in uso nella chiesa ortodossa. Questo ai nostri occhi è un vero e proprio miracolo, dato che in un territorio come quello di Seminara e Palmi (RC), davvero Dio ha voluto rivivificare la Tradizione passata ma appartenuta a questo popolo e a questa terra benedetta.
   Mi reputo solo un semplice strumento del Suo volere, in quanto, nata a Niksic in Montenegro, nel 1963, ho vissuto la mia cristianità in un periodo che vedeva la Serbia sotto l’influenza del comunismo: era impedito ai religiosi insegnare nelle scuole, i beni ecclesiastici confiscati e monaci e sacerdoti erano soggetti ad uno stretto controllo da parte dello Stato.
    Sono entrata in monastero a 19 anni, contro il parere di mia madre; rifugiatami a sua insaputa nel monastero della Santa Trinità a Koropi, nei pressi di Atene, sono in seguito rientrata in Serbia a Celije, dove sono rimasta per quattro anni come novizia. Da Celije sono stata inviata al monastero di Santo Stefano di Pipersci in Montenegro, lì, ordinata monaca, ho prestato il mio servizio per otto anni. Con altre sorelle siamo poi state trasferite al monastero di San Luca a Zupa, un antico luogo religioso occupato dai non credenti e trasformato in un albergo. Noi monache lo abbiamo interamente ricostruito e riportato al suo splendore spirituale. 

    Un giorno, per volere del mio metropolita Amfilohije Radovic, contattato dal metropolita Gennadios Zérvos dall’Italia, mi è stato chiesto di spostarmi al monastero di Sant’Elia e Filarete in Calabria, appena ricostruito e riaperto. Non conoscevo la lingua italiana né tanto meno dove si trovasse la Calabria; ma la storia mi ha insegnato che quando il nostro popolo slavo non era ancora battezzato, in queste terre da secoli si viveva da Cristiani.
   Ormai da dodici  anni vivo in questo luogo in attesa di altre sorelle che stabilmente vogliano condividere con me un’esistenza spirituale sulle tracce di Sant’Elia. Si tratta di una vera e propria missione fatta di una quotidianità piena di difficoltà, ma ricca di una benedizione che i nostri Santi siculo-calabri per primi ci manifestano ogni giorno. Il monastero è inoltre un centro di accoglienza e di pace spirituale per tutti i cristiani ortodossi stranieri, immigrati, ortodossi italiani, che vivo nei dintorni e anche in Sicilia. 
     Rifondare la chiesa ed il monastero di Sant’Elia e Filarete significa per noi tenere una fiaccola accesa, una luce che sembrava essere stata spenta, ma è anche come un piccolo rivolo di acqua sotterrato, che riemerge e si ricongiunge al grande mare dell’antica fede cristiana.
   Queste stesse terre sono quelle abitate da sant’Elia e dai suoi fratelli che qui e nei dintorni aprirono centinaia di cenobi, qui si muovevano per i campi e le città benedicendo la natura e le genti; la loro opera non è mai tramontata, ma ha lasciato vivo lo spirito cristiano greco ed orientale che ancora si respira e che caratterizzò la Sicilia e la Calabria di una spiritualità fervida che tuttora si riflette nei cuori di chi la conosce e di chi la ricerca.