venerdì 29 agosto 2014

O CU NUI O CU IDDI: LA STORIA DI MARIA CONCETTA A TRE ANNI DALLA SCOMPARSA

di Bruno Demasi
     L'antinomia richiamata dal titolo purtroppo è ancora radicata nell’imprintig di tanta gente della nostra terra: non ci possono essere vie di mezzo nell’appartenenza alle forze del crimine (ormai sempre più legalizzato…) o a chi veramente le rifiuta e combatte. E centinaia di persone ieri ad Altomonte , nell’ambito del festival teatrale “Euromediterraneo”, hanno assistito al dramma teatrale “O cu nui o cu iddi“,.. Lo spettacolo , scritto da Malitalia, curato e diretto da Enrico Fierro e Laura Aprati, per la prima volta rappresentato in Calabria dopo circa 4 mesi dalla prima svoltasi nel teatro “Italia” di via Bari a Roma nel maggio scorso .
    E’ La tragica storia della testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola nella magnifica interpretazione di Sylvia De Fanti che ha riempito di commozione il parterre rimasto silenziosissimo per tutta la durata della rappresentazione, durante la quale sono stati trasmessi anche alcuni stralci delle intercettazioni originali già ascoltate nei vari processi e immagini inedite, per poi scattare all’unisono in piedi ed applaudire a lungo la scena, la storia e la memoria.
    Maria Concetta Cacciola, rosarnese, è stata testimone di giustizia morta a 31 anni a fine agosto del 2011 per aver ingurgitato acido muriatico, dopo un drammatico percorso di collaborazione con i magistrati calabresi in virtù del quale sono stati scoperchiati intrecci e affari delle cosche rosarnesi. Un nome che ci ripropone la storia di una donna e di una madre che non si è voluta piegate alle pressioni terribili della famiglia che – a quanto si sa - la voleva indurre a ritrattare tutto. Un nome che assai presto è stato rimosso dalla memoria della Piana di Gioia Tauro troppo occupata ad organizzare altro genere di rievocazioni e di intrecci…
    Voglio postare almeno un brevissimo ricordo di Maria Concetta, a tre anni della tragica scomparsa, con le parole usate qualche tempo fa da un giornale on line locale, nella speranza remota che questo spettacolo sia portato coraggiosamente anche sulle piazze della Piana, e non per farci divertire o rilassare in queste sere di fine estate , ma per farci pensare sul serio, almeno pensare:

     “Da donna del clan a simbolo dell’antimafia nazionale. Maria Concetta Cacciola era nata a Rosarno, feudo di due delle cosche di ‘ndrangheta più potenti dell’intera regione: i Pesce e i Bellocco. E proprio ai Bellocco, secondo quanto raccontato anche dalla stessa ex testimone di giustizia, fa capo la famiglia Cacciola. Il padre di Maria Concetta, Michele Cacciola, è parente di Gregorio Cacciola, uno dei pezzi da novanta dell’omonimo clan. Nell’estate di due anni fa, con un pretesto, si presenta alla caserma dei carabinieri di Rosarno. Vuole collaborare con la giustizia, vuole che i suoi figli crescano in modo diverso da lei. La sua storia è incredibile. Maria Concetta nasce e cresce in un ambiente intriso di cultura mafiosa: sposa a 13 anni, madre a 14. Una vita da “vedova bianca“, suo marito Salvatore Figliuzzi e’ in carcere da diversi anni perche’ condannato per associazione mafiosa. Viene trasferita in una località protetta, lei non riesce a non chiamare i suoi 3 figli. I familiari la
rintracciano e lei ritorna a Rosarno. Aveva ripreso in contatti con le forze dell’ordine per riandare via e riprendere la collaborazione con la Dda di Reggio Calabria. Ciò non avverra’: il 20 agosto 2011 il suo corpo senza vita viene trovato nella casa paterna. Maria Concetta è morta bevendo dell’acido muriatico. Dopo qualche mese la Dda di Reggio Calabria e la procura di Palmi chiudono le indagini su quello strano suicidio: suo padre Michele, suo fratello Giuseppe e sua madre Rosalba Lazzaro vengono arrestati accusati di induzione al suicidio e violenza. Oggi le richieste di pene della procura di Palmi: 21 anni di galera per i 3 imputati” (Da Stretto Web. Com, 10.7.2013).

domenica 24 agosto 2014

STORIA DI UN AMORE A PERDERE: DON ROBERTO MEDURI E GLI ULTIMI DI ROSARNO



di Giuseppe Campisi
     Rosarno (Reggio Calabria) – La funzione vespertina è terminata ed i parrocchiani fanno capannello attorno al loro giovane sacerdote, minuto inversamente che caparbio, brizzolato ma dal bisbiglio continuo, quasi come stesse recitando un rosario. Don Roberto Meduri titolare della parrocchia di Sant’Antonio del Bosco, banlieue di Rosarno, ha buone parole per tutti e tanti consigli da dispensare affatto sentendosi come Gesù nel tempio, ma ha soprattutto un’altra apprensione, quella di sgattaiolare fuori dalla chiesa per andare a celebrare un’altra messa, forse quella più importante dell’intera giornata. Difatti freme, e facendosi aiutare a raccattare il necessario - messale, camice, casula e santa comunione - ripone il tutto ordinatamente in una cesta improvvisata a mo’ di gerla e corre via sul furgonetto bianco già messo in moto nel piazzale
antistante.

     Prima tappa – dalla base del quinto stradone - è la zona industriale che lambisce il porto nella parte alta, dove sono concentrati i moduli che danno riparo agli africani di Rosarno e dove si reca per raccogliere i suoi primi “fedeli”, un gruppetto nutrito perlopiù composto da ragazzi ghanesi che lo accolgono festosamente con un sorriso che lui non tarda a ricambiare, scendendo a salutarli chiamandoli per nome, uno ad uno, come si conoscessero da una vita, sempre disponibile nella sua mise leggerissima che fa letteralmente a pugni col freddo pungente della sera. E poi di nuovo via, saettando con ansia verso la meta, il campo d’accoglienza dei migranti allestito come tendopoli in campo aperto a San Ferdinando. Lungo il tragitto, buio pesto nonostante l’imponente
picchetto di lampioni e tanta, troppa immondizia disseminata per la strada come una manciata di montagnole di cui non si cura più nessuno. Certo, sono strade interne, percorse solo dai migranti, dagli invisibili, lontano dagli occhi severi dell’occidentale infastidito. Ed ecco spiegato l’abbandono. Ad attenderlo altri “parrocchiani” - che fanno torma attorno al pulmino della “Presenza” divenuto oramai fin troppo familiare – ed una capanna bianca, tirata su con legni incerti e canne di recupero e rivestita di sacchi di nylon improvvisati. Il nuovo santuario della tendopoli, al cui interno trovano posto in una contegnosa spartanità sedie di fortuna spalmate su tappeti arabescati strausati ed un po’ sdruciti a fare da pavimento sul freddo selciato che accoglie la comunità.

     Al centro della piccola trabacca campeggia, austera ed imperiosa, una croce di legno senza Cristo, che
separa da un piccolo tavolino di plastica ricoperto da una telo morbido ingegnato ad altare ed una flebile luce alogena ad illuminare i volti e gli occhi d’ebano seppur stanchi e consumati dalla vita di uomini e donne in preghiera, stretti attorno a lui, il piccolo sacerdote, che distribuisce in un bilinguismo interpretato ed incessante, la parola di Dio ad una assemblea omogenea quanto attenta. E’ la storia di una umanità – divenuta qui - diversamente cristiana. La chiesetta scoppia di presenze raggranellate con pervicace amorevolezza e che ripagano “il don” dalle fatiche preparatorie e dalle innumerabili ristrettezze quotidiane incitandolo a perseverare nella sua missione di carità. Il clima è inaspettatamente gioioso. Una sinestesia di suoni, colori e voci con uno scopo fin troppo lapalissiano: il noi. I canti, gospel spontanei nella lingua tradizionale africana sono l’eco della raccolta ed allo stesso tempo la melodia che accompagna una così originale liturgia secolare, fatta di verbo e di preghiera partecipata.

     La vera espressione della missione cristiana che si realizza nella conferma della dignità della persona
umana, al di là della pigmentazione della pelle e delle differenze sociali. Inutile dire che - su una popolazione di immigrati “residenti” di circa 4000 persone - i cristiani presenti sono una piccola minoranza, quasi una rappresentanza, che convive come nucleo, compreso e compresso, all’interno d’una fratellanza musulmana di ben più ampia portata. In questo pullulare di mani rugose e ferventi che battono il tempo alla ricerca di un Dio in terra straniera, questo minuto missionario dagli occhiali traballanti ma col sorriso sempre irrefutabile intende applicare fedelmente il “comandamento dell’amore” facendosi un servitore della chiesa per gli ultimi. E’ lui il punto di riferimento di tanti disperati che gli si rivolgono – a qualunque ora del giorno o della notte – in cerca di conforto materiale e spirituale non rimanendo delusi.

     La celebrazione termina gioiosamente, così com’era iniziata, nell’attesa smaniosa del prossimo incontro che non tarderà a venire in vista delle prove del coro, altra punta di diamante oltre alla squadra di calcio
da cui la comune radice Koa, che sta per Knights of the Altar (cavalieri dell’altare). E’ tarda sera ormai e si riparte per fare ritorno alla chiesa di Sant’Antonio del Bosco rosarnese, nel cuore della Piana. E lungo il tragitto è facile allora riflettere per meglio comprendere che nel realizzare ghetti come questi si compie istituzionalmente il trionfo di una sorta di neocolonialismo alla rovescia. E nell’abbandono al proprio destino di questi ultimi, non solo evangelici, lo Stato autocertifica, ancora una volta, il fallimento di una presunta superiorità progressista dell’occidente, che par essere solo materiale ed inverosimilmente già morale. In queste lande desolate ed argillose non si scorgono alti papaveri porporati col sermone pronto all’uso da sciorinare nel chiuso delle comode cattedrali del perbenismo cattolico o spatàri politici di professione con la soluzione take away adattabile ad ogni stagione.

    Qui c’è solo la frontiera del vero ed un piccolo ed isolato prete di trincea che si sporca le mani ogni giorno senza nulla a pretendere, che si adopera alla bell’e meglio per rendere attuali e più vive le pulsioni essenziali dei precetti evangelici che raccomandano – manco a dirlo - amore a perdere (MNews.it - Foto di Salvatore Colloridi)
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giovedì 21 agosto 2014

STELIO PANDOLFINI E PIMINORO : DUE "STRANIERI" DELLA VERA POESIA


di Bruno Demasi
 
      Era un cammino segnato quello di Stelio Pandolfini e quello di Piminoro (il villaggio di montagna che sovrasta la Piana): incontrarsi e condividere poi per sempre una storia di stranieri (alla Camus) che mal si adattano alla convenzione del tempo o a quella geografica nella quale sono costretti a vivere.

     Nella nebulosa sempre più fitta di  poeti che spesso  producono industrialmente parole in libertà, e si nutrono di scritti e di premi e di occasioni che passano inosservati ai più, Stelio Pandolfini, nonostante la sua umiltà e il suo ricercato silenzio, potrebbe stagliarsi come un gigante. Una dimensione di gigante e di “straniero” nei panni stretti di borghese nella sua Oppido, che lo vide nascere e crescere educato spontaneamente al culto dell’impegno civile, all’ideologia votata agli ultimi , a quei lavoratori d’Aspromonte maciullati dalla storia, al gusto del bello e del buono impastato quotidianamente sulle pietraie e i rovi di queste
strade. “Straniero” più che mai anche in quella Roma dove consumò ardentemente la seconda parte della sua esistenza, conclusa il 10 giugno del 2011. “Straniero” infine , perché mal disposto a piegarsi agli interessi commerciali e pubblicitari quando pubblicava due veri capolavori: “La fiumara va così” e “Il sogno. Ogni uccello nel suo bosco”. Non per nulla il primo dei due è dedicato a Rocco Scotellaro , il poeta contadino lucano, la cui parabola umana ed artistica per tanti versi è vicina a quella di Stelio Pandolfini.

     E poi Piminoro, il paese dei miei avi, a sua volta “ straniero”, perché costretto a nascere lontano dalla patria lontana di Fabrizia/Serra/Mongiana, a crescere su un’anonima balza rocciosa frustata dal Levante per tre quarti dell’anno. “Straniero” anche per il suo orgoglioso dialetto che in due secoli e mezzo è rimasto quello dei padri , testardemente impermeabile persino alle suggestioni dei media. “Straniero” in questa provincia e nel mondo perché geloso della sua povertà e del dono della fatica silenziosa per strappare alla terra il nulla quotidiano , solo per non morire.

    Ecco! Due stranieri nel corpo e nell’anima che si sono incontrati. Probabilmente le prime volte quando Stelio osservava dal basso della sua casa oppidese le bianche pietre riarse del villaggio montano, che via via veniva divorato dall’emigrazione, e ne restava avvinto. E soprattutto quando iniziò d’estate ad affittare qualche povero e fresco basso nel paese del suo sogno, per trascorrervi quasi in solitudine la sua insolita e bellissima vacanza estiva lontano dai posti e dai locali alla moda e da tanto vociare insulso e interessato dei nostri paesi.

    Questa simbiosi di due stranieri mi ha sempre commosso, tanto che, quando già Stelio viveva ormai da anni a Roma, dopo tante percosse subite dalla vita, gli chiesi tramite la sua carissima nipote Teresa, a suo volta finissima e vera poetessa, qualche verso da lui dedicato a Piminoro. Erano gli anni ’90 del secolo scorso!

    Mi rispose mandandomi quattro piccole cartelle dattiloscritte con altrettante e stupende liriche, in gran parte inedite, che conservo gelosamente e che oggi pubblico qui, accompagnate da questo biglietto autografo:

“ Caro professore,
eccoVi le composizioni promesse. Prendetele per quello che sono, un affettuoso omaggio alla nostra dolcissima Piminoro, e accoglietele quale gesto di simpatia che ora m’induce a darvi del voi e nel contempo a sperare possa in seguito venire ricambiata con un tu più appropriato.

Cordialmente
Stelio Pandolfini”


     L’ho ringraziato allora. Lo ringrazio ancora quest’oggi col cuore traboccante di gratitudine, come Oppidese e come Piminorese.



FRESCURA

Sentieri di felci

e pergole verdi

rossi pomodori

gialli fiori di zucca

nere more

Bambini ruzzolanti

sulla strada

Il gorgogliare bianco

del ruscello

Una capra sul tetto

danza e bruca


Terra di Piminoro

dall’aria imbalsamata



NOTTURNO

Sc sc sc sc sc sc sc !:

Comincia il concerto dei grilli

Gli ultimi campanacci son passati

è stanco il giorno

Saliremo l’una o l’altra viuzza

fra porte spalancate

Deschi luminosi

e file di santini e di ritratti

Qualche invito ad entrare

assaggiare un bicchiere

parlare dell’oggi e del domani

Il solito scalino

Echi di feste lontane

tarantelle in sordina

Il sonno

chiaro

Ci desteranno voci di campagna

Canti di gallo

e voli di colombi mattutini


CALVARIO


Ogni paese di Calabria

ha il suo Calvario

Ma di tutti

o piccolo borgo

è tuo il più bello

indorato del bianco silenzio

voce di questa terra forte e cruda

ove fatica a crescere la spiga

Eppure nei dirupi s’apre il seme

e amica è diventata la brughiera

La tua storia su un cocuzzolo

sbattuto dal Levante

Ovili accanto al letto

cuori velati di pena

donne nere

Respiri lontani

carezze di ore

ti preparano nuova sorte

Hanno un bivio tutte le strade

sospeso fra quiete e dolore

A me piace pensarti

coi gipponi sgargianti della festa

vedere al di là del calvario

gioiose bandiere



RIMPIATTINO


Sono un uomo che gioca a nascondino

tutto il giorno

come quando portava i calzoncini

Ho compagni i paesi

i monti e le fiumare

trovati e ritrovati ad ogni passo

Capo Vaticano Sant’Elia l’Aspromonte

Oppido Santa Cristina Piminoro

Son rincorso Rincorro

per luoghi lontani i ricordi

Giro rigiro la memoria

fra sembianze sopite vecchi amori

Fanciullezza che torni

da dietro un sasso un cespuglio

Bello dopo il meriggio ribagnarsi

dentro i sogni dell’alba

prima che il sole rosso

beffardo te li rubi