venerdì 29 maggio 2015

LA SQUADRA DEI NERI: UNA SCOMMESSA CON DIO. ANZI TRE

di Bruno Demasi

   Quando si parla del Koa Bosco, la squadra di immigrati neri creata, per scommessa con Dio e con tantissima fatica, da don Roberto Meduri al Bosco di Rosarno si rischia sempre di infastidire i benpensanti che hanno il  miele sulla bocca e il veleno nel cuore. Specialmente quelli che si dicono cattolici  a oltranza e magari addetti ai lavori.
   Allora è bene continuare a farlo, se non altro per togliersi questo sfizio.
  E per rincarare la dose vale la pena aggiungere che la squadra del Koa Bosco qualche settimana fa sul campo di calcio di Maropati ha disputato la finale di playoff che le ha consentito di uscire vincitrice del campionato di terza categoria.
   Un evento che ha scatenato l’entusiasmo dei disperati che sopravvivono nella tendopoli tra Rosarno  e San Ferdinando, dove da qualche anno don Roberto, senza trascurare minimamente la sua parrocchia di S.Antonio a Bosco, va a impastarsi di fango in inverno e di sudore in estate per condividere con i numerosissimi inquilini delle tende della protezione civile ( e delle tende improvvisate con brandelli di plastica e di cartone) il niente che possiede e il tanto che la Provvidenza gli manda ogni giorno non si sa da dove.
   Un evento che in qualche modo riscatta anche le terribili umiliazioni subite dai calciatori del Koa nei mesi scorsi su alcuni campi di calcio della zona a cura delle tifoserie avversarie che contro di loro, contro lo stesso don Roberto, avevano scatenato tutto il repertorio di cianfrusaglie razziste e ingiuriose nel peggiore stile salviniano, ma con le più pittoresche e schifose imprecazioni dialettali.
   Non so se don Roberto con questa vittoria abbia vinto – limitatamente al Koa – la sua scommessa con Dio, ma sono sicuro che la sfida continuerà. Anzi sta già continuando.
   Nella tendopoli, dove c’è tanto bisogno di cibo, indumenti, medicine, ma soprattutto di un sorriso e di tanta solidarietà, si  è fermata  la preghiera ecumenica che questo piccolo sacerdote insieme ai suoi volontari e al popolo della disperazione celebrava ogni domenica sera rinnovando la scommessa con Dio, con la complicità di quel Cristo che si fa carne tra i poveri.

   Ed è ferma perché il container che serviva da cappella è inspiegabilmente chiuso da qualche tempo e le chiavi non si trovano più malgrado le reiterate richieste di questa gente che nella preghiera domenicale si ritrovava unita e dimenticava per un’ora il freddo, la fame e la stanchezza.
  Nella chiesa di Bosco è ferma anche l’Adorazione Eucaristica del lunedi sera, che , per ulteriore scommessa con Dio, con la complicità di quel Cristo che si fa sangue tra i sofferenti, richiamava gente da ogni parte della Piana , senza etichette e senza appartenenze  se non alla Croce, per pregare accoratamente e intensamente insieme a don Roberto e all'instancabile cantore Ippolito. E al suo posto c’ è ora una stucchevole e zuccherosa catechizzazione da parte di un movimento ecclesiale politically correct.
   Tre scommesse ancora in gioco per questo umile sacerdote di periferia che parla al cuore di Dio e deve lottare per poterlo servire: la prima vinta ( almeno per questo campionato); la seconda e la terza probabilmente quasi perse se non interviene presto e con forza il Complice di cui parlavo prima per dare una pedata solenne… di incoraggiamento. Anzi più di una. 
    E non solo al pallone!

lunedì 25 maggio 2015

TRA IL PORTO DI GIOIA E IL PONTE SULLO STRETTO PASSA ANCHE IL RESTO DEL SUD…

di Domenico Napoli
   Quante le occasioni mancate per questo Sud, preda di propagande fumose e contraddittorie che distruggono prima ancora di costruire? Bisognerebbe forse trovare il coraggio di chiedersi se il mancato decollo del porto di Gioia Tauro e l’abbandono del progetto di ponte sullo Stretto siano elementi casuali di ordinaria congiuntura o piuttosto elementi di un disegno teso ad affossare ulteriormente il Sud. E’ quanto si domanda Domenico Napoli con riferimento alle controverse, ma lucide analisi condotte da G.E.Valori.
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    Giancarlo Elia Valori può essere discutibile come intellettuale e personaggio pubblico, ma la sua analisi sulla situazione del Sud, e in particolare della Calabria, anche se risalente a qualche anno fa, è sicuramente illuminante per quanti non si accontentano di certa retorica falsomeridionalista che non approda a nulla.
    Se rileggiamo insieme a lui i vecchi meridionalisti, da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini fino a Manlio Rossi-Doria e, per certi aspetti non economici, a Leonardo Sciascia, scopriamo che la questione meridionale è una questione di liberalismo. Il costo di produzione dei beni agricoli del sud è strutturalmente elevato, l’area di coltivazione è inevitabilmente ristretta, basti ricordare la definizione di Giustino Fortunato del Meridione come di “uno sfasciume pendulo nel Mediterraneo”, che aveva un serio fondamento geologico, se poi si inseriscono meccanismi protezionistici, il disastro è completo.
    E’ una lezione da tenere a mente anche oggi: se non creiamo un mercato ampio dei beni UE e Mediterranei incentrato nel Sud, ogni tipo di investimento nell’area diverrà inutile o, se guardiamo alla criminalità organizzata, pericoloso.
    In questo senso, il taglio progressivo degli investimenti in infrastrutture di trasporto nel Sud può avere un effetto duplice: o si crea una serie di occasioni private di investimento, anche internazionali, in attesa che il Corridoio Berlino-Palermo internazionalizzi l’economia siciliana e le infrastrutture portuali calabresi,e si valuta la opportunità di questi progetti in termini di project financing; oppure si ritorna a investire nelle infrastrutture su gomma e soprattutto su ferrovia in attesa che il sistema portuale Gioia Tauro – Lamezia – Messina - Palermo si innervi con la rete delllo stesso Corridoio.
    E’ bene essere chiari: la problematica riguardante la presenza della criminalità organizzata è essenziale ma le organizzazioni illegali sono, in primo luogo, attentamente contrastate dalle Forze dell’Ordine e, in secondo luogo, se ampliamo e liberalizziamo l’economia locale meno potrà essere forte la presenza della malavita tradizionale che, peraltro, si è già largamente trasferita nel Nord Italia e nel resto dell’Europa Centrale .
   La Zona di Attività Logistica di Gioia Tauro dovrebbe diventare il centro delle attività di smistamento per tutta la rete ferroviaria nazionale.
   Occorre quindi rovesciare la logica con la quale, fino ad oggi, si è affrontata la questione del porto di Gioia Tauro: utilizzare lo scalo calabrese per raggiungere ben oltre l’1% dell’import via mare italiano annuale, come oggi accade, e connettere il gateway logistico di questo attracco commerciale direttamente alle linee ad alta velocità per le merci che sono state previste dai capitolati europei del Corridoio Berlino - Palermo.

    Il rinnovamento dell’autostrada A3, che è di fatto una superstrada, è poi parte integrante di questo progetto di adattamento dell’area calabrese e siciliana alla prossima grande occasione di sviluppo, quella dei corridoi paneuropei.
    Sarebbe stato possibile già da un pezzo e dovrebbe ancora essere possibile che il Ponte sullo Stretto, con un appalto di circa 3,88 milioni di Euro, potesse innescare uno sviluppo autopropulso dell’area, anche sul piano della logistica, secondo il modello tradizionale del take off di Walter Rostow, ma è verosimile pensare che gli investimenti infrastrutturali paralleli a quelli del Ponte sullo Stretto avrebbero dovuto essere programmati in sinergia con la realizzazione dell’opera principale, per evitare che l’indotto del ponte generasse solo redditi nel terziario o, addirittura, nella rendita improduttiva.
     Certo, la situazione del Sud è molto seria e in via di progressivo aggravamento: il rapporto PIL/abitante è circa la metà di quello del centro-nord, il tasso di disoccupazione ufficiale è il triplo, l’economia sommersa vale per il doppio di quella del Centro e del Settentrione.
    E’ il risultato di una lunga serie di errori, dagli accordi agricoli con la Francia del neonato Regno d’Italia negli anni ’70 del XIX secolo, che posero fine al circuito virtuoso tra Nord e Sud che aveva caratterizzato l’economia agraria, alla distribuzione a pioggia di aiuti negli anni ’60 del secolo scorso, che hanno “drogato” l’economia meridionale e l’hanno posta, fin dall’inizio, fuori mercato,
alla situazione attuale, caratterizzata da una forte contrazione produttiva e dal continuo intersecarsi di economia “grigia” e “nera” con quella legale.
   Il che è ovvio: se il sistema meridionale è stato costruito per essere sostenuto da risorse esogene, e queste vengono a ridursi grandemente, allora la liquidità prima pubblica ed esterna diviene ugualmente esterna, ma illegale e privata.

    Una logica di “sostituzione” che regionalizza il Sud, lo esclude dai contesti produttivi nazionali e UE, distrugge i tessuti produttivi rimasti in funzione di quella “immediata preferenza per la liquidità” che caratterizza le economie illegali, che sono finalizzate alla costituzione di una rendita occulta, non al reinvestimento nel ciclo produttivo locale.
    Non si tratta di gestire spese che abbiano rilevanza elettorale o politica, o di operazioni per ripetere le “cattedrali nel deserto”. Qui si tratta di investire davvero nelle infrastrutture, perché altrimenti non tra un secolo e nemmeno fra qualche anno, ma in tempi molto più brevi, ritorneremo esattamente nella stagnazione plurisecolare che caratterizzò l’Italia, tutta l’Italia, dal XVI secolo all’inizio dell’Ottocento.

sabato 23 maggio 2015

LE SORPRENDENTI VOCAZIONI NELLA PIANA …

di Bruno Demasi
   E’ quasi stupefacente scoprire che nella piana di Gioia Tauro non tutto è perduto e che ancora oggi, malgrado la desertificazione umana, politica e sociale che sta ingoiando tutto e tutti, i ragazzi di terza media e buona parte di quelli di scuola superiore, insomma i nostri preadolescenti e gli adolescenti , sono alla ricerca seria di una dimensione di vita, di una strada da percorrere, di un valore aggiunto a una quotidianità sempre più banale e asfissiante.
    Che questi ragazzi siano veramente alla ricerca della vocazione cui sono chiamati individualmente e come popolo di una Piana che muore lo abbiamo scoperto quasi subito leggendo o ammirando i numerosi lavori partecipanti al concorso scolastico indetto dal Centro Diocesano Vocazioni di Oppido-Palmi, con cui il suo direttore, don Gaudioso Mercuri, ha voluto subito tastare il polso alla realtà giovanile della Piana su un tema molto complesso e provocatorio “Vocazioni e santità: toccati dalla bellezza. La cultura sulla vita intesa come vocazione”. 
    “Toccati dalla bellezza” , un input che ha messo le ali alla fantasia e allo spirito critico di questi ragazzi, indubbiamente migliori di noi grandi, anche se già segnati anche loro dal disvalore della rassegnazione che incombe come una cappa di piombo sui molti desideri e sui pochi progetti di crescita che li vedono protagonisti e destinatari di un'attenzione non sempre vigile da parte  degli adulti.
    E’ bellezza per loro vivere insieme il tempo scuola quotidiano anche nel frastuono delle battaglie da retroguardia che ancora occorre condurre in molti istituti. E’ bellezza domandarsi ansiosamente quale possa essere la scuola superiore più confacente ed aperta a un futuro lavoro per realizzarsi. Ma è anche bellezza osservare , sia pure da lontano, le isole di Bene e di positività che riesci ancora a scorgere in una Piana segnata da un tasso di disoccupazione giovanile spaventoso, che trova il suo corrispettivo solo in un tasso di abbandono scolastico tanto elevato da  dover  far recitare parecchi mea culpa in condizioni normali.
    All’interno delle loro ingenue e  fantasiose rappresentazioni del grande Valore della Bellezza, intesa anche come antidoto e anticorpo per le mille brutture del quotidiano, questi ragazzi riescono anche a dare significato al polinomio Vocazione – Santità - Cultura della Vita, perché per loro non si tratta solo di enunciazioni vuote, ma di dimensioni concrete e tangibili.
    Lo testimoniano i riferimenti costanti che essi fanno al valore della generosità e della dedizione all’altro, il martellante ritorno all’opera di Teresa di Calcutta, ma anche la commovente intervista a  Norina Ventre, Mamma Africa, la madre-nonna di Rosarno icona dell’accoglienza senza riserve, del dono di se stessa agli immigrati di colore ospitati nelle tendopoli di Rosarno e di San Ferdinando.
    Sicchè la santità stessa, nelle espressioni di questi adolescenti, diventa carne nel quotidiano, nella ricerca pulita, e forse anche ottimistica , di una rinnovata convivenza pacifica e operosa vissuta all’insegna della cooperazione e della solidarietà persino in quella Piana che è apparentemente l’antitesi di questi valori.
    Ci siamo chiesti se il tema del concorso , nella sua ampiezza di suggerimenti e di evocazioni, non fosse stato fuorviante per i concorrenti, vista la straordinaria pluralità delle loro considerazioni e delle loro riflessioni, ma ci si è accorti che questi giovani, proprio ragionando della cultura della Vita in tutte le sfaccettature possibili, della santità del quotidiano nella dedizione agli altri, della bellezza del donare più che nel ricevere, in fondo avevano esaurito benissimo quanto poteva esser detto da ciascuno sulla realtà della Vocazione sia come chiamata personale sia come lievito per la vita del gruppo. 
    E in un contesto sociale e formativo in cui l’orientamento scolastico e soprattutto quello professionale sono praticamente risibili, questa loro insospettata capacità di destreggiarsi proiettando in avanti la propria vita con le sue aspirazioni migliori non è  poco!

giovedì 21 maggio 2015

Strisce di Calabria: VATTENE DA QUESTO POSTO, CHE QUI NON C' E' RIMASTO PIU' NESSUNO

di Felice Diego Licopoli

  L'emigrazione come categoria dello spirito nel racconto di Felice Diego Licopoli, che nel  romanzo, da cui è tratta questa pagina, " Strisce di luna" ( Città del sole ed.), riporta il discorso alla Calabria che parte, che continua a fuggire dalla desertificazione umana di ieri , ma ancora oggi voracissima, specialmente per i disperati che vi arrivano. Sembra una prosa convenzionale, ma il giovane scrittore, che si sta imponendo con la prepotenza del pioniere nella sperimentatazione  di atmosfere letterarie inedite, ci riserva tutta una serie di esplosioni linguistiche e narrative che occorre conoscere e che sicuramente faranno parlare molto di lui (Bruno Demasi).
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   «Vattene» gli aveva detto una sera, mentre cenavano sul loro piccolo tavolo di legno, nella loro piccola cucina di tufo e lo aveva osservato girare e rigirare il cucchiaio nella minestra con lo sguardo fisso e pensieroso.
   «Vattene da questo posto, figliolo mio, che qua non c’è rimasto più nessuno. Solo vecchi, bambini e i cristiani cchiù tinti e malvagi. Non voglio vederti diventare uno di loro. Va’, e raggiungi i tuoi fratelli. Non ti preoccupare per la tua mamma, io in qualche modo me la caverò. E poi, dalla mia casa mi possono cacciare solo da morta».
    Turi non aveva risposto. Si era alzato da tavola e se n’era andato nella sua cameretta, stendendosi sul letto ad osservare le stelle fuori dalla finestra e domandandosi se, un giorno o l’altro, le avesse potute raggiungere. Non si sarebbe più dovuto crucciare dei pensieri da mortali, ma avrebbe guardato il mondo dall’alto, come un piccolo puntino lontano.
    Così, dunque, suo malgrado, scacciò il pensiero di voler portare con sé la ragazza che amava e che adesso gli era dinanzi sul portico, nella gelida notte, e lo stava baciando come forse non mai aveva fatto.
    «Allora è per domani, giusto? Ormai è deciso…», gli aveva chiesto lei con un velo di tristezza.
    «Sì, ormai è sicuro. Parto, vado in America dai miei fratelli».
    «Ah sì, certo… ma tornerai qui?».
    «Non credo… dovrò cercare sistemazione laggiù».
    «Quindi da domani non ti vedo più?» gli domandò Antonia con un filo di voce. Il vivo nocciola dei suoi occhi sembrava essersi spentoe diventato una piccola opaca sfera che le contornava le pupille.
    «No, non ci vedremo più… a meno che tu non possa raggiungermi. Ma non mi sento di dovertelo chiedere, non voglio che lasci la tua casa per me».
    «Ma come vivrò senza di te? Non mi puoi lasciare! No, non voglio!».
    Adesso giaceva con la testa infossata nel petto del ragazzo, lo percuoteva con i pugni usando quasi tutta la sua forza. La sua tristezza si era tramutata in lacrime calde e pungenti che bagnavano la casacca un po’ sgualcita di lui in un incessante sgorgare. Turi, per provare a lenire il suo dolore, le aveva stretto la piccola schiena fra le braccia e aveva cominciato a baciarla delicatamente sulla fronte,sussurrandole frasi rassicuranti:
    «Ti prego, amore mio, non la prendere così. La colpa non ce l’ha nessuno, solo il destino maledetto, che ci allontana. Ma non temere, piccola mia, ti scriverò ogni volta che potrò e ti manderò tante cose dall’America. E se un giorno vorrai e potrai, magari verrai a trovarmi, se nel frattempo non ti sarai fatta una vita degna di decoro qui. Io sono costretto ad andare. Sono stato richiamato dai miei fratelli tramite lettera, non posso rifiutarmi, purtroppo».
    Quelle dolci parole ebbero il potere di calmare un po’ Antonia. Si fece asciugare le lacrime con dolci baci, lo guardò dritto negli occhi, e lo baciò con tutta la passione di cui era capace, lo baciò come mai aveva fatto prima d’allora, perché in cuor suo sapeva che quelli erano gli ultimi baci dati al suo amore ormai perduto.

    Continuarono così per diverse ore, lì fuori sul portico, sotto la timida luce di un lampione a petrolio. Turi ancora ricordava la lettera trovata un mese prima al mattino sul piccolo tavolo di legno della cucina, e di come si era lasciato andare sulla sedia quando ne aveva letto il contenuto perché sapeva che sarebbe dovuto andare via per sempre, lasciando indietro tutto quello che aveva conosciuto. Era stato suo fratello Rino a scrivere.
    "Caro Salvatore, sia io che Michele e Felice ormai siamo in America da quasi un anno. Qui ci troviamo veramente bene, abbiamo trovato un lavoro, ognuno di noi ha una casa e ci siamo sposati con delle bellissime donne, che avrai modo di conoscere. Qui la vita è bella, ci sono un sacco di posti da vedere e da scoprire. T’inviamo questa nostra per invitarti a venire a stare da noi e sistemarti anche tu a tua volta. Un tuo rifiuto farebbe dispiacere sia a noi che a chi sai tu. Speriamo ti organizzerai al più presto e verrai a trovarci". Il resto della lettera riportava le indicazioni per raggiungerli nella città dove si trovavano, a Rochester, nello stato di New York.
    A Turi preoccupava non poco quel chi sai tu di cui parlava la lettera, sapeva bene a chi si riferisse. Era suo fratello Vito, il primogenito, e anche la pecora nera della famiglia, il figlio cattivo che una madre non vorrebbe mai avere.

martedì 19 maggio 2015

LA STRUGGENTE CATECHESI DI DANIELA CORRIANO - PARTE II

di Francesca Bianchi
    E' passato quasi un anno da quando ci ha lasciato  Daniela Corriano, la ragazza originaria della Piana di Gioia Tauro, che, gravemente ammalata di tumore, ha voluto portare in grembo e mettere al mondo la sua seconda creatura pur nella consapevolezza che ciò sarebbe stato fatale alla sua giovane vita. Allora la ricordai qui con questo post che è stato letto da un numero incredibile di persone (oltre 4500) commosse per la sua catechesi espressa con la vita , senza parole e artifici superflui: LA STRUGGENTE CATECHESI DI DANIELA (clicca qui)
   Oggi questa giovane mamma che guarda dall'alto le sue due creature e il marito e che  continua a riscattare col suo sacrificio anche tante  brutture che sporcano questa nostra terra, ci offre un supplemento postumo della stessa struggente catechesi mediante  un ulteriore dono di cui ci parla Francesca Bianchi, giornalista de "La Nazione", che ringrazio per questa sua importante collaborazione con questo blog (Bruno Demasi).
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   12 maggio 2015 - Una promessa. Fatta mentre i medici la intubavano. Era il 6 giugno, quasi un anno fa. Nella notte sarebbe nato il piccolo Francesco. Uno scricciolo di 800 grammi partorito alla 26esima settimana. Un mese e mezzo dopo, la sua bella e giovane mamma chiuse per sempre gli occhi, all’età di 29 anni, stroncata da un cancro al seno scoperto quando era già incinta e mentre ancora allattava l'altro figlio.      
   Una gravidanza portata avanti con tutte le sue (poche) forze, voluta, mai messa in dubbio. «Daniela non ti dimenticheremo, nessuno di noi dovrà dimenticare». La dottoressa Valeria Valentino, ginecologa dell’ospedale della Versilia, pronunciò queste parole rivolgendosi al fratello di Daniela, Giovanni Corriano.      
   Una storia di dolore che ha segnato profondamente la comunità di Nodica dove Daniela viveva con il marito Alessio Giusti e l’altro bambino che oggi ha 3 anni e mezzo, un addio che tutti coloro che le sono stati vicini in quei terribili mesi hanno ancora impresso nel cuore e negli occhi.
   E quella promessa la dottoressa Valentino, amica e medico, ha voluto mantenerla. E’ da lei e da Claudia Bellana, editor e sceneggiatrice tv, che arriva la prima iniziativa per non dimenticare Daniela. Lanciata proprio nel giorno della festa della mamma. Un libro, un e-book i cui proventi verranno destinati al reparto di Neonatologia del Santa Chiara dove il piccolo Francesco è stato curato e coccolato nell’incubatrice per tre mesi. Sarà un libro di favole, si intitolerà «Scintille - 23 storie per accendere la fantasia».
   «Un libro di favole per raccontare, ma soprattutto ricordare, la favola più bella che possa esistere: la favola dell’Amore. L’amore di una mamma che nel proprio cuore ha trovato la forza e il coraggio di combattere contro il dolore, contro la malattia, contro la morte anche, per dare al figlio che portava dentro, il più prezioso dei regali. La vita» affermano la dottoressa Valentino e Claudia Bellana .
    «'Corri dai tuoi bimbi’ mi dicevi ogni sera quando ti passavo a trovare - ricorda ancora la dottoressa Valentino - la tua voce, anche se non ci sei più, mi rimbalza spesso in testa, fra i mille impegni quotidiani, e mi ricorda quanto saggia sapevi essere. Tu, con il tuo amore, con il tuo sacrificio, hai dato un significato nuovo alle carezze e agli abbracci, ci hai insegnato quanto importante sia amare senza riserve i nostri figli, i nostri compagni ogni ora, ci hai dimostrato che il cavaliere senza macchia e senza paura può avere le sembianze di una giovane, bellissima donna e che un cuore coraggioso e un sorriso possono spaventare i mostri più di Excalibur. La tua favola vivrà per sempre nei nostri cuori».
    E nel nome di Daniela il prossimo 27 giugno a Viareggio si svolgerà anche una grande giornata di prevenzione e sensibilizzazione legata ai tumori femminili, battezzata «Una mamma per angelo». Protagonisti: i bambini.
    Il grande, immenso amore di Daniela.

domenica 17 maggio 2015

TERESA PANDOLFINI...LA POESIA E I SILENZI

di Antonio Roselli
    Il ritratto essenziale e senza ridondanze, come piaceva a lei, di una poetessa di Calabria che amava questa terra e le sue incredibili radici  europee e credeva nella possibilità del suo riscatto mediante una cultura senza improvvisazioni e protagonismi.
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    C’è chi – e sono in tanti – per accreditare di sé un’immagine improbabile di poeta ha bisogno di pubblicare raccolte su raccolte di versi in un’ansia spasmodica di essere conosciuto più che di conoscere. C’è chi, come Teresa Pandolfini, solo con un’essenziale silloge di versi rivela una gran parte del proprio mondo lirico e umano, ma soprattutto la padronanza di quel valore eterno della poesia come conoscenza, come rigore stilistico assoluto, emblema del rigore esistenziale di una vita intensa conclusa prematuramente  il 17 luglio di tre anni fa.
    In Teresa Pandolfini, grande docente di 

Lingue e letterature straniere nei nostri licei, in effetti il rigore non è solo argine al traboccante lirismo di un’anima, ma è la risultante sofferta di un gusto spontaneo e snervante per il bello, affinato dalla lettura dei classici di varie letterature europee ed angloamericane, dall’amore per la poesia, la musica e il cinema di Francia - in particolare dei Poetes Maudits e della fioritura esistenzialista - dall’insegnamento nei liceo di Nimes, dalla frequentazione della Grande Maria Luisa Spaziani, nostra docente all’università di Letteratura Francese e grande della poesia contemporanea, e, mediante quest’ultima, anche di Eugenio Montale.
    Un gusto che nella Pandolfini si coniugava con un solido razionalismo mutuato da quel Gramsci alle cui idee di riscatto nazionalpopolare l’aveva educata il papà Ernesto, ma anche con una fede crescente in quel Cristo, nella cui presenza nella propria vita aveva trovato con fatica e amore tante certezze dopo anni di combattimenti e di paure.
    L’analisi dell’unicum poetico “La casa del Tempo” viene condotta  attentamente e con straordinarie intuizioni critiche dal giovane scrittore e saggista Antonio Roselli, che riesce a entrare in punta di piedi nel mondo luminoso di questa vera poetessa che ha sempre evitato ribalte e onori e considerato il linguaggio lirico solo uno spontaneo strumento espressivo della propria anima. (Bruno Demasi)

   Teresa Pandolfini : uno sporadico concerto nei frutteti

   Il tempo di Teresa Pandolfini è una dimensione insicura, una variabile di sentimenti capace di farci misurare con le angustie, gli abissi, la solitudine, le nebbie dell’inverno di una poetica che ancora oggi ci stravolge e si nega, che si sottrae e ci solletica dai recessi della sua essenza panica ed aspra.
   Una poetica difficile da combinarsi con la bambagia artificiale di tanta letteratura contemporanea.
   Non ci stupisce sapere, pertanto, che Teresa Pandolfini si custodì nel suo isolamento, lontana dalla “società letteraria” calabrese, non affermandosi, per come meritava, nonostante alcuni calorosi riconoscimenti .
   Si direbbe quasi che la sua inaccessibile dialettica interiore, tutta santa e melanconica, l’ha resa un’offerta sacra o il sacrificio di se stessa e della sua officina umana ed artistica.
   L’archivio dei suoi inediti, infatti, pare essere un’oreficeria poetica che attende il conforto di un meticoloso lavoro filologico.
   Malgrado questa sua condizione un po’ appartata, contigua alla discrezione ed al silenzio, cercherò dunque di sfiorare, con il mio acerbo fervore esegetico, il quadro delle sue brevi, compiute composizioni scelte contenute nell’ unicum La Casa del Tempo.

  Nella casa del tempo
in cima alla collina
di fronte al mare
vorrei essere ancora.

  Una rincorsa
e già nella pineta
accovacciato il corpo
aprivo un varco all’anima
per librarla in azzurro
o concentrarla
in una goccia di resina.

   Adesso
che la mia libertà
si muove
in troppo angusto spazio
quella di un tempo
ricerco, ritrovo
nel profumo di un ago
di pino.


   Le liriche, che hanno la sembianza di un raccoglimento estemporaneo, un piccolo angolo raccolto di una stanza, un luogo inaccessibile di una siepe incolta ; sono impolverate da un indiscusso manierismo linguistico intervallato da fuochi incantanti di lirismo.
   Tutto nasce da un doppio, contraddittorio movimento: da un lato vi è la fiera rivendicazione della propria genesi multietnica “Io qui sono nata\ da questo crogiuolo di razze\ e dentro me porto \sentori di coste lontane” , dall’altro la dolente autocritica , la pensosa inquietudine della maturità : “ Resta in me esile voce\ che si spegne \ col sole all’orizzonte\ che non sa più rincorrere le note\ del suo dolore antico”.
   Da quest’ultima analisi parte il Manierismo della Pandolfini. L’eredità contratta con il Simbolismo (non dobbiamo dimenticare la vocazione francesista della Nostra) viene fatta quadrare, sul piano poetico, con la lezione classica ( le rime alternate, incrociate e baciate di Jo soy), crepuscolare (come nei versi de La casa del tempo ) ed ermetica ( quanto è ungarettiana la Nostra : “Nel telo bianco e tiepido dell’alba\ mi avvolsi come nel grembo di mia madre” ).
   E’ interessante osservare, segnatamente, come il Simbolismo di Rimbaud, di Baudelaire, di Mallarmé impresti la sua lezione ad un’autrice che lo stravolge , ribaltando l’ avvilimento in un rimborso individuale e sociale , come comprovato con i versi di Kalabria : “ Qui sotto una zolla nascosto\ tra i bruni boschi d’aranci\ pulsa ancora sepolto \ il cuore degli uomini” , oppure in Visione:

    Il sole 
ha dissolto
le rocce
ed i miti.
   Il silenzio
contempla
la polvere.
   Ma le onde del mare
da cui, a tratti,
affiorano volti
rivelano
che tutto lì è custodito
e che dagli abissi
uomini – semidei
aprendo biblici varchi
si ergeranno sull’acqua.
   Risa di fauni fuggenti
risuoneranno tra viti.
   Le cime ondeggianti di ulivi
da altri mondi
trasmetteranno bagliori.
   Calabria
sarà Eden ed Ellade
e insieme Futura.


   Qui, come in Paesaggio, il peso del simbolismo viene trapassato, confuso : ciò che consideravamo cultura si fa natura primordiale e diventa materia di carne e sangue che soccorre un momento di dubbio, di immobilità, di sospensione ( Piove rada la luce sugli ulivi \ sopra gli ultimi merli del castello.\ Sulla valle che aspetta già domani). La ricerca di una corrispondenza tra la natura fisica e musicale delle cicale e del passerotto canterini, del Pan suonatore, delle risa dei fauni tra le viti; sembra giungere dall’eco dell’adorato Verlaine .
  La presenza della lirica Romanza sembra, assieme al dettato di Paysages du Midi, appartenere ad un caso a parte nella silloge, sia nella forma ( uno un poemetto e l’altro una prosa in lingua francese), sia nello stile .
  In Romanza, infatti, ritroviamo il dispiegamento di una vera e propria narrazione di storia familiare trasportata ed elevata dal realismo della cronaca , pur ancora percepibile, ad una ripetizione lirica che funge da pia raccomandazione ai figli : “Se andrai un giorno \ figlio\ nella lontana Argentina \ ricordati …”.
  Nella poesia l’imperativo “ricordati” è ripetuto ben quattro volte, non solo come efficace figura retorica, ma, altresì, come severo monito di recupero delle proprie radici antropiche , quasi un obbligo morale di affondare nella memoria rigenerante del sacrificio dei nonni emigrati.
  La “aspettativa della memoria” che in Romanza viene colmata con la certezza dell’inciso : “So che lo farai” è una costante delle quattordici composizioni de “La Casa del Tempo” . L’opera stessa si apre con l’eloquente dedica : “Al mio paese. \ Alla sua gente.\ Alle nostre comuni radici.” .
   Ed è proprio ad alcune di queste radici vigorose che si rifà la struggente descrizione di Tramonto a Oppido antica:

     Smettetela, cicale canterine!
    E’ giunta quasi l’ora del tramonto!
Piove rada la luce sugli ulivi
Sopra gli ultimi merli del castello
Sulla valle che aspetta già domani.

    Sul sentiero saltella un passerotto
Lentamente si spegne la canzone
Con la luce del sole sua compagna.

    S’alza forte un respiro dalla terra.
La porta Sud, presto, ombre, chiudete! 

                                                                            ( Antonio Roselli)