Sicuramente le migliori prove narrative di tanti scrittori calabresi si realizzano nei racconti brevi, che nel respiro di poche pagine o di poche righe riescano a cogliere e a fissare non solo delle sensazioni momentanee, ma delle immagini, delle espressioni e dei valori emblematici che vivono poi per sempre. Penso a Nicola Misasi, a Mario La Cava, a Saverio Strati, ma penso in particolare alla letteratura popolare orale ( raramente recuperata e tradotta per iscritto da qualche volenteroso, come Letterio Di Francia) giocata sui “fatti”, su aneddoti ampliati e arricchiti di bocca in bocca, su vicende narrative di respiro piccolo e contenuto, ma di grande portata esemplificativa e pedagogica.
Non sfugge a questa regola aurea Nino Greco, che dopo alcune fortunate esperienze narrative di più ampio respiro e altre di architettura romanzesca (“La tana del fajetto”) è tornato in questo volume ai suoi amati racconti brevi, a quei flash intrisi di ricordi e di rimpianti che già in precedenza aveva sperimentato con l’abituale fluidità di linguaggio mutuato dal parlato della sua infanzia e dal lessico popolare condito spesso da detti, proverbi e motti intramontabili.
E la magia della sua penna fertile e lieve, che scorre sinuosamente sui solchi della memoria, si riaccende ancora una volta e cattura la tua attenzione e ancora una volta dalle esperienze di un bambino, educato austeramente alla vita e al lavoro in un contesto contadino fortemente intriso di regole e di valori apparentemente immobili, è possibile trarre insegnamenti e ricordi che testimoniano una civiltà irrimediabilmente offuscata dalle maglie del tempo, ma mai soffocata del tutto, che Nino Greco sembra voler afferrare “dalle cime dei capelli” per riconsegnarla intatta al menefreghismo ciondolante di tanti giovani.
Ne è esempio molto eloquente questo racconto brevissimo, “Du’ Carminu”, che ritratteggia in poche pennellate la festa popolare della Madonna del Carmine in un paesino dell’Aspromonte e ne trae tutti i paradigmi possibili per riconsiderare le feste paesane come fenomeni non più popolari, ma che già 40 anni fa si avviavano a diventare borghesi : lo stupore e l’orgoglio di un bambino per la presenza e l’attenzione del cantante di turno; l’entusiasmo della folla paesana disposta a spendere più di quanto può permettersi in giochi effimeri e inutili, il paganesimo ridondante e mascherato di una religiosità priva ormai di ogni pathos e sempre più volta a favorire i consumi roboanti del nulla.
E subito dopo il ritorno di padre e flglio, ubriachi di luminarie e di boati, a quella madre terra avara e arida che per pochissime ore avevano lasciato in attesa del turno ambito dell'acqua per poterla amorosamente dissetare.
Un racconto, un libro, davvero simbolici e struggenti, da gustare con attenzione. (Bruno Demasi)
Non sfugge a questa regola aurea Nino Greco, che dopo alcune fortunate esperienze narrative di più ampio respiro e altre di architettura romanzesca (“La tana del fajetto”) è tornato in questo volume ai suoi amati racconti brevi, a quei flash intrisi di ricordi e di rimpianti che già in precedenza aveva sperimentato con l’abituale fluidità di linguaggio mutuato dal parlato della sua infanzia e dal lessico popolare condito spesso da detti, proverbi e motti intramontabili.
E la magia della sua penna fertile e lieve, che scorre sinuosamente sui solchi della memoria, si riaccende ancora una volta e cattura la tua attenzione e ancora una volta dalle esperienze di un bambino, educato austeramente alla vita e al lavoro in un contesto contadino fortemente intriso di regole e di valori apparentemente immobili, è possibile trarre insegnamenti e ricordi che testimoniano una civiltà irrimediabilmente offuscata dalle maglie del tempo, ma mai soffocata del tutto, che Nino Greco sembra voler afferrare “dalle cime dei capelli” per riconsegnarla intatta al menefreghismo ciondolante di tanti giovani.
Ne è esempio molto eloquente questo racconto brevissimo, “Du’ Carminu”, che ritratteggia in poche pennellate la festa popolare della Madonna del Carmine in un paesino dell’Aspromonte e ne trae tutti i paradigmi possibili per riconsiderare le feste paesane come fenomeni non più popolari, ma che già 40 anni fa si avviavano a diventare borghesi : lo stupore e l’orgoglio di un bambino per la presenza e l’attenzione del cantante di turno; l’entusiasmo della folla paesana disposta a spendere più di quanto può permettersi in giochi effimeri e inutili, il paganesimo ridondante e mascherato di una religiosità priva ormai di ogni pathos e sempre più volta a favorire i consumi roboanti del nulla.
E subito dopo il ritorno di padre e flglio, ubriachi di luminarie e di boati, a quella madre terra avara e arida che per pochissime ore avevano lasciato in attesa del turno ambito dell'acqua per poterla amorosamente dissetare.
Un racconto, un libro, davvero simbolici e struggenti, da gustare con attenzione. (Bruno Demasi)
NINO GRECO: “IL MARE A SINISTRA”
LA ROSA NEL POZZO EDITORE, 2022
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DU’ CARMINU
Quella sera mio padre pensò di portarmi alla festa della Madonna del Carmine: ero attratto dfalle feste e dalle fere, e lui lo sapeva.
Avrebbe fatto a meno di quella camminata dopo una dura giornata di zappa, ma pensò di propormelo come se fosse una ricompensa.
Partimmo dalla Foresta col sole che se ne stava calando, lui conosceva le ‘ccurciature, tanto che in un’ora fummo a Varapodi.
La processione stava per finire, la vara con la Madonna era sul punto di fare rientro in chiesa; facemmo un giro tra i ferari, tra mustazzoli, nucilla e ciciri.
Il caldo torrido di quel giorno di luglio si era aggrappato ai muri e dava l’impressione che volesse essere anch’esso della festa.
Là ,in piazza, su una panchina dietro al palco, proprio vicino alla scaletta che portava su, vedemmo nostro zio Nino, fratello di mio nonno; ci avvicinammo e mi sedetti accanto a lui. Rimasi lì in attesa dei cantanti.
Avrebbe fatto a meno di quella camminata dopo una dura giornata di zappa, ma pensò di propormelo come se fosse una ricompensa.
Partimmo dalla Foresta col sole che se ne stava calando, lui conosceva le ‘ccurciature, tanto che in un’ora fummo a Varapodi.
La processione stava per finire, la vara con la Madonna era sul punto di fare rientro in chiesa; facemmo un giro tra i ferari, tra mustazzoli, nucilla e ciciri.
Il caldo torrido di quel giorno di luglio si era aggrappato ai muri e dava l’impressione che volesse essere anch’esso della festa.
Là ,in piazza, su una panchina dietro al palco, proprio vicino alla scaletta che portava su, vedemmo nostro zio Nino, fratello di mio nonno; ci avvicinammo e mi sedetti accanto a lui. Rimasi lì in attesa dei cantanti.
Un’aria surreale avvolgeva Varapodi: tanti devoti della Madonna del Carmine, tanta gente e un vocio costante che faceva da sottofondo alle prove dei musicisti.
Poi una calca di persone verso di noi: ragazzi che accorrevano e le guardie comunali che schiudevano un corridoio per i protagonisti della serata. Loro, i cantanti, erano a un passo da me vestiti di bianco e, man mano che salivano, andavano a prendere posto: batteria, tastiera e chitarre.
Gli applausi di attesa si alzarono, le grida di tripudio fecero intendere che l’attesa era stata tanta; l’ultimo di loro, il cantante, prima di salire, sostò un attimo accanto a me: capelli corvini alla moda e una barba giovane e nera che gli contornava la mandibola, mi guardò dall’alto verso il basso attraverso gli occhiali spessi come culacchi di bottiglia, mi sorrise e mi chiese:
Poi una calca di persone verso di noi: ragazzi che accorrevano e le guardie comunali che schiudevano un corridoio per i protagonisti della serata. Loro, i cantanti, erano a un passo da me vestiti di bianco e, man mano che salivano, andavano a prendere posto: batteria, tastiera e chitarre.
Gli applausi di attesa si alzarono, le grida di tripudio fecero intendere che l’attesa era stata tanta; l’ultimo di loro, il cantante, prima di salire, sostò un attimo accanto a me: capelli corvini alla moda e una barba giovane e nera che gli contornava la mandibola, mi guardò dall’alto verso il basso attraverso gli occhiali spessi come culacchi di bottiglia, mi sorrise e mi chiese:
- Non ti diverti?
Annuii e risposi al sorriso, vergognoso, con la timidezza di un decenne.
Forse il caldo e l’aria stanca avevano reso serio il mio volto e gli avevano dato l’impressione di una mia indifferenza.
La serata scorse via festante: io la vissi con l’animo di chi aveva avuto il privilegio di parlare col cantante. Lui cantò e, quando intonò “Come potete giudicar”, la piazza sembrò non contenere ler grida di gioia e i battimani.
Poi la festa finì, le note si fermarono;la botta scura che anticipava i fuochi aveva scosso anche i paesi vicini e le successive rosate degli spari ci colsero che eravamo già sulla strada che costeggiava il campo sportivo, di ritorno verso la Foresta. Una notte di lavoro ci attendeva, il nostro turno iniziava alle due. Tre ore ancora per bivarare e poi a dormire sul pagliericcio.
Forse il caldo e l’aria stanca avevano reso serio il mio volto e gli avevano dato l’impressione di una mia indifferenza.
La serata scorse via festante: io la vissi con l’animo di chi aveva avuto il privilegio di parlare col cantante. Lui cantò e, quando intonò “Come potete giudicar”, la piazza sembrò non contenere ler grida di gioia e i battimani.
Poi la festa finì, le note si fermarono;la botta scura che anticipava i fuochi aveva scosso anche i paesi vicini e le successive rosate degli spari ci colsero che eravamo già sulla strada che costeggiava il campo sportivo, di ritorno verso la Foresta. Una notte di lavoro ci attendeva, il nostro turno iniziava alle due. Tre ore ancora per bivarare e poi a dormire sul pagliericcio.
Seguivo attento dall’altra parte della rasula le votate di mastra di mio padre e quando qualche nuvolata copriva la poca luna, mi abbassavo per controllare con le mani se l’acqua avesse inzuppato a modo la terra e tutte le rangare.
Il sonno addentava le palpebre, la stanchezza mi faceva desiderare oltre misura la lettiera, ma mi sentivo appagato: in fondo, se quella sera non fossi stato alla festa, mi sarei perso il garbo, il sorriso e la voce di Augusto Daolio.(Nino Greco)
Il sonno addentava le palpebre, la stanchezza mi faceva desiderare oltre misura la lettiera, ma mi sentivo appagato: in fondo, se quella sera non fossi stato alla festa, mi sarei perso il garbo, il sorriso e la voce di Augusto Daolio.(Nino Greco)