mercoledì 30 ottobre 2024

LA MERAVIGLIA DELLA MADONNA DELLA GROTTA DI BOMBILE ( di Gianfrancesco Solferino)


    Quando Gianfrancesco  qualche tempo fa mi mandò questo stupendo pezzo sulla Madonna di Bombile, grondante commozione e sapienza mariana, oltre che spasmodica cura critica  e artistica, mi pregò di non pubblicarlo subito  sul blog per... questioni editoriali.  Ma non erano tali o soltanto tali. Non era forse  maturo il tempo che egli si era dato , che aveva cercato, scavato, rovistato per rivisitare ancora una volta la superba tradizione mariana che emerge in queste righe scritte con l'inchiostro dell'anima e preparate in innumerevoli pellegrinaggi minimali ai luoghi dell'Infinito di cui è costellata la Locride nella sua sacralità senza tempo.
   Se non rischiassi di  offuscare  l'armonia magnifica in cui si immergerà chi vorrà leggere questa pagina, che oggi propongo rapito dalla sua freschezza,  potrei qui scrivere molte altre cose su questo brano di grande memoria  e  su questo autore e poeta insuperato e forse insuperabile nella critica d'arte sacra  in Calabria, e non solo in Calabria, ma è un  delitto che mi guardo bene persino dal tentare..Grazie, Gianfrancesco! Grazie anche a nome dui chi leggerà e si fermerà a contemplare ciò che irrimediabilmente questo tempo malato e l'ottusità di tanti fra noi vorrebbe  cancellare  per sempre. (Bruno Demasi)
 
    
Immaculatae
semper Virgini
Dei Genetrici Mariae
per Christum praeservatae
per Franciscum defensae
humillimus labor
   dicatus

   
«E quant' è bella 'sta divina Matri,  mirati com' aspetta li divoti...» 

L'intuizione del privilegio mariano dell'immacolato Concepimento  e i riflessi della devozione popolare 
nella Madonna della Grotta di Bombile, mirabile artificio di Antonello Gagini.  
 


«E quant' è bella 'sta divina Matri
mirati com' aspetta li divoti.
Illa pe' fari grazzi è fatta apposta
e d'ogni guerra la paci s'aggiusta
e di li ciechi si duna la vista
li peccaturi ca li fa cuntriti.
E chistu è dunu di chista gran Matri 
sa' benidittu Diu e chi 'ndi la fici
illa fu fatta di lu Ternu Patri
'nterra la misi pe' gran Maestati
E 'ssi bellizzi vui, gioia, ch' aviti
non fu lu mastru chi vi l'ha formati
ca fu abbracciu di Diu chi s' è mentutu
pe' maravigghja di cu' v' ha criatu...»[1]

    La plurisecolare confidenza che lega il popolo di questo estremo lembo di Calabria al sembiante marmoreo della Signora che "abitava" la Grotta di Bombile è una tra le testimonianze più antiche della pietà mariana locale, patrimonio di fede, di storia e di arte che ancor oggi resiste in virtù di quella viscerale affezione che i fedeli nutrono nei confronti dell'immagine della Vergine. Una devozione che ha metabolizzato, anche sul piano affettivo, la perdita - dieci anni or sono - della suggestiva cornice ambientale ove la statua albergava, la grotta scavata ai primordi del Cinquecento dagli eremiti Zumpaniani, che, senz'ombra di dubbio, ha rappresentato una peculiare attrattiva agli occhi dei visitatori di tutti i tempi.
    L'impervia bellezza che caratterizza i fianchi tufacei delle colline ardoresi ha contribuito a radicare nell'immaginario collettivo il fascino verso il piccolo Santuario rupestre, luogo quasi inaccessibile e assolato, immerso in una dimensione "altra", ascetica e dunque ben lungi dalla quotidianità, ma che pur tuttavia ben esprimeva le molteplici, contrastanti realtà della nostra terra. L'asprezza del paesaggio circostante, impenetrabile e discosto dalle assolate marine, ideale ricettacolo per le popolazioni rivierasche storicamente vessate dalle incursioni nemiche, si poneva al tempo stesso in contrasto con la percezione di accoglienza offerta dall'antro naturale nel quale i pellegrini venivano confortati dalle soavi fattezze dell'immagine divina. La distruzione del Santuario ha materialmente interrotto quel rapporto che, per secoli, i fedeli hanno instaurato con la dimensione catartica della Grotta di Bombile, giacché in essa riconoscevano la meta di un cammino di penitenza spirituale, oltre che fisica, un "accesso" simbolico alle viscere della terra dimorate dalla Madre di Dio, e dunque un luogo privilegiato dove essere abbracciati e riconciliati con il divino. Non a caso, l'ultimo tratto del pellegrinaggio imponeva la discesa di una ripida scalinata, formata da 141 gradini ricavati nel tufo, che per devozione i fedeli percorrevano in ginocchio molto spesso trascinandosi carponi fino ai piedi dell'altare. Qui avveniva l'atteso incontro con il volto di Nostra Signora, la cui diafana bellezza era rischiarata, nella penombra raccolta dell'antro, dalla luce tremolante dei ceri e dalle lampade ad olio che le ardevano perpetuamente innanzi. 

    La visione del simulacro era in grado di sciogliere la più pertinace ritrosia, di ammaliare e al tempo stesso "ferire" lo sguardo dei fedeli, di sollecitare materialmente un intimo e accorato dialogo intessuto nella mai stanca ripetitività dell'incontro, espresso attraverso gesti e parole di ancestrale memoria. Si dispiegava così, spontanea e incontenibile un'onda di forte emotività che dalla brulicante massa dei pellegrini si infrangeva sull'immota maestà marmorea e, per una misteriosa osmosi, vi faceva ritorno attraverso un senso di rassicurazione e di tenerezza riverberato dalla bonomia del volto.
    Ecco l'ubi consistam, ossia il senso più recondito del canto da noi utilizzato come titolo della presente riflessione, un verso nel quale anche l'inanimata stanzialità dell'opera d'arte, riletta attraverso i filtri della pietà popolare, gode di una vitalità divina ed è capace di interagire con i fedeli, addirittura "aspettando" e quindi accogliendo i devoti nella Grotta. La spontaneità del linguaggio vernacolare, dai toni apparentemente trasognati e fanciulleschi, affronta con inaspettata profondità i molteplici vincoli relazionali che legano il popolo al Trascendente: lo fa ricapitolando la vastità dei drammi della realtà umana, il peccato in primis, le malattie e i disastri naturali - soltanto per citarne alcuni - ovvero quei dinamismi dell'umana esperienza dinanzi alla cui imponderabilità null'altro si può implorare se non la misericordia, il perdono, l'accettazione.
    Per di più, il canto sacro dialettale è depositario della storia, spesso velata dai toni leggendari, dell'epos fondativo dei luoghi di culto, dei fenomeni soprannaturali più eclatanti e, non in ultimo, del ruolo determinante delle immagini sacre, che costituiscono il perno iconico e devozionale intorno al quale ruota l'interesse dei fedeli, oltre che rappresentare, come ben espresso nel nostro caso, un segno provvidenziale della Misericordia divina. La bellezza ineffabile della statua del Gagini, secondo l'autore dei versi ancora oggi in uso nel repertorio dialettale di Bombile, è espressione intellegibile della Trascendenza, una forma tridimensionale del divino che rende viva e interagente la forma scultorea così da scioglierne la fredda monumentalità e fare del marmo una materia dinamica. In virtù del potere taumaturgico "insito" nella statua - così come dice il canto - ogni grazia viene qui accordata, sia essa fisica o spirituale, personale o comunitaria, giacché la Vergine Maria si degna di manifestarsi nella sua «Maestati», nel ruolo cioè di Omnipotentia supplex, per usare le straordinarie parole di San Bernardo, che tutto può dinanzi a Dio.
    La statua marmorea, preziosa ed elegante nelle sue trasparenze alabastrine, diventa immagine paradigmatica della Vergine, depositaria di un munus che non è solo effingendi ma anche cum-subsistendi tant'è che nell'intendimento del poeta la bellezza esteriore del simulacro non è da rapportarsi solo all'abilità tecnica dell'artefice ma «all'abbracciu di Diu», ossia alla mano del Creatore, che ha fatto della Vergine Maria una «maravigghja», metaforicamente e artisticamente parlando. Ciò pure in considerazione di un più antico topos letterario secondo cui la statua marmorea, commissionata da un non ben identificato mercante, sarebbe stata completata nella bottega dell'artista da una mano angelica, se non del tutto da quella di Dio, «pe' maravigghia di cu v' ha criatu». 

    Ma, a tal proposito, ci sembra quanto mai importante sottolineare che il potere taumaturgico di cui ab origine è stata insignita la statua della Grotta, si è materialmente concretizzato nello splendore soprannaturale di cui è circonfusa la scultura, splendore che senz'ombra di dubbio - a detta di chi ha interpretato il comune sentire attraverso il canto - dev'essere restituito al sommo Demiurgo, l'unico Artista capace di concepire un capolavoro di tal fatta qual è la Vergine Maria, creatura perfetta tanto nella sua realtà storica di Madre di Dio quanto in quella artistica di scultura. E' evidente che quando il popolo si appropria della dimensione iconica dell'immagine sacra, conferendole un'identità quasi "idolatrica" nel suo rapporto con l'Archetipo, "costringe" all'interazione psicologica ed emotiva anche l'immota imperturbabilità del manufatto vulnerandola nella sua più scontata astrazione formale, per farla entrare compiutamente nell'hic et nunc dell'azione cultuale. Una consustanzialità, quella tra il sacrum e il simulacrum, oggi inconcepibile ma che allora trovava giustificazione nello sforzo di insegnare, anche grazie al canto vernacolare, concetti trascendenti rendendoli semplici, comprensibili, quanto più aderenti all'osservanza della dottrina cattolica.
    L'apparente iconolatria che alberga tra le pieghe della pietà popolare rappresenta, sotto un profilo prettamente liturgico e al tempo stesso antropologico, il risultato di un'evoluzione complessa che trae le sue origini da un rapporto modificato tra l'immagine sacra e i fedeli. Non è un mistero che il ruolo catechetico e parimenti politico dell'arte sacra sia stato introdotto anche in Calabria già agli albori della dominazione bizantina, durante la cui lunga e travagliata soggezione l'uso delle immagini sacre e delle rappresentazioni pittoriche è stato veicolato come unico, necessario strumento di inculturazione alla fede per le masse. L'azione cultuale riservata in particolare alle icone, oltre che ai grandi cicli ad affresco per i quali vigeva l'impiego di schemi collaudati nel significato teologico oltre che narrativo, rappresentava dopo la celebrazione liturgica l'espressione più alta della fede, giacché come diceva San Basilio Magno «l’onore dell’immagine si riversa sul prototipo»[2].
    Nel messaggio figurativo, tuttavia, è possibile cogliere inaspettate sfumature politiche atte a rimarcare anche attraverso la composizione teologico-gerarchica dei personaggi sacri il centralismo del potere bizantino, efferato nel gettito fiscale imposto al di là del Bosforo ma pressoché assente nella gestione militare dei propri domini che, come quello bruzio, si ritrovarono costantemente indifesi, oltre che in una drammatica condizione di indigenza e di arretratezza culturale. Gli esiti di questa complessa dinamica storico-politica ebbero riflessi particolarmente significativi sul territorio calabrese, in modo del tutto singolare su alcune aree rimaste culturalmente e spiritualmente legate a Costantinopoli anche dopo la conquista normanna, come la Diocesi di Gerace, cuore della Locride, che conservò il rito greco-ortodosso fino al 1480[3], anno della latinizzazione imposta da Sisto IV. L'atto quasi "coercitivo" con il quale i fedeli furono costretti ad abbandonare il patrimonio figurativo bizantino passando dalla bidimensionalità delle icone alla tridimensionalità della scultura e, dunque, ad un diverso uso liturgico, concettuale e quindi anche relazionale dell'eikon - sostituzione che è già stata paragonata per certi versi ad un'incruenta forma di neo-iconoclastia in pieno evo moderno[4] - ebbe tra l'altro come singolare esito un importante implemento di opere marmoree che proprio sul fare del XVI secolo presero a soppiantare in gran copia le opere più antiche nelle chiese della Provincia reggina, così come in quelle di gran parte della Regione. Un processo veicolato molto spesso dagli Ordini mendicanti mercé il sostegno della committenza altolocata in grado di sostenere il consistente onere economico dei manufatti marmorei. E non deve apparire una semplice coincidenza se al processo di latinizzazione "artistica" della Diocesi geracese abbia contribuito anche Antonello Gagini attraverso un capolavoro di non comune prestanza, nel quale albergano sostanziali novità iconologiche. Novità che sono l'oggetto della nostra riflessione. 

    Non è in realtà intendimento del presente saggio aggiungere ulteriori chiarimenti sulla vicenda attributiva del simulacro di Bombile, men che meno puntualizzare su quanto già argutamente avanzato alcuni anni or sono anche in merito all'opera del Gagini in Calabria[5]. Rimane piuttosto un nostro convincimento l'esistenza di una peculiare verve comunicativa, profondamente radicata nella produzione gaginiana, che sostanzia l'intuizione del maestro specie nella redazione dei simulacri mariani. La purezza evanescente dei volti del Bambino Gesù e della Madre, torniti con altrettanta pietà dal Panormita nella lattiginosa massa di marmo, manifesta severità e compunzione, magnificenza e al tempo stesso quotidiana bellezza, quasi come se la fissità di quegli sguardi, a stento disegnati dalle policromie superstiti, non fossero stati pensati per bloccare nel tempo il ritratto di una regalità imperturbabile ma piuttosto il sorriso accondiscendente di una creatura comune. Anche lo sguardo, segnato dalle pupille appena accennate, appare vetrificato - al pari delle ceramiche robiane - nell'istante di una immutata predisposizione, quella dell'ascolto.
    In effetti i fedeli, soffermandosi dinanzi alla maestà del Gagini, rimangono sopraffatti da questo moto perpetuo ma pur sempre cristallizzato, dalla voce sottile taciuta nel marmo, dalla tenerezza di uno sguardo che sa intercettare quello dei figli, ne scruta interiormente l'affanno, ne scioglie senza difficoltà le reticenze. Il popolo, che è primo, immediato destinatario di questi capolavori, continua attraverso i secoli a percepire il significato, a interiorizzarne il messaggio. Con confidenza filiale si è accostato e continua ad accostarsi alla "fredda" maestosità di questo blocco alabastrino: la materia, la forma, la nobiltà dei panneggi, l'involversi monumentale delle masse lo diletta ma non lo carpisce. Senza nulla togliere alla grandiosità dell'effetto complessivo e alla grazia sovrumana che promana dalla scultura, il cuore dei semplici attende di essere trafitto dallo sguardo della Madre, di essere rassicurato nella solerte attesa, lì, nell'antro del santuario. E quando l'attesa si scioglie e le mani supplichevoli si posano sui piedi calzati della Vergine, sui lembi originariamente cerulei del manto, anche l'alabastro diventa materia viva, le labbra disegnate dal Gagini si dischiudono per sussurrare parole mai dette che solo gli animi sensibili possono intercettare. E il Bimbo che sembra intento ad accarezzare il pennuto con la mano sinistra, riprende la sua dimensione reale, teologicamente più calzante e ortodossa, quella, cioè, del Cristo Redentore, adagiato sul braccio della madre perché Ella lo manifesti al mondo, e come Odegitria lo indichi ai redenti. 

    Il misticismo che affiora in modo sottile ma evidente dall'analisi dell'opera è in realtà una componente fondamentale nella produzione gaginiana e, più d'ogni altro riferimento, tende a manifestare nello scultore Panormita una singolare attenzione nel trattamento dell'iconografia mariana. Si delinea costante, infatti, nel suo catalogo un carattere inconfondibile, o meglio, un particolare interesse nell'approfondimento delle molteplici sfumature dell'espressività mariana, esternata attraverso i moti dell'animo e nella modulazione di semplici gesti che tendono a restituire concretezza all'umanità della Vergine e del Bambino. Ciò in aperto contrasto con la visione più distaccata e idealizzata delle divine maternità rinascimentali, spesso ispirate ad una grazia arcadica distolta dal tempo, dallo spazio e, in qualche modo, distante dai fruitori. Non è un mistero, infatti, che la produzione artistica quattrocentesca sia venata, se non del tutto condizionata, dai riflessi della cultura neoplatonica, a discapito di una spiritualità genuina e accondiscendente verso le esigenze cultuali delle masse sempre più isolate da un linguaggio figurativo aulico, talvolta del tutto criptico. Tale riflessione appare evidente se accostiamo la scultura di Bombile con il capolavoro fiorentino della Madonna delle Neve di Benedetto da Maiano, celebre altorilievo considerato come l'archetipo al quale Gagini si ispirò costantemente in gran parte della sua produzione[6].
    Antonello, che probabilmente attese in veste di allievo alla redazione del dossale commissionato da Marino Correale per la Chiesa dei Celestini di Terranova Sappo Minulio, non si limitò a trarre dal disegno del maestro un'ispirazione da ripetere ad libitum ma volle interpretare criticamente l'assunto maianesco sviluppando una visione personale, in qualche modo innovativa sul tema mariano, e più in generale sul repertorio della storia sacra. Durante gli anni della formazione fiorentina presso la bottega di Benedetto, segnati dal confronto con i grandi temi culturali che attraversarono la capitale medicea e che di lì a poco furono sovrastati dal nascente astro michelangiolesco, Gagini ebbe modo di perfezionarsi non soltanto sotto il profilo tecnico affinando la sua innata versatilità in scultura ma anche di conoscere i nuovi fermenti teologici e i dettami culturali e iconografici che giungevano dalla corte di Francesco della Rovere, salito al soglio pontificio col titolo di Sisto IV.
    Per quanto determinante possa essere stata la "folgorazione maianesca" sull'impostazione linguistica del giovane Gagini, nulla vieta di considerare a latere la spiccata inclinazione dello Scultore panormita verso un pietismo elegantemente semplice e devoto, genuinamente popolare, concreto pur se rivestito da quegli slanci ricercati e magniloquenti dello stile contemporaneo. Forse è proprio nella summa della poetica gaginiana che per la prima volta sul fare del Cinquecento è pace fatta tra le più ricercate formule della maturità rinascimentale e una profonda percezione della pietas popolare, il cui spessore innovativo e consapevole porta - a nostro avviso - i segni indelebili dell'apostolato francescano. Nella ricerca di una sua personale visione del sacro, Gagini sembra voler impolpare la bellezza epidermica dei maestri contemporanei con una muscolatura teologicamente compatta, vibrante di tensione emotiva e di consapevolezza del Soprannaturale, prossima a quanto lo stesso papa Della Rovere impone nella gestazione del primigenio cantiere della Cappella Sistina, la cui originaria dedicazione, nominale e iconografica, era intitolata alla Vergine Assunta. Ben noti sono gli sforzi compiuti dal Pontefice ligure, illustre teologo dell'ordine Minore, per imporre malgrado i contrasti del tempo, la festa dell'Immacolata Concezione della Vergine Maria, il cui dogma, sebbene ancora lungi dall'essere proclamato, viene però presentato alla Chiesa romana sotto forma di devozione teologicamente dimostrata, così come teorizzato nel XIV secolo dal Beato Giovanni Duns Scoto, nonché dalle innumerevoli schiere dell'Ordine serafico che ne avevano sposato la causa. 

    Il pensiero di Francesco d'Assisi, la cui metanoia spirituale, culturale e sociale, sovvertendo ogni assunto, fu la scaturigine del Rinascimento italiano[7], sembra rivelarsi in maniera ugualmente efficace anche nella gestazione di alcuni temi iconografici adottati da Antonello Gagini, temi la cui novità, sebbene finora passata inosservata, non potrebbe spiegarsi altrimenti se non attraverso un'adesione convinta all'intuizione teologica dell'Assisiate. La visione cristocentrica del Serafico, che restituisce preminenza dottrinale all'incarnazione di Cristo nel tempo e nella storia, implica nuovi spunti di riflessione sulla dimensione creaturale del Figlio di Dio, sull'umanità rinnovata dal suo avvento, sul mistero della kenosi, ossia lo "svuotamento" del Logos divino[8], che in totale obbedienza al Padre si consegna volontariamente alla morte come supremo atto oblativo per la salvezza dell'uomo.
    Nella realizzazione di alcuni esemplari di tabernacoli eucaristici, lo Scultore, squinternando quegli schemi convenzionali oramai collaudati, impone l'uso di una nuova partitura strutturale e iconografica il cui intento catechetico è anteposto a qualsiasi altra esigenza rappresentativa o più semplicemente estetica. In questa priorità "narrativa" delle scene, Gagini affronta con estrema chiarezza i temi sacri stemperando i toni aulici mutuati negli anni della formazione toscana, utilizzando un pittoricismo fresco e al tempo stesso quasi popolare, venato di sentimenti e di emozioni che riportano il ductus scultoreo ad una spontaneità quasi innata. Il Sacro viene "calato" nuovamente nella realtà umana, la tridimensionalità delle forme torna a battere di vita e soprattutto a colorarsi, non cromaticamente ma emotivamente, attraverso l'impiego di una gamma di sfumature affettive che sono ben lungi dalla misurata bellezza impressa nel marmo da Benedetto da Maiano. Così facendo, Antonello trasforma i suoi rilievi in trompe l'oeil attraverso i quali permette all'osservatore di compenetrarsi spiritualmente nella narrazione figurativa, rivitalizzando la finitudine materica e, altresì, stemperando psicologicamente quel carattere aulico, aristocratico della scultura rinascimentale, meno accessibile all'intelligibilità delle masse. In questo processo di semplificazione teologico-figurativa, che non può prescindere da una metabolizzazione personale del messaggio evangelico, ci sembra di rintracciare le ragioni del successo raggiunto dal verbo gaginiano. 

    Nel retablo di Santa Cita a Palermo[9], molto simile alla redazione di Roccella Valdemone[10], Antonello pone in primo piano la scena della Natività di Cristo: come spesso accade nelle rappresentazioni pittoriche coeve, il Bambino Gesù è deposto dalla Madre per terra, quasi sull'orlo del piano prospettico, in asse con la porticina del tabernacolo che si trova nella predella sottostante. L'impianto non è casuale, giacché l'Artista ha scelto di porre in correlazione iconografica e teologica l'incarnazione di Cristo con la custodia delle Specie eucaristiche dimostrando anche figurativamente il rapporto causa-effetto della transustanziazione adombrato dal più celebre versetto biblico di Geremia, poi ripreso nel Vangelo di Giovanni: «Verbum caro factum est et habitavit in nobis» (Gv, 1, 14). Con questo escamotage, il Panormita sottolinea come la realtà dell'incarnazione storica di Cristo si sia perpetuata nella sacre specie eucaristiche attraverso le quali Egli è realmente presente con il suo corpo ed il suo sangue. Ancor più efficace è l'azzardo teologico del Tabernacolo del Museo di Messina[11], sviluppato verticalmente su quattro registri scanditi non da elementi architettonici ma dalle sole figure angeliche. Nella fascia centrale si staglia la triplice rappresentazione cristologica: in alto, il Figlio di Dio si manifesta come Pantocratore, scorciato di tre quarti mentre giganteggia benedicente sulla scena; al centro appare nell'immagine trasfigurata della resurrezione, mentre gli angeli ostendono i simboli della passione; in basso il Salvatore appare ridotto al solo volto, iscritto nel clipeo che sovrasta l'elegantissimo tempietto eucaristico, appena leggibile nell'evanescente trattamento scultoreo dello stiacciato. Ci troviamo dinanzi ad una traslazione figurativa del "Trisaghion" incentrata sulla triplice azione di Cristo, seconda Persona della Trinità e, per questo, Creatore, Redentore e Pane eucaristico. Altrettanto efficace è l'iconografia nel tabernacolo di Ciminna[12] nel quale il Vir dolorum, affiancato dall'Addolorata e da Giovanni, lascia cadere pietosamente le sue mani piagate intorno alla custodia eucaristica, posta nel registro inferiore, mentre sulla predella scorre a caratteri cubitali il celebre verso di Tommaso d'Aquino «Tantum ergo Sacramentum».
    Il tema dell'incarnazione ritorna bellamente anche nel Tabernacolo di Tusa[13], che Kruft attribuisce alla bottega di Antonello ma nel quale ci sembra quanto mai vibrante l'intuizione primigenia del maestro: la custodia, racchiusa nel comparto centrale, è affiancata ai lati dalla raffigurazione dell'Angelo annunziante e della Vergine annunziata, accostamento iconografico che ribadisce teologicamente il concepimento di Cristo e la sua reale presenza nel mondo attraverso l'Eucarestia. 

    In quest'ottica assume un altro aspetto anche la rappresentazione della Madre di Dio, il cui ruolo corredentivo nell'economia della Salvezza, si traduce in molteplici spunti di riflessione che pongono l'accento sull'Immacolata Concezione della Vergine Maria, per la quale Antonello non sembra nascondere una singolare devozione. Benché siano ancora lontane le prime rappresentazioni iconografiche del Privilegio mariano, intese nella citazione dei simboli apocalittici - in particolar modo il serpente diabolico con la mela del peccato e le falci della luna - Gagini adombra efficacemente in numerose opere il senso più profondo dell'Immacolata, o meglio, spiega nella rappresentazione figurativa il rapporto causa-effetto che teologicamente motiva la preservazione dal peccato originale della Madre di Dio fin dal suo concepimento. La scaturigine di questa intuizione, così significativa anche sotto il profilo espressivo, risiede nell'Oratio propria della festività mariana, istituita da Sisto IV l'8 dicembre 1480 e da questi appositamente commissionata al canonico veronese Leonardo de Nogarolis: «Deus qui per Immaculatam Virginis Conceptionem, dignum Filio tuo abitaculo preparasti, quaesumus: ut quae ex morte eiusdem Filii tui praevisa, eam ab omni labe praeservasti...»[14]. Maria Santissima, pensata da Dio per diventare «degna abitazione» del Figlio Unigenito, «in previsione della morte di lui» è stata «preservata da ogni colpa». Nella statua catanzarese della Vergine delle Grazie, che Antonello scolpì per i Minori Osservanti nel 1504[15], la mestizia inquieta che avvolge lo splendido ovale della Madre stride con l'ilare espressione del Bimbo, quasi inconsapevole nel gesto di ricevere dalle mani della Madre la mela. Infatti Maria porge al Figlio il simbolo del peccato originale che Cristo è venuto a mondare col sacrificio della croce. Il drammatico presagio della morte che sembra incombere sul volto rattristato e pensoso della Vergine, si riflette potentemente sulla compassata gestualità di tutto il corpo, irrigidendo anche l'orchestrazione dei volumi scultorei dei panneggi. Le ricercate sgualciture con le quali Antonello è aduso pronunciare gli effetti di ricercata naturalezza del suo modellato, si rastremano nella scultura catanzarese in semplici, taglienti masse di pieghe, che ricadono sulla base quasi a voler simulare un drappo inanimato, una prefigurazione del sudario di Cristo.
    Anche nella Vergine Annunziata di Bagaladi, il cui volto appare dolcemente rapito nell'estasi della scena, Antonello lascia trasparire la razionale risolutezza della fanciulla di Nazareth dinanzi al Nunzio angelico. La mano destra, sollevata verso l'alto e rivolta all'Angelo non sembra, infatti, manifestare il senso di un semplice saluto ma piuttosto di tradurre con estrema naturalezza il lecito quesito avanzato dalla Fanciulla nella narrazione evangelica: «Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco?» (Lc 1, 34-35).
    Per quanto importante e di indiscusso successo presso la committenza, la rappresentazione della Madonna col Bambino è comunque oggetto di meditazione da parte del Panormita il quale a motivo di ciò si è cimentato nella redazione di un vasto repertorio iconografico, ricco di opere tutte diverse tra loro, alcune invero meno riuscite, altre eccezionali per freschezza e singolare comunicatività. Ognuna di esse affronta un aspetto sempre nuovo della dimensione umana e divina della Vergine, sfumature psicologiche ed espressive che attraverso la regalità manifestano l'umiltà di Maria, sottolineando il ruolo unico ed irripetibile che è stata chiamata a svolgere come Madre di Dio. Il repertorio gaginiano spazia sui riferimenti più disparati provenienti dalla tradizione, passando dalla tenerezza materna del rilievo di Alcamo, dove la Vergine sfiora lo zigomo del Bambino in un gesto paragonabile ad una Eleusa bizantina, alla compassata immagine della Vergine allattante di Vibo Valentia, o della Chiesa domenicana di Catania[16], fino ai vertici raggiunti nella spettacolare redazione del Duomo di Siracusa[17], ove la divina maternità è sopraffatta dalla delicata fisionomia dei volti, prossimi alla freschezza di un ritratto dal vero. Molteplici sono, poi, i dialoghi figurati tra Cristo e la Madre, allusivi al ruolo di intercessione che la Vergine svolge presso il Figlio in favore dell'uomo, come nella statua conservata a Santa Lucia del Mela[18], dove la mano destra della Madonna sembra accogliere e contemporaneamente presentare al Bambino, teneramente abbracciato, le implorazioni dei fedeli radunati ai suoi piedi.

    Antonello Gagini, assecondando una personale, devotissima interpretazione della Madre di Dio, si è fatto cantore della pietà popolare, partecipando consapevolmente alla codificazione di linguaggio espressivo in grado di cogliere le esigenze relazionali dei fedeli. Scorgiamo nella profondità del suo sentire l'esigenza, o sarebbe più corretto dire, l'anelito di ricongiungere attraverso l'ingegno demiurgico dello scalpello la bellezza del Creatore alla bellezza "sciupata" delle creature, quasi a voler dimostrare nella perfezione iconica del sacro la nostalgia verso quella divina Perfezione, che del creato fece un capolavoro unico ed irripetibile. Il respiro di tanta sensibilità ha impresso un sigillo spirituale che in tutto è debitore al Francescanesimo. Forse Antonello fu seguace del Poverello d'Assisi tra le foltissime schiere dell'Ordine Secolare? Si lasciò anch'egli trascinare da quell'amore sconfinato verso il Cristo, povero e crocifisso, che cambiò la vita di Francesco e che, innegabilmente, ritorna anche nella sua produzione scultorea attraverso queste pagine di evangelica bellezza modellata nel marmo? Un'ipotesi non del tutto peregrina, ma che deve essere provata.
    Ben altra verità, fino a prova contraria, inoppugnabile è il successo riscosso dalle sue opere. Un successo che superando il limite della semplice approvazione estetica e formale, ha coinvolto - e continua a coinvolgere - l'attenzione del popolo azzerandone le differenze sociali e culturali. Il marmo, ne abbiamo avuta chiara dimostrazione, si è fatta materia viva e plasticamente adatta ad esprimere le sfumature emotive e psicologiche del Sacro. Al cospetto di capolavori senza tempo come la Madonna di Bombile, continua dunque a dispiegarsi il moto drammatico dell'animo umano e quella recondita, insopprimibile esigenza di contatto con Dio, che si fa presente nella realtà sensibile anche attraverso il sembiante accondiscendente e tenero di una maternità.
    Forse è per questo che ancor oggi i pellegrini, faticosamente giunti per mille strade al cospetto della statua del Gagini, cantano accoratamente:
«Quant'è bella la Madonna di la Grutta,
pe' dispenzari grazzi è fatta apposta.
Ped' ogni guerra la paci s'aggiusta la Santa Matri è l'Abbocata nosta»

[1] N. Femia, M. Furfaro (a cura di), Benedittu lu Signuri, Raccolta di canti popolari religiosi, Marina di Gioiosa Ionica 2000, vol. II, p. 517.
[2] Basilio di Cesarea di Cappadocia detto il Grande, De Spiritu sancto, 18, PG, 32, 149 c.
[3] E. D'Agostino, Da Locri a Gerace. Storia di una diocesi della calabria bizantina dalle origini al 1481, Soveria Mannelli 2005, p. 261 e ss.
[4] D. Castrizio, Un “ritorno” in Calabria del mondo greco-bizantino - Una storia dimenticata, in G. Passarelli, Μνήμη. Il ricordo. Le icone del Piccolo Museo San Paolo di Reggio Calabria, Reggio Calabria 2002; pp. 11-12.
[5] F. Caglioti, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in S. Valtieri (a cura di), Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, Roma 2002, pp. 977-1042.
[6] Ivi, p. 999 e ss.
[7] H. Thode, Francesco d'Assisi e le origini dell'Arte del Rinascimento in Italia, Roma 1993, pp. 61-67.
[8] H. Vorgrimler, Nuovo dizionario teologico, Bologna 2004, p. 370
[9] H. W. Kruft, Antonello Gagini und seine söne, München 1980, p. 408.
[10] Ivi, p. 413-414.
[11] Ivi, p. 380-381
[12] Ivi, p. 374.
[13] Ivi, p. 422.
[14] P. Maranesi, Gli sviluppi della dottrina sull'Immacolata Concezione nei secoli XII-XV, in "Italia Francescana", 80, 2005, pp. 97-122, specie p. 119.
[15] F. Caglioti, cit., p. 999.
[16] H. W. Kruft, cit., p. 473.
[17] Ivi, p. 418.
[18] Ivi, p. 415.

lunedì 21 ottobre 2024

NEL GIORNO DELLA SUA FESTA, ANCHE LA PIANA E L'ASPROM0NTE NEL SEGNO DI PINO PUGLISI? ( di Bruno Demasi)

    Rischia di passare ancora una volta in assoluto silenzio  la memoria festiva del Beato Pino Puglisi, ucciso il 15 settembre 1993. Passarono venti anni prima che la Chiesa e la società civile prendessero piena coscienza del significato epocale costituito da quell'omicidio in un grande evento rappresentato dalla commovente beatificazione di questo martire a Palarmo. Una beatificazione  che rappresentò indubbiamente una pietra miliare nel cammino di affrancamento di un intero Sud ( e non solo) dal cancro della mafia e della mafiosità di cui sono ancora intrise le coscienze  di tanti, forse tantissimi nei nostri paesi e nelle città del Meridione. Un cancro sommerso dalle diatribe pseudopolitiche verso il quale si registra sempre di più un opprimente silenzio bipartisan.
     Quel giorno  a Palermo, tra centomila e oltre persone accorse da ogni dove si respirava questo impaccio di restare ancora  impastoiati in un modo di pensare e di agire apparentemente innocuo e spontaneo eppure ancora sotto molti aspetti caratterizzato per noi meridionali da tanti schemi pseudomafiosi.
   
    Ci si chiede se la Piana di Gioia Tauro  il contesto aspromontano, dove questi schemi sono ancora più che mai tenaci, dove i piccoli respirano e succhiano ancora  insieme al latte materno una strana concezione della libertà e del rispetto, sia possibile formare generazioni veramente libere, capaci di impegnarsi nel lavoro e per il lavoro, nella pace e per la pace, nell'operosità e per il bene comune.
    E' quanto andava predicando con l'esemio e con pochissime parole Pino Puglisi, è quanto dopo un giorno dalla beatificazione  ribadì con coraggio Papa Francesco all'Angelus:

“I mafiosi e le mafiose si convertano a Dio”.  “Non possono fare di noi fratelli schiavi”. “Io penso a tanti dolori di uomini e donne, anche di bambini, che sono sfruttati da tante mafie, che li sfruttano facendo fare loro un lavoro che li rende schiavi, con la prostituzione, con tante pressioni sociali. Dietro a questi sfruttamenti, dietro a queste schiavitù, ci sono mafie. Preghiamo il Signore perché converta il cuore di queste persone. Non possono fare questo. Non possono fare di noi, fratelli, schiavi! Dobbiamo pregare il Signore! Preghiamo perché questi mafiosi e queste mafiose si convertano a Dio”.


      “Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo li sottraeva alla malavita, e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà, però, è lui che ha vinto, con Cristo Risorto”.
      “Il nostro Dio non è un Dio 'spray', è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: ‘Dio è amore’. Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi”.


     E' lecito sperare, dunque,  senza un impegno serio e aperto delle istituzioni, della Scuola, della Chiesa, di tutte le coscienze libere un cambiamento  anche per la Piana di Gioia Tauro, per i paesi aspromontani, dove tutto, o quasi, sembrerebbe ormai immutabile, dove tutto in questi ultimi anni  sembra tornato agli anni di piombo e al silenzio più divisivo e opprimente?

sabato 19 ottobre 2024

PER IL DUE NOVEMBRE A PIMINORO ARRIVAVANO GLI ZINGARI (di Francesco Barillaro)


     
In tempi in cui ancora non erano iniziati i grandi esodi da un continente all’altro, ma imperversava il flagello dell’emigrazione che spopolava questa terra impoverendola inesorabilmente, c’era chi era più povero tra i poveri ed erano i nomadi, gli zingari. Nell’immaginario popolare essi, oltre a costituire il simbolo della precarietà della vita, impersonavano con la loro astuzia e la loro vita fatta di continui espedienti l’appartenenza a una non meglio definita dimensione magica, manifestata spesso nella pretesa della chiaroveggenza . Come osserva Francesco Barillaro in questa bella pagina, la gente diffidava di loro e proteggeva le proprie case da possibili furti, ma al contempo non aveva remore ad aiutarli, specialmente a ridosso della festa dei defunti nella quale a Piminoro essi apparivano emblemi di un valore antico, trasmesso dai padri e dalle madri antiche di Fabrizia e del Serrese, in cui povertà e carità costituivano un binomio forte e di forte valenza religiosa per la comunione dei vivi con le anime dei defunti, a torto oggi trascurato o forse dimenticato del tutto. (Bruno Demasi)
                                                                              ______
 

    Tra il 30 e il 31 ottobre di ogni anno, all’imbrunire, il rumore di una moto ape che entrava sbuffando nella piazzetta di Piminoro annunciava l’arrivo degli zingari. Il piccolo veicolo si fermava davanti alla chiesa: provenivano da Gioia Tauro. Oltre al conducente dalla piccola cabina scendeva una donna formosa con vesti larghe dai colori sgargianti, difficile immaginare come ci fosse salita… Quattro o cinque testoline spuntavano da una tenda verde e rattoppata posta sul minuscolo cassone dell’ape , occhietti neri e ciglia grandi, capelli scuri, sorridevano; una bambina più grande 10-11 anni aveva gli occhi belli e tristi, accudeva i fratellini. L’uomo, grandi baffi bianchi ingialliti dal fumo, aveva un’età indefinita tra i cinquanta e i settanta anni: pantaloni e gilet neri di velluto , cappello scuro con un vistoso nastro rosso, scrutava il tempo guardando la direzione del fumo della “esportazione senza filtro” che stringeva tra dita le giallastre e in base al vento sceglieva il posto dove sistemarsi. Se il vento proveniva dal mare, il muro della casa di Giusi Porcaro era l’ideale, mentre se i cirri minacciosi del levante adombravano il Serro della Guardia, il posto sicuro era lo spiazzo all’angolo della fontana.

  La data del loro arrivo non era casuale: tra pochissimo sarebbe giunta la festa di Tutti i Santi e subito dopo la ricorrenza della commemorazione dei defunti e ogni persona in paese era più generosa ad offrire un dono “pi ll’anima di li muarti”. Altro particolare non trascurabile i raccolti erano terminati e nei “catoja” vi era il ben di Dio: patate, fagioli, zucche, noci, castagne vino e olio, alimento ricercatissimo.

    Era già buio quando, sistemata l’ape dalla parte opposta dal muro, una fiamma azzurrognola prodotta dal carbone di “forgia” illuminava la famigliola disposta a cerchio. Subito la voce correva nei vicoli freddi e bui del paese: “vinniru li zingari...”, si controllavano gli usci se erano stati chiusi bene…, si rimaneva svegli fino a tardi... (in verità non hanno mai rubato niente). Mia madre, e le altre donne della piazza, quando era ora di cena portavano qualcosa da mangiare, qualche coperta e un dolcetto per i bambini e il vino. Loro non chiedevano niente, ringraziavano e promettevano in regalo un “tripode”. Non ho mai capito come facevano a sistemarsi per la notte, sul piccolo cassone dell’ape…

  L’indomani, la mamma, con i bambini più grandi faceva il giro del paese scambiando i piccoli arnesi: palette, tripodi, attrezzi necessari per il camino con i prodotti che la gente offriva. Al ritorno del giro disponevano quanto raccolto in sacchi di iuta, l’olio veniva sistemato in un capiente recipiente di latta. All’imbrunire la famigliola si riuniva, attorno al fuoco, per la cena, quasi sempre a base di patate, non mancavano le regalie per i fanciulli: latte, zucchero e biscotti.


     Quasi sempre il loro arrivo coincideva con i primi freddi, accompagnati spesso dalla pioggia, le folate del levante facevano ondeggiare la tenda della moto. Da bambino credevo che fossero loro a portare il freddo e la pioggia . La prima e inaspettata neve, sui piani di “Livernà”, mostrava il suo candore e le folate gelide del levante arrivavano impetuose ad annunciare una fredda e lunga notte.

   Aspettavano il due novembre, quel giorno qualcuno portava loro il cibo che veniva cucinato e distribuito in paese in suffragio de defunti. Questa tradizione, come l'incanto della statua della Madonna Divina Pastora nella seconda domenica di luglio, proveniva da Fabrizia, e nei primi anni degli anni Settanta, del secolo scorso, attirò l'attenzione dell'antropologo Luigi Lombarti Satriani che così scrisse: “ Su invito della RAI, andai a Piminoro, piccolissimo centro dell'Aspromonte calabrese, per consigliare a una troupe radiotelevisiva cosa fosse più importante riprendere, da un punto antropologico, nei rituale del 2 novembre, dedicato, come si sa alla commemorazione dei defunti. Sia io che l'intera troupe televisiva fummo invitati a pranzo da una signora del luogo ( nel paese non esistevano né ristoranti né trattorie per rifocillarsi) e ci fu servito dalla stessa padrona di casa un pasto abbondante. Ai miei ringraziamenti, che sottolineavano anche il rammarico perchè si era presa tanto disturbo, la signora mi rispose che ogni anno preparava un pranzo abbondante che mandava ai poveri del paese. Quell'anno la nostra presenza di forestieri l'aveva indotta ad offrire a noi il pranzo, sempre in suffragio dei propri defunti. Tutto ciò era coerente con la cultura folklorica tradizionale secondo la quale i bambini, i poveri, i mendicanti, i forestieri possono costituire, proprio per la loro relativa invisibilità sociale, i vicari dei morti, assumere cioè il ruolo di morto e divenire così destinatari dei gesti realistici che altrimenti non potrebbero essere compiuti. In poche parole, attraverso il rapporto fra cibo e sacro è possibile approfondire quel confronto tra culture sempre più necessario data la progressiva multietnicizzazione della nostra società. Ciò che mi preme rilevare è che il cibo è essenziale alla nostra sopravvivenza, sia in senso realistico, pragmaticamente realistico (se non ci alimentiamo moriamo), sia in senso simbolico, di un diverso livello di realismo , essendo i simboli necessari per l'ancoraggio dell'uomo nella sua esistenza, nella sua società”. Di recente anche l'antropologo Vito Teti, nel suo libro “ Terra Inquieta”, Rubbettino 2015, riprende questo scritto di Satriani.


    Chi scrive faceva parte della frotta di bambini che quel giorno senza posa portavano il cibo nelle case. Inutile sottolineare che questa meravigliosa e particolare forma di “contatto” con le persone care defunte, da tempo non esiste più e ha lasciato il posto all'indifferenza e al nulla.
                                                                                                          Francesco Barillaro