Ho ritrovato con emozione una lettera scrittami a suo tempo da Gianni Carteri alla quale egli allegava il dono di una sua bella pagina inedita sulla figura e la poesia di Carmelo Filocamo, da pubblicare sul mio blog. Una lettera che però volutamente riposi in un cassetto delle mie memorie essendo nel frattempo intervenuta la prematura scomparsa di Gianni e che oggi riprendo perchè doverosamente voglio in un colpo solo ricordare due grandissimi amici che hanno ormai lasciato il palcoscenico di questo mondo e la scena letteraria di quella Locride gentile che tanto ha dato alla cultura italiana del Novecento: Carmelo Filocamo, figlio del grande poeta dialettale sidernese Salvatore Filocamo, che io conobbi quando era preside all' I.T.T. di Gioiosa Ionica , e Gianni Carteri di Bovalino, studioso, giornalista e saggista, da me conosciuto nella trincea della scuola media di Platì durante una sessione d'esami. Insieme a loro appaiono qui altri due grandi:Walter Pedullà e Saverio Strati che in questa pagina di Carteri, e con la mia complicità, parlano in modo indiretto e quasi sommesso, loro che hanno inciso nella vita culturale della Calabria e della nostra nazione in maniera determinante.
Il saggio di Gianni che di seguito mi onoro di pubblicare ( inframettendo in corsivo alcune mie annotazioni) è dedicato a Carmelo Filocamo, ma è anche dedicato a tutti i Calabresi che non sanno ancora cosa significa essere veramente Calabresi "capaci di non vergognarsi di esserlo..." (Bruno Demasi)
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Apprezzato da Calvino per i suoi “prodigiosi anagrammi”. Allievo di
Giacomo Debenedetti, amico di Saverio Strati e Walter Pedullà. Un
intellettuale gentile. Ho incontrato Carmelo Filocamo due giorni prima
che morisse, in un piovoso e ventoso novembre, all’Ospedale di Locri. Nella stanza
di Paolo Ientile , primario della medicina generale che alle sette del
mattino aveva già iniziato , come sempre, il ” giro” tra i suoi malati ,
il fidato caposala Enzo Fazzolari riempiva del mio sangue le provette
per un’indagine più accurata del mio stato di salute.
Paolo, entrando , era più teso del solito e mi accompagnò nella stanza dov’era ricoverato da alcuni giorni quell’intellettuale finissimo ed educatore di altissimo profilo che è stato “Il Preside” Carmelo Filocamo.
Era assopito e respirava con difficoltà e sofferenza. Sua moglie, la professoressa di matematica Maria Gelsomino nel mio vecchio Liceo Classico di Locri, si avvicinò e mi salutò con il garbo e la dolcezza di sempre. Le chiesi scusa per non averla subito riconosciuta, alquanto sconvolto nel vedere un mio grande maestro al termine dei suoi giorni. “Carmelo l’ha sempre voluta bene e la stimava tanto“.
Più tardi , mentre mi preparavo a tornare casa, ho rivisto il Preside su una sedia a rotelle pronto per un ulteriore controllo. Mi avvicinai e lo trovai più disteso. Mi guardò con i suoi occhi straordinariamente pieni di bontà e abbozzò un sorriso , mentre un raggio di sole gli illuminò per qualche istante il viso stanco e di un lucore inusuale. Gli strinsi a lungo le mani e lui continuava a fissarmi intensamente. Lo accarezzai per l’ultima volta e mi accorsi che a suo modo si congedava da me con una straordinaria serenità e forza d’animo.
Qualche anno fa mi aveva inviato alcuni suoi scritti che custodisco come un tesoro ,accompagnati da una breve lettera scritta nel margine alto della rivista “Il Ponte” e che mi piace riportare: “ Caro Gianni, ti aspetto a Locri, uno di questi giorni. Telefona. Complimenti per tutte le tue cose, compreso il saggio narrativo ( alla Gogol?…) Ti saluto cordialmente . Carmelo Filocamo.”
La rivista di politica economica e cultura fondata oltre settanta anni fa da Piero Calamandrei, nel numero di ottobre 2000 , conteneva un suo saggio dedicato a Saverio Strati , l’aspirante scrittore.
E’ certamente tra le cose più belle scritte dal preside Filocamo, una “testimonianza “, come lui amava definirla con la modestia di sempre, che riporta indietro di quasi sessanta anni e che racchiude il senso di un’amicizia solida e feconda tra Carmelo Filocamo , Saverio Strati e Walter Pedullà, nata nell’Università di Messina, dove in quegli anni era libero docente di Letteratura italiana Giacomo Debenedetti, “ figura centrale insieme anomala, inafferrabile, inquieta “del Novecento italiano, per usare le parole di Alfonso Berardinelli, curatore dei suoi Saggi.
“ Ricordo ancora quel pomeriggio di primavera di quasi cinquant’anni fa - scrive Filocamo -, era il 1951 0 ’52, quando , seduti su una panchina di Villa Mazzini , a Messina, Saverio mi fece leggere i suoi primi racconti. Ne fui immediatamente colpito: erano straordinari, sia per il linguaggio, un italiano incerto e approssimativo, misto di espressioni dialettali, che tuttavia riusciva a rendere in modo efficace - fuori da ogni schema scolastico o schermo letterario – la parlata popolare; sia per la costruzione dei personaggi, veri , autentici , e non inventati; sia per la struttura dell’impianto narrativo, solo apparentemente distaccato e casuale, ma saldamente dominato dalla vigile, anche se sapientemente dissimulata, presenza dell’autore.
E sento ancora nelle orecchie la parolaccia , appena sussurrata ma chiaramente intelligibile, con cui Saverio mi apostrofò, tra i banchi dell’aula universitaria, qualche giorno dopo, quando il professore Debenedetti, del quale eravamo allievi , diede inizio alla sua lezione con queste parole : “Avevamo tra noi uno scrittore e non lo sapevamo”. Si, perché a sua insaputa, anzi contravvenendo a un suo preciso divieto, avevo dato quei racconti, dopo averli battuti a macchina, al professore. Il quale confermava , col suo autorevole avallo, le mie prime impressioni . (…)
Cominciò così l’avventura letteraria di Saverio Strati, il cui iter iniziale è fedelmente registrato- nel suo quasi frenetico fervore creativo, nei momenti di esaltazione e nelle sue rare pause di scoramento, in un gruzzolo di lettere , dal novembre 1951 alla primavera del 1962 , che io conservo come un tesoro .” (B.D.)
... Me le lesse tutte queste lettere Carmelo Filocamo, in un pomeriggio di venti anni fa quando andai a trovarlo per intervistarlo sulla situazione drammatica della Locride. Scivolammo subito nella letteratura ed ancora mi risuona la sua voce rauca , potente ed emozionata che mi faceva ascoltare il suo tesoro nascosto .
Ecco uno stralcio tratto da lettera datata 13 ottobre 1953 :
“ Ti parlo della mia vita fiorentina. Studio . Vado alla biblioteca alle nove, studio fino alle 12,30; poi mangio ; e ritorno alle tre e lavoro fino alle 19,30. Questa è quasi la vita d’ogni giorno. Però alle volte sono preso dalle mie cose, e mando all’altro mondo pure Dio, oltre che la scuola. Ho finito la Deda. Ora sono contento. Sto riscrivendo i racconti dell’anno passato e come mi viene uno nuovo non tralascio a esternarlo. ( …) Leggi i miei ultimi racconti e dimmi che ne pensi. Bada che li voglio al più presto, perché li ho scritti e non li ho riletti, in gran parte. Ne sento , specialmente in questi giorni , il bisogno di leggerli .”
Ricordo ancora l’intensa emozione del Preside quando mi lesse quella che a suo giudizio era la più bella lettera del mazzo, sintesi della poetica dell’amico Strati, che gli rivela tutto il suo mondo , i suoi personaggi , gli scenari dei suoi futuri romanzi. E’ datata 25 marzo 1954:
“ Mio caro Carmelo- non è passato un mese, né un giorno stavolta , per rispondere alla tua lettera. Poche ore fa l’ho ricevuta ed ora ti scrivo. So che mi conoscete abbastanza bene, ma non del tutto. Ti assicuro, non del tutto. Né sono soltanto quel Saverio della “ Marchesina” e della “Rigalia” e della “Quercia”. Ma c’è dell’altro, assai più bello ed interessante che nessuno di voi ha letto e chissà quando leggerete. E dell’altro che scrivo di giorno in giorno, con la stessa serenità di prima, ma con altra praticità. Carmelo , vent’anni passati con la zappa nelle mani e la cazzuola e la falce , e le sofferenze , non si cancellano così.(…)
In un'altra pagina che sembra il corollario di questa lettera, e che tutti dovremmo conoscere e tenere a mente, Saverio Strati aveva scritto :" La nostra Calabria, i nostri contadini, i nostri lavoratori, tutti gli uomini, di ogni grado, di ogni condizione, sono dentro di me. E parlo con essi , per delle ore , per delle settimane e me li porto dentro per anni e poi escono , con un parto doloroso. Gli ambienti” intellettuali” puzzano al mio naso. Puzzano! E ne sono inorridito, se ci entro . E ogni giorno che passa mi accorgo che quelli che parlano di contadini ed operai , per aver letto libri, per aver sentito parlare, dicono delle fesserie. Per conoscere i contadini bisogna essere stati contadini, e non costruirli ,come si vuole. Bisogna avere l’animo dei contadini. Bisogna avere quella loro religione, quella loro logica, quel loro senso pratico. Ed io ce l’ho. E non perché l’abbia letto su Gramsci, tanto per dire, o su Lenin o su Tolstoi, ma perché io sono quello stesso che fa la gara nella “ Rigalia” . E di quante cose dovrei parlare ... E quanti massari e massaie e pastori e pastore , e muratori e calzolai e ragazzi e ragazze scalzi e nudi sono dentro di me. E non li vado scavando con la zappetta, ma vengono essi e si offrono e mi dicono : “ Ed ora tocca a me. A me : “ A momenti temo che finisca prima che possa dire tutto. Ma se vivrò ancora vent’anni, vedrai che saprà fare lo zappatore della “ Rigalia” E non mi fa paura il lavoro, chè i miei muscoli sono ben forti . Ho scritto di getto: non so cosa abbia detto. Tu mi scuserai.” (B.D.)
Il commento di Carmelo Filocamo a questa lettera rivela lo “spessore intellettuale d’oceanico profilo, l’alta cattedra di moralità”, per usare le parole di Pasquino Crupi nel giorno dei suoi funerali. : “In questa confessione c’è tutto Strati. E forse in nessun altro scrittore calabrese , come in te , è riuscito a rispecchiarsi un popolo con il suo millenario fardello di dolori , di sofferenze, di umiliazioni , di speranze; nessun altro ha saputo, come te , dar voce agli anonimi protagonisti di una storia scritta col sangue e con le lacrime di infinite generazioni di schiavi, di “ anime morte” , che- nelle tue pagine – vengono faticosamente alla luce, con la stessa fatica con cui affiorano alla coscienza le oscure forze dell’essere che sono all’origine della vita. “
In quell’interminabile pomeriggio, Filocamo mi parlò a lungo del suo maestro Giacomo Debenedetti “un professore che raccontava la letteratura come un narratore racconta la vita”. Erano anni magici per l’Università di Messina. Oltre a Debenedetti insegnavano Santo Mazzarino, il filosofo Galvano Della Volpe, lo storico Giorgio Spini, il geografo Lucio Gambi e Salvatore Pugliatti , il Rettore dell’Università , giurista di fama internazionale ed eccellente musicologo che aveva la cattedra di Storia della musica.
I ricordi di Carmelo Filocamo si intrecciano con quelli di Walter Pedullà, fissati nel bel saggio “Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti “ ( Rizzoli) : “ Ho visto per la prima volta Debenedetti nel gennaio del 1951. Ventenne, ero con un coetaneo, Carmelo Filocamo- più tardi noto come enigmista con lo pseudonimo di Fra Diavolo, con cui lo segnalò Italo Calvino – e con Saverio Strati, che aveva “ scoperto “ il professore torinese. Da allora fummo inseparabili come amici e come allievi di Debenedetti, che , cosciente delle nostre non floride condizioni , ci invitò più di una volta a pranzo o a cena. Le sue porzioni erano così piccole che , per adeguarci , mangiavamo così poco da doverci poi sfamare con un panino .(…) Durante ilo pranzo faceva quasi da spettatore, assaggiando un filetto di carne che veniva affumicato dalla sua interminabile serie di sigarette. (…) A noi dialettali di Calabria e Sicilia faceva impressione per esempio che il suo italiano avesse tanti vocaboli in disuso che funzionavano tanto bene sull’attualità: come se dovesse recuperare tesori perduti .“ Carmelo Filocamo, che veniva dal popolo, con le sue lezioni private si manteneva agli studi ed aiutava gli altri fratelli a studiare. Ha ragione Pasquino Crupi nel rilevare che “il dovere etico lo costrinse a restare in Calabria”, nonostante Debenedetti lo volesse accanto come suo assistente a Roma. Non c’è posto a Messina. Evidenti i motivi politici del siluramento . I suoi allievi prediletti hanno le idee chiare e cosi scrivono al loro professore : “ Sulle cause del provvedimento avremo occasione di discutere al nostro prossimo incontro. Hanno collaborato in egual misura l’anticomunismo di tutti i membri del Consiglio di facoltà; l’invidia di queste mezze figure della cultura, che non possono perdonarle di aver fatto capire agli studenti quanto poco degnamente essi occupano una cattedra universitaria.”
Il professore, che attirava i suoi studenti come il magico pifferaio, sente la necessità di tranquillizzarli ed in una lettera a Carmelo Filocamo, datata 10 giugno 1958, scrive tra l’altro : “ Si tratta di un’acqua in cui non si immergono due volte le mani . La facoltà di Roma mi ha affidato l’insegnamento della Letteratura Italiana moderna e contemporanea. E’ il posto che Ungaretti lascia quest’anno per limiti d’età. Da parte dei miei amici la lotta non è stata facile; ma , insomma , ce l’hanno fatta.”
In molti hanno imparato dal professore di origini ebree che cos’è la letteratura contemporanea, ma ciò – evidenzia Pedullà- non è bastato perché lo si giudicasse degno della cattedra. E’ andata invece a professori che , rispetto a lui, erano pigri diffusori di banalità accademiche ( B.D.)
La grande passione di Carmelo Filocamo fu l’enigmistica e gli anagrammi. In una lettera di Italo Calvino a Giampaolo Dossena, esperto di enigmistica su “ Tuttolibri “, si legge ” Caro Dossena , gli anagrammi di Fra Diavolo sono prodigiosi ! Una cosa veramente straordinaria. Mai visto niente così spiritoso in così gran copia. Questo Fra Diavolo è un genio . “
Il Preside mi diede la sua spiegazione con l’umiltà che lo contraddistingueva leggendomi sprazzi di un suo articolo sul “ Il labirinto”:” Tra gli anagrammi di cui parla Dossena c’era anche quello del nome dello scrittore ( il vanto laico), che indubbiamente sarà piaciuto all’autore del Castello dei destini incrociati.”
Tra le lettere di Calvino a Elsa de Giorgi , con la quale lo scrittore ebbe una giovanile storia d’amour fou, compare più volte l’espressione “caro raggio di sole”; “ l’aver visto rifatto, a distanza di tanti anni, per gioco, da uno sconosciuto enigmista , lo stesso anagramma , può avergli fatto ricordare, magari con un sorriso a dissimulare il trasalimento del cuore, anni lontani e ormai dimenticati. Nulla più che un incontro fortuito in quel “ castello dei destini incrociati” che è la vita, una vista segnata, soprattutto, dalle parole e dai messaggi, tutti da decifrare, che esse ci consegnano. E’ solo un’ipotesi. Ma un’ipotesi affascinante e forse non lontana dal vero .“
Si illuminò in viso quando ricordò un suo epi-anagramma, dedicato in anni lontani a Geno Pampaloni , accomunandolo ad un altro grande scrittore , Paolo Volponi, anch’egli tra gli olivettiani del Movimento di Comunità .
Gianni Carteri