sabato 29 giugno 2024

QUANDO DA NOI SI VIVEVA DI SOLO PANE...( di Giovanni Sole e Bruno Demasi )

    Un excursus sul pane potrebbe diventare poesia se non  dovesse essere  invece rievocazione del dramma di un tempo terribile : i secoli della fame  nella Calabria della miseria, nell’Aspromonte del grano stentato, nei paesi decimati da sempre dalle febbri tarzane . Il pane, comunque fosse confezionato, restava l’unica fonte  di sostentamento e per l’Aspromonte, quando andava bene,  si concretizzava nelle pagnotte stentate di iermano (segale) o nelle pizzàte ( pane di mais) o, più raramente,  nei nobili pani confezionati con farina di grano maiorca o cultivar similari che prosperavano anche ad altitudini consistenti.  Il pane rimane  per queste terre emblema di sopravvivenza, di pace, di lievito sociale. Il pane tremendo ed amato, il pane perduto della nostra storia con tutti i suoi succedanei in tempi di carestia. Il pane  sacro, donato agli uomini dagli dei : Aristofane diceva che non bisognava raccogliere le briciole che cadevano a terra perchè appartenevano agli eroi o ai “daimoni”.
    Nel Settecento, Swinburne annotava che i contadini, dopo aver zappato tutto il giorno, si nutrivano con pane reso più saporito da uno spicchio d’aglio, una cipolla e un pugno di olive secche. Nello stesso secolo Spiriti, tuttavia, precisava che due terzi dei contadini non sapeva nemmeno cosa volesse dire pane di grano: quelli più fortunati utilizzavano farina di germano o granturco ma la maggior parte consumava pane di lupini o castagne. Se il re di Francia desiderava che nei giorni di festa i contadini mangiassero un pollo, egli sperava che quelli calabresi si satollassero di pane bianco con qualche cipolla o un pezzo di formaggio. Galanti aggiungeva che il pane scarseggiava a causa delle continue carestie e quello disponibile era in genere duro e rancido: si preparava poche volte l’anno e, nelle famiglie più povere, solo a Natale e a Pasqua.

Pane secco da grattare o bagnare

     Infornato ogni tre mesi e conservato sopra graticci appesi al soffitto, dopo qualche tempo diventava talmente duro da dover essere mangiato bagnato nell’acqua o raschiato col coltello. Cento anni dopo dopo Franchetti confermava che i contadini calabresi vivevano con un pane tanto secco che per mangiarlo dovevano grattare col coltello nel cavo della mano e versarselo in bocca a briciole o nelle minestre di erbe cotte nell’acqua con un po’ di olio e sale «quando ne avevano». Nei grandi centri urbani il pane prodotto dai fornai era riservato a nobili e galantuomini e una signora ricca era chiamata «donna di pane bianco».  Nel 1812, un relatore dell’inchiesta murattiana comunicava che nei villaggi il pane era di castagne o di segale e solo nei grossi centri di frumentone o di grano.

Fornai avidi e farine scadenti

    Il pane prodotto dai fornai aveva comunque spesso un «aspetto cattivo» e «pessimo sapore» perché poco fermentato e perché, rimanendovi frammenti delle «vetuste macine», si avvertiva fra i denti «la presenza di polverio siliceo e calcare». Utilizzavano solfato di rame, zinco, magnesio, acido borico e carbonato di potassa per accelerarne la fermentazione; carbonato ammoniacale per renderlo più poroso, soffice e durevole; allume, gesso, calce e polvere di marmo per farlo più bianco e pesante.

Pane bianco solo nei giorni di festa

   I contadini si sfamavano mangiando pane di frumentone, segale, lupini o castagne. Padula annotava che il massaro, il più agiato tra i contadini, coltivava il grano per venderlo ai galantuomini e si saziava di pane bianco solo nei giorni solenni dell’anno. La moglie infornava il pane una volta al mese e lo appendeva al soffitto per lasciarlo indurire, così da consumarne di meno: pani tostu manteni casa, ma ci volevano denti di ferro per frantumarlo e quindi lo si mescolava con la minestra. Pasquale confermava con amarezza che i campagnoli erano soliti lasciare ammuffire il pane per risparmiare legna e offrire al palato cibo meno appetitoso. Il pane della «gente mezzana» era di frumentone e segale, quello dei «buoni possidenti» di grano e quello dei contadini di frumentone, castagne o avena. Si consumava generalmente pane di granturco e di segale nelle zone aspromontane o comunque di montagna e di grano misto a orzo negli altri territori. I contadini lo condivano con olio e sale e, a volte, come companatico utilizzavano sarde salate, olive o peperoni. La sera cenavano con una minestra calda di verdure o legumi. In media un colono mangiava 1.400 grammi di pane di granone o di segale, una minestra di patate e verdure di 900 grammi o di legumi di 400 grammi.

Pane di Calabria: così duro da tagliare con l’accetta

   I più poveri si alimentavano con pane di frumentone o di segale e, in tempo di carestia, di orzo, lupini, cicerchie e fave. Comune era anche il pane di castagne e Dorso ricordava che il contadino calabrese, parco nel suo vitto, aveva sempre i suoi vàlani, castagne lesse o baloge , castagne disseccate al calore del fuoco che spesso gli «servivano di pane». Le donne spesso portavano le castagne al mulino per farne farina, ma il pane che se ne ricavava dopo qualche giorno diventava così duro che per tagliarlo si utilizzava l’accetta. Uno studioso affermava che un pane di castagne del diametro di quattro pollici richiedeva almeno un’ora di masticazione e faceva molta pena guardare la povera gente costretta a nutrirsene. Anche il pane di segale, pur se alcuni sostenevano che era sostanzioso, era duro, nero, viscoso, disgustoso e di difficile digestione.

Il pane che provoca nausea, febbri maligne e cancrene

     Col pane di segale si preparava un pane leggero e di facile digestione ma bisognava fare attenzione perché la contaminazione con lo sperone di segale o grano cornuto (alcune spighe prendevano la forma dello sperone di un gallo o di un cornetto nero) rendeva il pane nauseante e nocivo. Uno studioso del Settecento scriveva che la claviceps purpurea della segale spesso aggrediva anche il frumento e da quel pane dal sapore disgustoso provocava confusioni, nausea, stanchezza, ubriachezza, diarrea, febbri maligne, dolori alle braccia e alle gambe e persino cancrene. Ramage ricordava che i giornalieri dei paesi più interni, vivendo nella «più nera miseria» e nutrendosi per lo più di pane fatto con farina di castagne, durante l’inverno emigravano in massa in Sicilia e in altre regioni «alla ricerca di cibo». In generale una sarda salata con due pani, una cipolla e un pugno di olive in salamoia, formavano il pranzo quotidiano di un bracciante che maneggiava la zappa almeno otto ore al giorno. Secondo Padula i giornalieri si saziavano con pane di segale, frumentone, castagne e orzo o con una mistura di veccia, fave e lupini. Non bevevano vino se non quello ricevuto in dono e si cibavano di carne in occasione della macellazione del maiale o quando «suonava in tasca una lira di più».

Minestre di foglie cotte nell’acqua


    Per rinfrancare le forze cavavano dalla tasca un cantuccio di orribile pane da mangiare scusso o accompagnato da agli e peperoni. I braccianti non di rado si saziavano con una minestra di «foglie» cotte nell’acqua marina e pane di granone mentre il pane bianco, sempre presente nelle mense dei ricchi, era prerogativa dei malati. Un colono d’inverno mangiava a colazione e a cena pane di granturco e fichi secchi e a pranzo minestra di fagioli o patate; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di grano, una sarda, una fetta di formaggio o un pezzo di carne salata e a pranzo una minestra di fagioli, patate o cavoli conditi con olio e sale. Solo in occasione di lavori particolari come la vendemmia e la mietitura si saziavano con pane di grano, carne affumicata, castrato o altro. Un colono, piccolo proprietario o affittuario, in inverno a colazione e a cena mangiava pane di granturco o di castagne e una cipolla con olio e sale, a pranzo minestra di fagioli o patate; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di segale o di grano, formaggio e sarde, a pranzo minestra di fagioli freschi, patate e cavoli.

Il pane di granturco

  Un giornaliero in inverno a colazione e a cena consumava pane di granturco, olive in salamoia o pesce salato, a pranzo minestra di verdure; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di grano, cipolle e formaggio, a pranzo una minestra di verdure. Nei giorni festivi si beveva il vino e si univa alla minestra la pasta fatta in casa. Pastori e vaccari per tutto l’anno mangiavano a colazione pane di granturco e ricotta, a pranzo minestra di verdure e a cena pane di granturco e formaggio.   Verso la fine dell’Ottocento, durante il viaggio di circa un mese sulla nave che portava negli Stati Uniti, gli emigranti mangiavano carne e pane bianco e ciò creava meraviglia tra chi considerava tali cibi un lusso, tanto che, per indicare un uomo sfinito e ammalato, si diceva che si era «ridotto a pane di grano».

domenica 23 giugno 2024

Figure mamertine del recente passato: DON FILIPPETTO GRILLO ( di Rocco Liberti)

     Sicuramente riscuoterà l’appovazione di molti la decisione del prof. Rocco Liberti, pienamente condivisa dal sottoscritto, di porre al primo posto in una possibile carrellata di importanti figure oppidesi contemporanee quella di
DON FILIPPETTO GRILLO. Credo che mai un uomo con  tanta nobilità di cuore sia riuscito a mettere d’accordo quanti ebbero la fortuna di conoscerlo, i suoi concittadini in primis, per il grande spirito umano, culturale e artistico, la carità senza confini, assolutamente silenziosa, il tratto cordiale, riguardoso e riservato in qualsisi occasione che lo ha accompagnato per tutta la sua vita e che ha saputo trasmettere pienamente alla sua numerosa e bella famiglia. Era doveroso ricordarlo, ma ancora più doveroso che il suo ricordo diretto e commosso venisse elaborato da chi, come Rocco Liberti, non solo lo ha conosciuto , ma ne ha condiviso totalmente fiducia, rispetto e amore per le memorie avite. Agli Oppidesi tutti il vanto di aver avuto il dono di questa grande persona e il compito importante di perpetuarne sempre il giusto  ricordo! (Bruno Demasi)

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  Nelle mie memorie paesane tra le Figure eminenti si staglia l’avvocato Filippo Grillo, amichevolmente chiamato Don Filippetto, persona buona, pia e di estrema cortesia. Fervido cattolico come d’altronde familiari e parenti in linea retta senza essere oltranzista, ha militato fra le fila dell’Azione Cattolica divenendone presidente diocesano. Con ascendenti di profondo impegno ecclesiale: padre Filippo Antonio (1837-1912) per un trentennio attivo nelle Missioni Liguorine in Cina, l’arcidiacono don Giuseppe Maria (+1862 a. 57) e d. Beatrice (+1930) fondatrice di un Ospizio per i poveri oltre a quanti vissuti nell’antica Oppido, apparteneva a uno stimato ceppo nobiliare oriundo da Genova, che nel distrutto borgo era stato parecchio operoso anche nel settore dell’amministrazione laica. Sempre affabile e cortese, lo vedevi giornalmente uscire dal suo palazzo o mettervi piede e attraversare in diagonale la vasta piazza Umberto I. Le méte erano quelle consuete: la Pretura, sede della sua occupazione principale e il Municipio, dove espletava l’incarico di vice-sindaco. Il di lui genitore, Domenico, era stato vice-pretore e sindaco del Comune. Aveva fatto da padrino di battesimo a mio padre. 
     L’avvocato Grillo era un legale alla sua maniera. Si diceva che non prendesse mai le difese di persone che si trovavano in torto marcio (di sicuro la morale cristiana non glielo permetteva), per cui a lungo andare e venendo in non cale i fondi agricoli, tra gli altri molto importante quello di Vagliano, dove capitava di abitare in estate, non è che guazzasse nell’oro. Trovatomi per caso, vi ho scoperto un vecchio pianoforte. Appassionato suonatore, lui, al pari di tanti che lo hanno preceduto, non si faceva mancare neppure in campagna il conforto di quell’eccelso strumento. Mutata gradatamente la vita sociale e riducendosi l’appello ai tribunali, l’avvocatura si è venuta sminuendo, per cui il ricorso all’insegnamento della lingua francese per i laureati in legge si è rivelato una manna dal cielo e l’illustre concittadino aveva una larga famiglia da mantenere. Di tanto in tanto, giovinetti, ci spingevamo in Pretura per seguire i dibattiti del venerdì e avevamo opportunità di notarlo in azione. Si offriva all’attenzione pacatamente, ma non gli difettava una sottile vena di umorismo. Mai un gesto o una parola fuori misura. Uguale comportamento lo teneva in Municipio e mal sopportava scenate e liti. Non era tipo da intervenire a sproposito o da elevare reazioni di sorta. Si raccontava che, durante una chiassata da bolgia, alla chetichella avesse scavalcato una finestra e se ne fosse involato via insalutato ospite. Peraltro, respingeva ogni prepotenza e non guardava in faccia a nessuno. Ho piena reminiscenza di un suo intervento in Municipio in opposizione a un personaggio che pretendeva che la Curia Vescovile fagocitasse senza alcun diritto la strada oggi intitolata al nome di Mons. Giuseppe Pignataro per raggruppare tutti gli ambienti ecclesiali. Allora la sua calorosa difesa a pro della gente che giornalmente l’attraversava per andare a fornirsi di acqua alla fontana di Piazza Regina Margherita oggi Domenico Marino Zuco è stata particolarmente apprezzata. Al tempo l’acqua in casa arrivava a pochi. Perfino coloro ch’erano ristretti nel vicino carcere mandamentale di via Germanò a turno erano costretti a caricarsi sulla spalla un barile e fare il viavai per rifornirsene.

    L’avvocato Grillo era indubbiamente simpatico e gioviale. Un giorno mi si accosta e mi dice:
Io a casa ho dei manoscritti di un mio antico parente. Sono delle lettere che lui inviava ai familiari dalla Cina in un trentennio. Penso che sia il caso di ricordarne la memoria e di far conoscere la sua vita. Che ve ne pare?
Io sono ormai anziano e quando sarò in un altro mondo chissà che fine faranno. Ve ne offro comunque copia. Pensateci sopra. Non me lo sono fatto ripetere e in breve tempo, sfruttando l’ampia e inedita documentazione fornitami, ho approntato il volume Cina chiama Calabria, ch’è uscito per le Edizioni Barbaro nel 1981. È rimasto soddisfatto, ma alla distanza me lo vedo arrivare intristito e dispiaciuto. Alquanto rammaricato, mi ha chiesto perdono per non avermi dato altre missive del parente padre liguorino, ma le aveva scoperte soltanto in seguito all’uscita del libro. L’ho tranquillizzato e gli ho detto che non c’era nulla d’irreparabile. Infatti, poco dopo, ho pubblicato un’aggiunta (Appendice a Cina chiama Calabria) nelle annate 1982-83 della rivista Calabria Letteraria. Detta, con titolo Cina chiama Calabria – II - è poi confluita nel 2005 in un numero dei Quaderni Mamertini, il 59. Nel 2019, infine, ha ripreso parecchie parti delle due pubblicazioni, dopo avermi interpellato, il giornalista Marco Lupis, corrispondente da Hong-Kong nel decennio 1995-2015, per il suo volume I Cannibali di Mao-La nuova Cina alla conquista del mondo targato Rubbettino.

   In prosieguo l’avv. Grillo mi ricontatta per chiedermi un consiglio. Che fare con tutto il carteggio in suo possesso? Egli era ormai avanti negli anni e i suoi non l’avrebbero sicuramente conservato anche perché risiedevano altrove, a Roma e lui stesso alla fine vi si sarebbe trasferito. Non ci ho pensato due volte e d’un subito ho risposto: Avvocato, secondo il mio modesto modo di pensare il luogo più appropriato cui affidarla sarebbe l’archivio diocesano, però dovreste aspettare un certo lasso di tempo perché si verifichi un certo evento. Mi ha ringraziato. Ci siamo rivisti più in là mentre seguivamo un funerale. Si pone a lato tutto sornione e abbozza: Io ho seguito le Vostre parole! Ho compreso l’antifona e non ho offerito verbo alcuno.

   
    L’avvocato possedeva sul pianoro di Monte Zervò una casetta dove periodicamente trascorreva le vacanze estive. Non c’era chi, trovandovisi, non passasse a salutarlo. L’iniziale approccio non rappresenta un bel ricordo. Erano gli anni ’50 e, dovendosi effettuare in zona vicina la manifestazione della posa della prima pietra dell’acquedotto del Buco, il Comune ha messo a disposizione della cittadinanza un autobus. Inutile dire che i giovani siamo stati della partita. In quella giornata eravamo davvero in tanti. Rammento tra vari Peppe Timpano e Rocco Musicò. Dal posto in cui si è fermato il mezzo c’è stato bisogno di compiere a piedi un bel tratto di strada affatto agevole. Quindi, si è ritornati al pullman e alla casina Grillo per riposare e rifocillarci. Era stata disposta l’offerta di una colazione, ma quale la sorpresa! L’incaricato, Rocco Leale, capo della sezione dei coltivatori diretti, oltranzista in pieno, ha consegnato uno per uno i panini imbottiti soltanto a quanti erano targati democristiani. Noi non eravamo legati a partiti di sorta! Anche se ci trovavamo discosti di qualche metro, al nostro indirizzo non si è fatta nemmeno una mossa. Cosicchè io e gli amici, letteralmente stupìti, siamo rimasti di stucco a guardare coloro che quasi ostentando sbocconcellavano anche alla faccia nostra. Non possiamo dire di non avercela sentita, ma, orgogliosi, non abbiamo tardato a distanziarcene. Si è arrivati a Oppido nel tardo pomeriggio e la fame è passata solo con ciò che abbiamo trovato in casa. All’epoca un certo tipo di democristiano si riteneva nemico rispetto ai suoi consimili.

   L’avv. Grillo, era tradizione familiare, amava accostarsi al pianoforte e comporre musica, soprattutto di carattere sacro. Tra le sue carte ho rinvenuto un pezzo su versi dell’arciprete Giovanni Sposato ucciso nel 1919, “Vergin sublime ed umile”:

Vergin sublime ed umile,
In tua umiltà beata,
Qual Madre dell’Altissimo
Dall’Angiol salutata,
Presta a noi figli un tenue/
Raggio di tua virtù.
Madre pietosa, in gaudio
D’Eva mutasti il pianto;
Figli ribelli ed esuli
Copristi col tuo manto.
Deh! Il santo amor infondisi,
Fa’ che viviam per Te.
Vergin fra tutte candida
Vieppiù che neve alpina,
Di purità, di grazia
Amabile Regina,
Casti i tuoi figli serbali,
Casti la mente, il cor.


    Non ho reminiscenza di averla mai sentito cantare in chiesa. È assai nota e stracantata invece tutt’oggi una melodiosa Pastorale (Ninna – nanna), che finora sapevamo espressa su parole del canonico don Gaetano Cosentino. Invero, il fatto di rinvenirla in un quadernone che comprende in toto lavori del Grillo ci fa propendere per dare a lui anche la proprietà dei versi. Don Cosentino avrà operato solo in sede di arrangiamento e di collaborazione alle varie orchestrine, che in seguito ne hanno fatto il loro cavallo di battaglia. Eccola quale ricavata dal manoscritto con data 8 dicembre 1946: 

Suonano mille campane
a stormo su nel cielo
e mille stelle lontane
sembran sorridere.
Tutti i pastori si destano
pieni di gioia infinita:
oh, quante ninne nanne 
sopra la neve!
Giungono. Oh! Paradiso!
Vedono un bambinel
a un tenero sorriso
gli occhi dischiudere!
Muti lo guardano estatici
pieni di gioia infinita:
oh! poter così restare

tutta la vita! 
 
  Ecco  la bellissima  interpretazione e l' arrangiamento  che in tempi recenti ne ha fatto
 Turi Rugolo:



    Oltre che compositore, don Filippo Grillo era anche poeta, narratore e forbito conferenziere. Me ne dà pieno atto il quadernone detto, nel quale con la sua minutissima ed elegante grafìa ha riportato tanti componimenti a far tempo dal 1931 e giù giù fino al 1986. Vi sono creazioni poetiche, discorsi e ricordini funebri in memoria di Nicola Lacquaniti (1931), Francesco Petrone (1933), Cav. Alfredo De Zerbi (1935), Giovannino Longo (1936), prof. Giuseppe Pignataro (1947), Agostina Grillo (1949), Rosa Sposato Lentini (1950), Antonio Ferraro (1954), Gaetano Grillo Consigliere onorario della Corte di Cassazione (Oppido 1868-Genova 1955), Mario Lando (1959), Antonino Crucitti (1963), Rocchetto Ruffa (1965), Michelangelo Molluso (1971), Antonio Sandalo (1972), Raffaella Lentini (1973) e Cav. Crescenzo Festes di Sessa Aurunca (1986). Strana la presenza di quest’ultimo tra tutti Oppidesi. Molto probabilmente, si tratta di persona legata a Lily Buda, che vi si era trasferita negli a. 50 e ch’era impegnata in una farmacia. Spiritosa una risposta in rima nelle vesti del colono Paolo Caccamo al proprietario del fondo magistrato Gaetano Grillo in Genova datata 6 ottobre 1947. Eccone appena alcune righe:
 
 
    O mio nobile Commendatore!
    Ma che dico? – Mio Grande ufficiale!
Io non sono versificatore
E la penna  tratto assai male;
altrimenti, sia pure cantando,
vi direi che nel mondo moderno
i birbanti ci stanno affamando
(li potessi vedere all’inferno!).


 
  Oltre quanto riferito, l’avv. Grillo, data la sua responsabilità in Azione Cattolica, operava in altri ambiti. Una prima conferenza rimonta al 18 gennaio 1947. Si offre come L’opera caritativa del Papa durante la guerra. In tale occasione approfitta per accennare ai due anni trascorsi in un campo di prigionia, quello di Weingarten in Missouri negli Stati Uniti. Il frangente, proposto quale Esperienza di vita cristiana-Ora credo e sono felice lo materializzerà il 12 aprile 1974 in un articoletto inviato a “La Domenica” (Roma). Così, tra l’altro tuonava contro i conflitti bellici: La guerra è “il sovvertimento di ogni principio di ragionevolezza, col conseguente trionfo dell’iniquità e della barbarie; essa è la negazione del diritto, se per diritto intendiamo l’arte del buono e dell’equo fondamento ed equilibrio della civile società; essa è un fenomeno di follìa collettiva, un immane flagello, come i terremoti, gli uragani, le epidemie, permesso dal Signore per il castigo delle colpe dei popoli e delle nazioni”. Ulteriori conferenze riportate sul quadernone risultano tenute all’Azione Cattolica di Molochio (L’Eucarestia, sacramento di unità) e a quella di Sitizano il 7 dicembre 1956 (Importanza e significato delle bandiere nell’Azione Cattolica). Ancora in seno all’Azione Cattolica si avvisa altra: Il padre nella famiglia cristiana.

   L’avvocato, così anche vari suoi precedenti, collaborava in cattedrale alla festa della Santa Infanzia voluta tanto tempo addietro dal parente missionario. Oltre che partecipare in primo piano alla funzione, faceva uscire in giro vestito da cinesino un ragazzo per raccogliere offerte a pro’ delle Missioni. Il cinesino, che variava spesso, suscitava la simpatia degli Oppidesi, che si affacciavano in sulla porta per vederlo transitare seguito da compagni di gioco o di scuola. I colori dell’abito, che si custodisce nella sacrestia, si offrivano variamente sgargianti e attraenti. Se non ricordo male, l’ultimo a vestirlo dev’essere stato il dr. Domenico Giannetta, oggi consigliere regionale , nel 1980, la cui immagine ho riprodotto nel volume su padre Grillo. L’usanza è stata dismessa sia a causa del trasferimento dei Grillo che per la morte della strenua zelatrice signorina Benedettina Messina.

    D. Filippo Grillo, nato da d. Domenico e d. Carolina nel 1907, nel 1940 si è sposato nel Santuario di Pompei con d. Ester Princi. È deceduto a Roma nell’anno 1996.

Rocco Liberti