Un ramoscello di olivo e una palma servono solo a fingere di accogliere Cristo oggi, dimenticando che Egli è dimenticato nel cuore e nella carne di quelle migliaia di disperati che continuano a sbarcare nei nostri porti o a marcire specialmente nelle tendopoli rattoppate e nelle fabbriche abbandonate del Rosarnese.
Giovedi scorso erano in 590 al porto di Reggio Calabria, 589 se non si conta la ragazza sbarcata cadavere dalla grande e vecchia nave della Marina Militare che due ore prima aveva sbarcato altri cadaveri a Messina e che non riusciva a dare un ricovero a tutti al chiuso, ma solo alle donne e ai 140 bambini privi di tutto. Gli uomini invece lasciati all’aperto sotto una coperta termica dorata che li faceva assomigliare ad uova di Pasqua infiocchettati per la gioia di giornalisti e operatori prezzolati dell’accoglienza lungo le tre lunghissime ore di attesa prima dello sbarco al freddo di tramontana che si infilava nelle ossa finchè la burocrazia elefantiaca italiana si decideva a portare a termine i propri interventi di tartaruga.
E gli operatori volontari – tanti, ma proprio tanti, per fortuna - a combattere inermi la loro battaglia contro il freddo, la sete, la fame. Soprattutto contro l’assuefazione di ripetere stanche e drammatiche ritualità che durano poche ore prima che i disperati sbarcati vengano a loro volta ingoiati dall’inferno come le decine, centinaia di migliaia che li hanno preceduti in questi anni infernali per la storia del Mediterraneo.
Carne da macello da immolare sull’alibi quotidiano dell’accoglienza che non accoglie, dei fondi stanziati e spesi per sfamare non si sa più quale ingordigia nascosta, delle parole buttate a fiumi sulla faccia , le orecchie e il cuore della gente ormai insensibile ed assuefatta al folklore miserevole di queste morti quotidiane che si consumano non solo sui barconi, sulle navi di soccorso o nei porti, ma soprattutto nei centri di smistamento o di raccolta.
Nei nuovi lager dove si agitano tanti rami di ulivo e di palme, ma dai qualiCristo è stato scacciato già da un pezzo!
Inizia con questo ricordo del grande vescovo Tommasini, a 260 anni dalla nascita, la collaborazione a questo blog di Francesco Barillaro: non storico di mestiere (ammesso che la superficialità e la tuttologia tipica dei tempi e il dimenticato rigore degli studi consentano ancora di averne), ma storico puntuale per vocazione, attento alla narrazione rigorosa e alla ricostruzione lineare, pure all'interno della dimensione commossa di chi è innamorato della propria terra e dei suoi fasti (Bruno Demasi).
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Vide la luce in Diminniti (RC) il 9 febbraio 1756, fu battezzato lo stesso giorno col nome di Alessandro, Fortunato, Sebastiano. Famiglia agiata la sua. Il suo primo maestro fu il padre, dotto nelle materie giuridiche e letterarie. Iniziò gli studi di Teologia nel 1774. Laureato all’università di Napoli, fu ordinato sacerdote il 19 dicembre 1778. Designato vescovo di Oppido Mamertina il 3 settembre 1791, fece il suo ingresso in paese il 18 maggio 1792. Finalmente, dopo nove anni, la diocesi di Oppido, dopo la morte del vescovo Nicola Spedalieri (5 aprile 1783) e la rinuncia al vescovado di Domenico Giuseppe Barillaro, ritrovava il suo pastore. Erano trascorsi pochi anni dal catastrofico terremoto (5 febbraio 1783) che devastò la piana di Gioia Tauro con migliaia di vittime, circa 1200 solo a Oppido. Come scrive S.Rullo egli “ trovò molte capanne, qualche abituro, qualche casa murata, una baracca denominata chiesa”.
Una delle prime preoccupazioni del giovane vescovo, appena 35 anni, fu quella di assicurare al gregge affidatogli e gravemente provato, una dimora sicura al riparo dalla malaria, fece sua la decisione di traslocare in Pedavoli gli uffici curiali e la sede vescovile. La distanza tra Oppido e la temporanea sede suggerisce al Tommasini altra soluzione: nel 1795 manifesta chiaramente il proposito di trovare una sistemazione più vicina; infatti alla fine della sua prima “Relatio ad limina” del 12 ottobre di quell’anno così scrive: “ Devo confessare, Beatissimo Padre, che in ogni stagione estiva per le crudelissime epidemie (sparse) nell’intera diocesi, afflitto da malferma salute, macerato da continue febbri, per consiglio dei medici, sono costretto ad abbandonare la residenza e cambiare luogo, non senza intimo acuto dolore; e non mi è lecito ritornare qui, senza pericolo di vita, se non all’inizio delle piogge, finchè prosciugati gli stagni dell’acqua, l’aria oppidese mi permette una stabile dimora. Nella suddetta stagione, a difesa della salute, mi sia consentito dimorare in luoghi vicini, ai quali e dai quali sia facile l’accesso e il recesso, nello spazio di una giornata”.
Le attenzioni del nuovo prelato cadono sul vicino sperone di roccia che sovrasta Oppido, descritto mirabilmente da S. Rullo : “Davanti allo sguardo estatico del vescovo, ogni volta che usciva dalla baracca –seminario o dall’episcopio si presentava una magnifica collina verde, accattivante per la selvetichezza della posizione e per la mitica forma di mostro, sporgente dal ventre della sovrastante montagna”.
Dal desiderio del vescovo di trovare una sicura dimora estiva per il clero e gli alunni del seminario, alla realizzazione per volontà dello stesso di una piccola chiesetta in legno sullo sperone roccioso, intercorrono sei anni. Probabilmente il luogo era già abitato, occasionalmente, da pastori e carbonai e forse furono essi stessi a suggerire al Tommasini il luogo immune dalla malaria. Successivamente il vescovo invoglia alcuni abitanti dei paesi delle Serre a ricongiungersi con i primi arrivati, con la promessa di un piccolo appezzamento di terreno . Tommasini, in particolar modo nei mesi estivi, amava trasferirsi insieme ai sacerdoti e ai seminaristi sul monte che Pietro Martire Mesdea, insegnante di greco e latino nel seminario di Oppido, denominò PIMENORO.
Sul “ MONTE DEI PASTORI” Tommasini creò le condizioni per una dignitosa dimora ai villici abitanti, increduli che il vescovo degnasse loro di attenzioni. Fece incanalare le acque fresche e cristalline della località “mulinari”, a monte del paese, e dotò il villaggio di una fonte pubblica. Non poteva mancare un’icona da venerare, Tommasini anche in questo dimostrò genialità affidando al pittore Giuseppe Crestadoro la riproduzione di una madonna con fattezze da pastora. La tela (1803) infatti, ritrae un’immagine atipica di madonna, con paglietta in testa a larghe tese, vincastro a custodire le sottostanti pecorelle: LA DIVINA PASTORA che tiene assiso sulle ginocchia il Bambino, graziosamente sorridente, che regge con la manina sinistra il laccio di un’agnellina, la quale viene accarezzata dalla mano della madonna. Fissa anche una data, per la festa annuale, la seconda domenica di luglio che si protrae fino ai nostri giorni. Non mancò l’iscrizione biblica in latino inneggiante a Maria:
Habeto O pulcherrima inter mulieres Quae abis post vestigia gregum Et pascis oves tuas iuxta tabernacula Pastorum Sub umbra illius quem desideravas Piminori sedens Quam Tibi matri clementissimae Patronae potissimae Pastorali et amictu et munere heic visendae In grati animi tesseram, Alexander Episcopus Oppidem Pietati tuae semper devotissimus Aedem cum suis ornamentis De suo constituit dedicavitque Anno aerae vulgaris MDCCC.
O bellissima tra le donne che vai dietro le orme del gregge e pascoli le tue pecore presso le capanne dei pastori sedendo sotto l’ombra di quel Piminoro che tanto avevi desiderato accetta quale segno di animo grato a te Madre clementissima, patrona potentissima per la veste pastorale e l’ufficio degna di essere venerata qui questo sacro tempio con i suoi ornamenti che Alessandro Vescovo di Oppido tuo fedele sempre devotissimo nell’anno 1800 a sue spese eresse e dedicò.
Il clima rilassante, la simpatia, l’accoglienza calorosa degli umili abitanti creavano le condizioni ideali per una serena permanenza. Quest’oasi di pace, serenità e meditazione, tanto cara al Tommasini, venne bruscamente interrotta, con un’azione infame.
Il 14 febbraio 1806 l’esercito Francese occupò il meridione e Giuseppe Napoleone, fratello del Bonaparte, si insediò sul trono dei Borboni. Spirava, finalmente, il vento del cambiamento e il Tommasini sensibile e angosciato per le precarie condizioni delle classi deboli, non esitò a sostenere gli ideali di libertà e di cambiamento fomentati dai francesi. Le mosse del vescovo erano seguite con gelosia dalla regina Carolina che preparava la vendetta.
Il 15 aprile dello stesso anno, a Gioia Tauro , in onore del re Giuseppe Bonaparte vennero preparati grandiosi festeggiamenti e vari indirizzi di saluto, non mancò quello tenuto dal vescovo Tommasini con elogi calorosi al re, da lui successivamente accompagnato a Palmi e Reggio Calabria. Il 25 ottobre del 1806,dopo un’irruzione nel palazzo vescovile di un gruppo di uomini armati tra questi il malvivente Michelangelo Gerace, Alessandro Tommasini venne catturato e condotto nella notte a Bagnara da dove, a bordo di una feluca, fu trasportato a Messina e rinchiuso nel Monastero del Carmine. La notizia rattristò gli abitanti del nascente villaggio . Trascorsero nove lunghi anni di esilio, il vescovo, ritornò in Oppido nel 1815 ma nulla era più come prima.
Tommasini trascorse due anni in Oppido, ma si assentava continuamente, desiderava lasciare la diocesi .
Nell’aprile del 1817 il re propose la sua promozione. Il Papa, nel concistoro del 16 febbraio 1818, lo trasferì in Reggio Calabria. Il 16 febbraio 1818, senza salutare nessuno, lasciò definitivamente Oppido. Tommasini ebbe pubblico annuncio della sua promozione l’8 maggio 1818. Il 27 giugno prese possesso dell’Archidiocesi di Reggio Calabria, fece la professione di fede e ricevette il Pallio di Metropolita il 12 luglio.
Alessandro Tommasini, il vescovo che amava Piminoro, oltre a reggere la diocesi di Oppido per ben ventisei anni, fu Arcivescovo di Reggio e Metropolita della Calabria per otto anni. Il Signore lo ha chiamato a sè, all’età di settanta anni, lunedì 18 settembre del 1826 alle ore diciannove.
A Piminoro, alla sua memoria, è intitolata la scuola elementare.
Le dimissioni odierne dei 15 primari dell’ospedale di Vibo Valentia
presentate al ministro Lorenzin e al prefetto della città per protesta eclatante
contro i continui tagli imposti alla sanità locale dall’emissario /commissario renziano
Scura alzano finalmente il coperchio su una situazione sanitaria calabrese
sempre più nauseabonda e colpevole.
E’ la prima volta che scendono in campo gli addetti al settore dopodecenni di logorree diarroiche e inconcludenti dei politici calabresi sempre
impastati con i poteri forti al di là della loro appartenenza politica.
E’ la prima volta che i medici battononon solo sul tempo, ma soprattutto nella sostanza, le tiepide proteste,
ammesso ci siano mai state, dell’attuale e dei precedenti governatori calabri e
dei loro accoliti contro una nefanda spoliazione progressiva delle strutture
sanitarie regionaliimmolate sui mille
altari degli sprechi, degli intrallazzi e delle gestioni familistiche.
Se nel tempo tutti imedici
ospedalieri egli operatori sanitari dei
vari nosocomi della Regione, caduti uno dopo l’altro come birilli nelle mani dei
commissari e dei politici di turno, avessero seguito o anticipato questo esempio
congli sgoverni regionali e nazionali
che si sono succeduti, probabilmente oggi non ci troveremmo anche in ambito
sanitario in una situazione addirittura peggiore di quella registrabile in
alcuni paesi del Centrafrica o del Burkina Faso.
Ma dalle nostre parti medici e infermieri, al di là di tiepidissime e
balbettanti proteste, di volta in volta hanno accettato supinamente, complicile loro rappresentanze sindacali, ogni atto
possibile di distruzione della sanità, persino in quelle zone di montagna dove
la sussistenza delle strutture ospedaliere avrebbe dovuto obbedire a criteri
intelligenti di equa ripartizione sui territori più disagiati piuttosto che a
criteri di spartizione. Il mondo
sanitario ha invece solo chiesto ( e spesso ottenuto) che fosse la gente, l”utenza”
a lottare alsuo posto, mentre molti di loro si adeguavano spesso a lottizzazioni e giochi
di potere interni che ci hanno sempre disgustato.
Ai 15 primari di Vibo, col cui gesto odierno ci si augura inizi un’epoca nuova di riscatto e di lotta, il plauso e la solidarietà di tutti.
Tutte le donne calabresi o naturalizzate Calabresi hanno un che di speciale, ma costei forse più di tutte ...
Vive in una piccola casa a un piano circondata da piante e fiori, un campo sportivo. «Benvenuto nel Centro don Puglisi» in terra d’Aspromonte. Terra di ’ndrangheta. Attorno a lei tanti bambini che studiano e giocano. «Ci sono anche i figli delle famiglie della faida di San Luca», spiega suor Carolina Iavazzo. Quella che ha provocato decine di morti, quella della strage di Duisburg. «Li hanno portati proprio le famiglie. All’inizio è stata dura, non si sedevano vicino, non giocavano insieme. Ora giocano e studiano fianco a fianco». Un piccolo grande miracolo.
Nata ad Aversa, ha lavorato in Campania, Sicilia e Calabria. Con don Pino dal 1991 al ’93, «l’anno più tremendo della mia vita». E ora qui! E’ qui dal 1994, ma la sua vita l’ha cambiata nel segno di un uomo straordinario, don Pino Puglisi. Il sacerdote di Brancaccio, ucciso dalla mafia nel 1993, le ha lasciato un testimone; e lei ha sentito che la lotta al fianco dei giovani contro le “lusinghe” della criminalità organizzata andava condotta dove c’era più bisogno.
La Locride, diventata “famosa” negli anni ’80 e ’90 per i sequestri di persona, dove i morti ammazzati cadevano a centinaia e gli innocenti rimanevano dimenticati, era il posto dove andare. E lì, a Bosco Sant’Ippolito, un piccolo centro tra Bovalino e San Luca, suor Carolina fonda nel 2005 il centro “Don Pino Puglisi”. Un posto pieno di giovani, energie e creatività. Uno dei tanti segni di una terra in fermento, che testimonia alla storia come Don Pino Puglisi abbia aiutato tanti giovani ad uscire dal tunnel della paura e dell’ignoranza, attraverso una pedagogia attiva, coinvolgente, sofferta.
Ma autenticamente liberante. Ed è ora anche di liberare l’operato di questo sacerdote dal riduttivismo del “prete antimafia”: chi opera nello spirito del Vangelo non può non essere “contro” la mafia, ma è piuttosto la mafia ad essere “contro” il Vangelo: e Padre Puglisi sapeva che la vera e autentica testimonianza del vangelo è coincidente anche con l’impegno civile e umano.
Prezioso è stato l’apporto femminile e materno di Suor Carolina Iavazzo, che è stata la principale collaboratrice di padre Pino Puglisi: appartiene all’ordine delle “Sorelle dei Poveri di Santa Caterina da Siena”, un ordine religioso missionario apprezzato per il suo carisma e voluto da padre Puglisi per gestire il centro d’accoglienza “Padre Nostro” da lui realizzato per fronteggiare le povertà del quartiere Brancaccio di Palermo.
Suor Carolina racconta che Padre Puglisi aveva un bellissimo sogno: portare il sole nel quartiere Brancaccio: il sole della solidarietà, del riscatto morale e civile, il sole della promozione umana e spirituale, della libertà, del sorriso e dell’amore. Un sogno che non voleva realizzare da solo; per questo aveva innescato il sistema infallibile del contagio, del coinvolgimento, della corresponsabilità.
Con un gruppo di persone aveva, in poco tempo, diffuso una gran voglia di cambiare il quartiere a iniziare dai bambini, dai giovani e si lasciava aiutare non solo dalle suore ma anche dai volontari del quartiere o da suoi amici fuori quartiere. Padre Puglisi – racconta suor Carolina - ogni giorno che passava, tirava fuori dal suo cassetto un pezzo di sogno e stava per completare il suo puzzle, quando qualcuno, la mafia, ha inteso spezzare questo sogno che però continua e si trasforma in realtà.
Suor Carololina, è autrice di poesie in cui parla di Palermo, dei suoi tanti ragazzi, definendoli con la struggente espressione di “figli del vento”. Strappati alla strada e alla violenza mafiosa, con una tenacia mai vinta, mai sopita, nonostante la morte di Padre Puglisi:“Muori così, senza far rumore…nel silenzio te ne vai, lasci a noi solo le impronte di una nuova libertà”.
Non nasce da una mente incartapecorita nell'illusione della poesia di maniera la poesia di suor Carolina, ma dalla strada. E porta comunque alla cattedra, poiché pone degli itinerari pedagogici di vero stupore. Fatti di libertà e gioia. Quella gioia che ha accompagnato don Pino fin nel gesto ultimo del suo morire, immolato, ucciso dalla violenza, ma capace di cambiare il cuore del suo assassino proprio tramite quel suo mite sorriso.
Per la suora, l’insegnamento di vita di Puglisi difficilmente si dimentica: “Tutti siamo chiamati a lasciare qualcosa che resti nella storia e nella vita degli uomini, come un testimone che passa da una mano all’altra, di generazione in generazione perché la vita è un compito che qualcuno ci affida perché altri dopo di noi, possano ritrovare la strada che porta alla meta”.
Quando aveva detto: “Non lasciate il mio corpo troppo solo”, Padre Puglisi voleva dire: “Continuate voi la mi attività, la mia speranza, realizzate voi il mio sogno”. Il sogno dell’”uomo di Dio che semina a piene mani, raccogliendo sassi che trasforma in zolle profonde”, zolle che erano soprattutto i cuori dei ragazzi di Brancaccio, in cui Padre Puglisi ha seminato insopprimibili semi di pace e di libertà.