La prima parte di questo interessante e spassoso articolo vide la luce, a firma di Rosario Condò, autore anche della gustosa ricostruzione grafica dell'entrata del bar Liberti a Oppido, negli anni Settanta del secolo scorso su un semplice, ma gloriosissimo periodico mamertino stampato in ciclostile, "MAMEPTINON". La seconda parte invece, a firma di Rocco Liberti, nipote del protagonista principale di questa bella pagina, è completamente inedita. Entrambe illustrano con rigore storico e documentario uno spaccato di vita mamertina a cavallo tra il XIX e il XX secolo e proiettano il lettore con immediatezza nel passato glorioso di un paese che all'epoca, malgrado i ricorrenti terremoti e le ristrettezze dei tempi difficili, coltivava a ragione speranze di ulteriore grandezza sia a livello urbanistico sia a livello sociale e culturale. Atmosfere quasi cittadine, vita semplice e persino allegra nel poco che offriva il quotidiano, ricchezza di industriosità, lavoro immane nei campi e nei piccoli e grandi opifici di paese: tutto mostrava la voglia di crescere e di migliorarsi che nel tempo è inesorabilmente venuta meno.(Bruno Demasi)
Ogni paese grosso o piccolo che sia ha sempre avuto in tutti i tempi i suoi Personaggi, uomini di cultura, notabili ecc., ma nella vita paesana di ogni giorno non sono mancate persone, che, pur non appartenendo a quel rango, si sono tuttavia rese meritevoli di stima e benevolenza per chiarissime qualità e determinate attività professionali, artigianali, commerciali e via dicendo o per locali caratteristici, che in uno col proprietario hanno fatto epoca e il ricordo dei quali si è tramandato per diverse generazioni.
Il “Personaggio” con il suo locale che presentiamo, cercando di mantenerci nella più ristretta brevità, è “Don Rocco Liberti” proprietario della bottega detta “il Caffè” esistita in Oppido Mamertina fino al 1924 e da lui iniziata probabilmente tra il 1880 e il 1885 nei locali del piano terra rialzato di casa Frascà, i cui lati principali erano posti a fregio rispettivamente sul Corso e sulla via Oratorio col numero civico 47, dirimpetto alla farmacia Simone e con ampio angolo visuale sulla grande piazza Umberto I, “il salotto di Oppido”.
Al “Caffè” si accedeva per due ingressi: dalla via Oratorio e dal Corso, superando tre gradini di marmo bianco di Carrara. Ai lati, dal limite delle portiere e ancora dentro, facevano bella mostra eleganti vetrine, con esposizione di bottiglieria delle migliori Case di liquori del tempo e alcune specialità in artistiche confezioni, quali il Corfinio in anfore pompeiane di terracotta con fine decorazione, ottima imitazione dell’antichità. Sulle pareti esterne campeggiava in grande formato e stampata su lamiera l’effigie dei “due vecchi” la famosa pubblicità del rinomato cacao Talmone mentre la porta dell’ingresso principale sul Corso era sormontata dall’insegna con la dicitura “CAFFE’ Rocco Liberti”.
L’interno non era molto vasto, però si qualificava di giuste proporzioni per le necessità che allora richiedevano tali generi voluttuari, che, fatta eccezione per le caramelle e simili, proprie dei ragazzi, erano riservati soltanto alla cosiddetta “gente perbene”. Il locale risultava arredato con scaffalatura di sobria eleganza e l’esposizione dei dolciumi e della confetteria multicolore appariva ben disposta, specialmente l’assortimento della cioccolata. Questa era così bene offerta in mostra entro una speciale bacheca a scomparti poggiata con piano inclinato sopra una parte del bancone di vendita, che attirava subito l’attenzione della clientela. Il tutto s’inquadrava nello stile caratteristico della seconda metà del XIX secolo.
Don Rocco, così lo chiamavano tutti in Oppido, era un bel pezzo d’uomo dall’aspetto gradevole, dal carattere multiforme, serio abbastanza e al tempo stesso faceto e arguto e non gli veniva meno il senso dell’umorismo. Difatti, non appena si presentava l’occasione, non mancava mai di attuare allegre burle e piacevoli scherzi, che molti ancora ricordano. Religioso di ferma credenza, praticante ma non bigotto, teneva l’amministrazione e le cure della chiesetta del “Calvario” e ne seguiva con zelo l’andamento delle Sacre Funzioni, specie durante il periodo particolarmente impegnativo della S. Pasqua.
Ci sapeva fare e bene nel commercio e non si accontentava di trattare soltanto i generi dolciari e il caffè, che preparava ottimo, ma si occupava pure di mercanzia di ogni genere, insomma un vero bazar, che teneva in altro locale attiguo al Caffè, con scaffali bianchi e rifiniture dorate, coi colori che si armonizzavano ai merletti, trine, rocchetti di filo e via discorrendo. A smerciare questa roba ci pensavano i familiari tra una faccenda e l’altra della casa. Si offrivano anche grandi caratteri dorati e nastri per le corone funerarie. Diciamo che c’era di tutto.
Per inquadrare il soggetto nella giusta dimensione quale primario commerciante oppidese del suo tempo stimiamo opportune dire come egli, pervenuto da modeste origini, ha saputo, con le sue diverse attività, attirarsi l’unanime stima e le simpatie dell’intero paese. Il suo nome era divenuto talmente familiare che perfino i ragazzetti, quando volevano acquistare le caramelle “a vetro” (zucchero lavorato) da lui prodotte e che allora costavano cinque un soldo, dicevano “andiamo da don Rocco” e uscivano felici dal Caffè e con la bocca addolcita.
I genitori gli sono venuti a mancare prestissimo (il padre, Giuseppe, faceva di professione il merciaio e la madre, Teresa Franconeri, apparteneva pur essa a una famiglia di commercianti, precisamente di “liquoristi”) e da ragazzo, con tenace volontà, si è messo a lavorare per procacciarsi il necessario per vivere, senza tendere la mano a nessuno, affrontando vari mestieri, dal musico a quello dell’umile conduttore nel Circolo dei Nobili, a quel tempo situato nei “bassi” del palazzo Saverio Grillo, a nord della Piazza Umberto. È stato appunto in questo locale che ha avuto inizio la rapida ascesa di don Rocco. Capitava spesso al Circolo Candido Zerbi, persona facoltosa e di primo piano nella vita oppidese e Senatore del Regno dopo l’unificazione nazionale, che, stando a conversare con gli amici, osservava ammirato la sveltezza, i modi garbati e la vivace intelligenza del giovane. Presolo a benvolere, ha deciso di toglierlo da quel lavoro e con la spontanea e generosa offerta finanziaria lo ha avviato al commercio aprendogli un negozietto di generi diversi (zucchero, caffè e altri generi coloniali). In breve volgere di tempo Don Rocco, con la modesta fortuna racimolata, frutto della sua avvedutezza negli affari, è riuscito a impiantare il “Caffè” dianzi descritto.
In quel tempo le macchine automatiche per la preparazione rapida del caffè erano soltanto nella mente del Padreterno e don Rocco approntava la gustosa aromatica bevanda con delle enormi caffettiere dette “alla napoletana”. Per soddisfare la numerosa clientela mattiniera (braccianti, contadini, operai ecc.) si alzava di buonora per accendere il fuoco nella fornacella e fare il caffè, che serviva fumante nelle tazze, con l’aggiunta di uno “schizzo” di anice per chi lo preferiva. La bevanda costava allora cinque centesimi, dieci con lo schizzo. Ottimo gelatiere, preparava eccellenti gelati e rinfreschi con materie genuine, soprattutto in occasione delle due principali festività di Maria SS.ma delle Grazie a Tresilico e di Maria SS.ma Annunziata a Oppido. Per attirare l’attenzione dei festaioli esponeva davanti alla bottega e sui ripiani di artistici tavolini in ghisa, opportunamente addobbati, alcune forme di piombo, che allora si usavano per comprimere la pasta del gelato nei colori appropriati e per ottenere con bell’effetto l’imitazione della frutta: il grappolo d’uva, la pera, la pesca, il pomodoro ecc. Eccezionalmente, il servizio veniva attuato anche quando era richiesto per sponsali e altre cerimonie importanti. Don Rocco produceva pure nel suo Caffè olio di mandorle, che forniva a farmacie, drogherie e a privati e fra l’altro teneva bibite rinfrescanti purgative. Insomma, il Nostro si forniva di tutto quanto era allora possibile per soddisfare le richieste più impensate della vasta clientela, non solo oppidese, ma financo di paesi come Varapodio, Castellace e S. Cristina
[1].
La bottega del Caffè, nel posto in cui si trovava e con la farmacia Simone accanto, costituiva il punto più elegante e movimentato della cittadina e nelle giornate festive il passeggio con i giovinotti vestiti a nuovo s’intensificava e le consumazioni del caffè, dei liquori e altro toccava punte massime. Dobbiamo aggiungere che per i giovani c’era pure una deliziosa attrazione, perché don Rocco aveva avvenenti e belle figliole in età da marito, rinomate per tutto il paese e dintorni, sia per le fattezze muliebri stupende quanto per la serietà e le preclari virtù. Don Rocco in famiglia era affettuosissimo, ma altrettanto severo e non si scherzava facilmente quando si trattava dell’educazione dei figli. Una delle ragazze, la più simpatica e svelta aveva appreso l’arte del padre e con disinvolta compostezza serviva anche lei nel negozio, cosa per quei tempi assai rara, dato che ancora le donne nei nostri paesi non comparivano mai nei locali pubblici. Di essa, appena diciottenne, un giovane professionista di Vibo V. giunto in Oppido per assumere la condotta zooiatrica, praticando con una certa frequenza il locale, se n’è invaghito e l’ha sposata nel lontano 1910.
È giunto adesso il momento di dare una pennellata di buon umore al nostro racconto per mettere in risalto la vena comica del Nostro, il quale attuava i suoi scherzi e le sue burle con arguta semplicità nel clima del suo tempo altrettanto semplice e bonario sotto alcuni aspetti. Ecco uno dei suoi gustosi scherzi.
Indirizzata male, capita nel Caffè una persona sugli anni, con un paio di baffoni e vestito con cura contadinesca, probabilmente sceso da Piminoro, che chiede: -Ho bisogno di una fotografia a mezzo busto. - Don Rocco lo squadra da capo ai piedi e lì per lì pensa: -Questa è la volta buona- e risponde: - Si, ma non sono io il fotografo. È mio fratello, che vado subito a chiamare. Intanto voi tenetevi pronto su questa sedia.
Che cosa non combina il Nostro! Va nel retrobottega, si ficca in capo un berrettone, si avvolge al collo una sciarpa di lana, cambia la voce e fa: -Volete una fotografia? Eccomi da Voi. - Apre uno scaffale e trae uno di quegli scatoli a forma di cubo con dentro la sorpresa, che i ragazzi acquistavano spesso e dove la sorpresa era costituita da un pupazzetto che scattava fuori a mezzo di una molla azionata premendo un pulsante. Dice: Bene! Aggiustatevi la cravatta, volgete lo sguardo verso di me, sorridete e state fermo. - Tac! Si apre lo scatolo e balza fuori un pulcinella. La fotografia è bell’e fatta!
Il povero contadino, rimasto perplesso e confuso, non sa se arrabbiarsi o ridere e con voce risoluta tuona: -
A me non pare che tutto questo significhi una fotografia! - Allora don Rocco, senza punto scomporsi, con la sua rituale bonomia e col mezzo sorrisetto sotto i baffi risponde:
-Ma, amico mio, non vedete che qui si vendono dolci e caramelle e si fa il caffè? A questo punto al malcapitato non resta che un
“Scusatemi tanto e buon giorno”. Il tempo con la sua inesorabile fretta correva veloce. Erano passati molti anni di fecondo lavoro con fugaci gioie e immancabili avversità, quando un giorno, un triste giorno, il proprietario dei locali del Caffè Maestro Vincenzo Frascà pregava don Rocco di trasferire altrove il negozio perché venuto nella necessità di demolire il vecchio palazzo per dare corso ai lavori per la costruzione del nuovo edificio finanziata col mutuo spettante ai terremotati del 1908. Per Don Rocco è stata una trafitta al cuore. In pochi giorni il Caffè è stato smontato e adattato in un “basso” di sua proprietà situato sulla stessa via Oratorio, un fuori mano, lontano dal movimento cittadino e con davanti la mole del palazzo Malarbì. Lo sconsolato barista aveva lasciato nell’antico locale i più cari ricordi e da lontano sentiva i colpi del piccone demolitore e quei colpi demolivano pure la sua personalità. Rattristato e intelligente com’era, giudicava impossibile un ritorno allo splendore di un tempo e dopo il trasferimento coatto, passato qualche anno appena, finiva i suoi giorni il venerdì santo del 1924. Aveva 69 anni.
Con la fine del Caffè ottocentesco e del suo proprietario si chiudeva definitivamente un’epoca di serena semplicità e di misurato benessere. Pochissimi, anzi rari, sono rimasti coloro i quali ricordano qualche cosa di quanto abbiamo detto e per un caso, seppure di scarsa importanza, il nome è citato nell’opera
“Oppido Mamertina riassunto cronistorico” del Frascà. Difatti a pag. 185 si legge
“In questa casa, Via Oratorio, N. 47, nel “Caffè” del compianto Rocco Liberti, a pian terreno, tutte le bottiglie di liquori si rovesciarono e molte si ruppero” (Terremoto del 16 novembre 1894).
Rosario Condò
* * *
Non ho alcun ricordo di mio nonno. Quando è morto, mio padre andava appena per i 16 anni. Conosco di riflesso solo quanto le tre “ziane” rimaste in Calabria raccontavano allorquando si verificava un incontro familiare. In ogni occasione era un continuo ridere tanti erano gli episodi esilaranti. Rocco Liberti era sì sempre pronto a combinarne una delle sue, ma non gli era da meno il suo dirimpettaio, il farmacista Dott. Vincenzo Simone, che non si faceva pregare per escogitare nuove marachelle tenendogli bordone alla grande. Tra i due buontemponi si faceva a gara. Un giorno una donna piuttosto anziana si è presentata in farmacia a richiedere, forse pronunziando male il termine, una strana medicina, il verbiakir (?). Don Vincenzo non ha perso tempo in mezzo e, rivolgendosi alla malcapitata, si è così espresso: No, non ce l’ho. Ce l’ha sicuramente il barista di fronte. Andate da lui. La poveretta ha obbedito all’indicazione offerendo che glielo aveva suggerito il farmacista. Don Rocco, capita l’antifona, ha subito individuato un pesante mortaio di marmo e glielo ha caricato offerendole di portarlo a chi glielo aveva detto. Quando il Simone, che non se lo aspettava, ha visto arrivare di nuovo la poveretta vacillante con quel pesante carico in testa, è scoppiato in una sonora risata, ma mal gliene è incorso perché ha ricevuto per premio una serie d’improperi d’ogni genere. Quando è troppo è troppo!
Lavorava al Caffè come inserviente o aiutante di vario genere un certo giovane non molto dotato che ne subiva di cotte e di crude. Siccome era lesto di mano, il Liberti quando doveva assentarsi per andare a casa sua distante qualche metro, lo invitava a montare in una specie di soppalco tramite una scala che subito ritirava. Il poveretto era costretto a stare fino al suo arrivo, pochi minuti certo, in quella scomoda posizione e non faceva che imprecare “mannaja don Rocco, mannaja don Rocco”. Con tale accorgimento si ottenevano due cose: si evitavano sottrazioni di ogni genere e il bar restava guardato a vista. Nei primi giorni di maggio per tanti commercianti la metà era Terranova con la festività del SS. Crocifisso. In un’occasione il giovane, vedendo che si tardava a partire tanto si è reso noioso con la sua richiesta: E quando jmu a Terranova? che quegli ha preparato la solita valigia e gli ha detto di precederlo. Allora a Terranova si andava col caval di S. Francesco e a portar anche qualche oggetto durava fatica. In quell’occasione però la valigia era più pesante del solito. Il tizio procedeva come poteva, ma borbottava sempre più: chi misi don Rocco nda sta valigia? Diavuli? A un certo punto non ne può più e ne forza l’apertura. La sorpresa: conteneva anche delle pietre e ben grosse. Immaginarsi le contumelie indirizzate all’autore del gesto!
I ragazzi soliti a passare davanti al Caffè non mancavano di allungare la mano per fregare qualche caramella, ma allo scartarla si accorgevano che dentro c’era solo una pietruzza. Era l’accorgimento usato a guardarsi dai possibili ladruncoli. Me ne ricordava ogni tanto mio suocero, che qualche volta n’era stato vittima.
Erano tante le storielle che le “ziane” avevano nel loro repertorio, ma a me piaceva soprattutto quella dell’arrivo dei parenti. Un bel giorno, avendo appreso che a Oppido c’era una famiglia di Liberti, un nucleo del prossimo litorale dallo stesso cognome e che in origine apparteneva di sicuro al medesimo ceppo per ricerche documentarie che ho effettuato, si è proposto di recarvisi in visita. Veniva da un centro assai più importante e, quindi, doveva trattarsi di gente facoltosa e altolocata. Figurarsi quindi le aspettative! Soprattutto da parte delle ragazze, che fantasticavano come loro natura. Il giorno del preventivato arrivo all’ora di pranzo stavano perciò in vigile attesa. Certo, sarebbero giunti con una automobile, mezzo allora alquanto raro, sfoggiando chissà quali vestimenti! Nell’attesa sbirciavano da qualche agevole posizione, quando hanno avvistato un vecchio carrozzino o carretto e da questo qualcuno chiedere della famiglia Liberti. Immaginarsi la disillusione quando hanno visto scendere gente vestita piuttosto dimessamente e con qualche paniere o scatolo in mano! Si sono subito dileguate e non volevano saperne di approcciarvisi, ma mio nonno, ch’era sì amante di burle, ma si qualificava pur sempre persona seria, si è imposto esclamando: - Sono venuti come parenti e come tali dovranno essere accolti. Naturalmente, a distanza di tempo nelle ricorrenti narrazioni la vicenda veniva colorita e di parecchio. Le “ziane” vedevano le cose sempre a suon di satira anche se piuttosto bonaria. D’altronde non ne lesinavano del pari a loro stesse. Le autoironie erano perciò frequenti. Ne ricordo qualcuna. Ormai piuttosto attempate, un giorno si trovavano a Bagnara in occasione della nota festa di agosto. Stanche, si sono sedute su una panchina. A un bel momento quella ch’era al centro prima mira lei stessa, poi dà un rapido sguardo alla sorella a sinistra quindi a quella di destra e subito autoderidendo lei e le altre sbotta in un: “O figghiòli, parìmu propriu ‘e tri testi di’ lametti”. Al tempo la marca di lamette Tre Teste, che offriva alla vista tre teste di biondone, era alquanto in voga.
Non so se c’entrasse mio nonno, ma a Oppido gli ideatori di burle pesanti non mancavano proprio. Raccontavano sempre le mie zie che sul finire dell’Ottocento al tempo delle lotte comunali tra i partiti Bianco e Rosso, il vincitore di un certo anno ha allestito nel salone del Comune un sontuoso pranzo con invitati e portate di ogni tipo. A essere ospitati erano naturalmente quanti facevano parte dei vincitori. Gli altri dovevano accontentarsi a guardare dalla piazza coloro che gozzovigliavano e di sicuro si rodevano. Erano tempi di fame e a molti mancava perfino il pane. Ma era tutto finto compresi i camerieri che mimavano di recare solennemente in braccio le varie portate.
Se non ho conosciuto mio nonno, ho ben impresso il ricordo del farmacista Simone, avendo questi vissuto fino alla bella età di 94 anni (+1964). Era sempre presente nel suo locale, ma a prendere i medicinali dagli scaffali si offeriva Maria. Questa, contadina tracagnotta, era sempre pronta a rispondere al comando seduta solennemente su una sedia accanto. Si qualificava piuttosto rustica e faceva di tutto, la cameriera, la baby sitter e la conduttrice di un fonduscolo. Era caratteristico vederla salire verso Oppido tutta bardata sul mascolino con gli scarponi e a cavalcioni su un’asina frammezzo le cofane laterali. Era senza dubbio una gran lavoratrice, ma spesso scaricava le sue ire sul povero Melo, un orfano di madre ch’era a tutto servizio. È vero, non era una gran cima almeno dal punto di vista cognitivo e comportamentale, ma lei non gliene perdonava una e le botte non mancavano. Alla fine il poveretto è stato assunto dal Comune in qualità di spazzino e ha operato meglio e più degli altri.
Allora non c’erano i mezzi di oggi che in un battibaleno ti fanno arrivare qualsiasi ordinazione e a ogni richiesta di un medicinale la risposta solenne e melliflua del farmacista era sempre la stessa: Arriverà con l’autobus delle cinque. Naturalmente, a furia di ripetersi, in paese era diventata una ricorrente battuta. Il dott. Vincenzo era sempre gioviale e trattava con molto garbo e alla consegna di ogni flacone profferiva con tanto di sorriso un: Servito! Naturalmente, la risposta era inequivocabilmente: Favorito, grazie! Quell’unica volta che mi ha detto Favorito al posto di Servito ho corrisposto con quest’ultimo termine. Non è da dire quando me ne sono accorto la profluvie di Scusate e di Favorito. Lo scambio del termine veniva davvero piuttosto facile e naturale. Sono stato amico dei figli Mario, professore alle Medie, calciatore della Mamerto dei vecchi tempi, allegro e gioviale conversatore, ma soprattutto di Armando, farmacista anche lui. Quest’ultimo andava pazzo per i polizieschi e i gialli e lo scambio era continuo. Pure lui persona dabbene.
Anche tra i Simone la propensione allo scherzo doveva essere di casa. Lavorando qualche tempo alle Poste di Varapodio, ho conosciuto un fratello del farmacista, Domenico (i Simone provenivano proprio da quel paese), il titolare di una Esattoria, che non era da meno del congiunto. Quando capitava di andare nel suo ufficio si profondeva in effusioni, inchini, offerta di sedia e di quant’altro, ma il tutto restava sempre nell’aria. Era solo una recita. Una volta ch’è capitato all’ufficio postale d’accordo in tre ci siamo sbracciati a imitarlo all’unisono. Lui ha subito capito l’antifona e, tutto sornione, si è messo a ridere sotto i baffi rifiutando ogni esagerata profferta. Era un’azione che si ripeteva a ogni occasione. In verità, non ce la lasciavamo mai sfuggire. Vendetta tremenda vendetta!
[1] Leggo in una delibera di Giunta del 26 novembre 1910 che per la venuta in Oppido degli onorevoli De Nava e Nunziante a motivo dell’istituzione del Comitato per l’istruzione e l’educazione popolare il 16 precedente hanno fornito paste dolci Giuseppe Franconieri e veneziane, biscotti e liquori Rocco Liberti. Al tempo c’era anche un Caffè Lucisano. Nel 1909, come da delibera dell’1 settembre 1909 il titolare Giuseppe Lucisano aveva procurato caffè e rosolio al presidente e ai componenti del seggio elettorale. Nel dopoguerra il caffè Lucisano era allogato in bassi ubicati nella parte bassa della piazza Umberto I, oggi di proprietà Gugliotta. Ne ricordo il titolare, un vecchietto alquanto bassino (ndr).