sabato 18 maggio 2024

“ EBREI DI CALABRIA ” DI VINCENZO VILLELLA: UNA STORIA CHE NON IMMAGINAVI (di Bruno Demasi)

     Fino a cinquant’anni fa, se si escludono alcune monografie e alcuni repertori generali curati da scuole rabbiniche e organizzazioni collaterali sulla presenza ebraica nei paesi d’Europa, gli studi dedicati agli specifici insediamenti antichi in Calabria e, in genere, nel sud della Penisola erano pressochè inesistenti. Pochissime le eccezioni, tra le quali amo ricordare un piccolo saggio di Mons. Giuseppe Pignataro che già negli anni Cinquanta del secolo scorso, precorrendo i tempi, inaugurò per la propria parte gli scavi linguistici e storici sull’ebraismo calabro con una significativa ricerca allora passata quasi inosservata: “Iscrizione ebraica di Oppido” , in Historica,n.12. 1959 .

    Malgrado fossero molti gli indizi e le testimonianze archeologiche, epigrafiche e linguistiche, che peraltro ancora oggi connotano fortemente i nostri dialetti e tutta la cultura e la letteratura calabrese, occorreva giungere all’ultimo ventennio del secolo scorso perché le ricerche sugli Ebrei di Calabria assumessero una dignità propria e si inserissero in un progetto storiografico non episodico e frammentario, ma considerassero la componente ebraica fondamentale per tutta la storia di centinaia di centri della nostra regione. E pian piano sono fioriti decine e decine di eccellenti studi in questa nuova prospettiva. Senza togliere nulla a nessuno, risultano fondamentali sicuramente quelli di Cesare Colafemmina e quelli di Vincenzo Villella, le cui analisi sulla vita ebraica in Calabria sono presto diventate imprescindibili, e non solo per la cultura regionale. 

     Oggi proprio Vincenzo Villella, dopo aver squarciato un mistero durato secoli sulle “Giudecche di Calabria”, pone un’altra pietra miliare sulla conoscenza della vita e dell’attività degli EBREI DI CALABRIA ( Grafichè, 2024) con questo corposo saggio, che a ragione potrebbe considerarsi una summa ragionata di quasi tutte le ricerche fin qui condotte dai vari studiosi. Viene  presentato al grande pubblico da una efficace prefazione di Giulio Disegni e una significativa postfazione di Klaus Davì che non esita ad affermare che : ” la Calabria è stata uno dei centri più notevoli e caratteristici della vita ebraica in Europa, un caposaldo dell’ebraismo mediterraneo e mondiale”.

    EBREI DI CALABRIA  non è solo un manuale per addetti ai lavori, ma è il racconto di una parte commovente della nostra storia rivolto a tutti, uno studio-testimonianza davvero appassionato che in otto avvincenti capitoli offre una visione sotto vari aspetti esaustiva della storia ebraica calabrese, a partire dall’analisi ragionata dalle testimonianze e dalle ricerche elaborate nell’ultimo cinquantennio fino all’approfondimento della vita degli Ebrei di Calabria nel periodo normanno; dalla documentazione dell ”Antigiudaismo canonizzato” dal quarto concilio lateranense fino alla discriminazione e all’accoglienza degli Ebrei sotto il regno di Federico II; da un’analisi particolareggiata e completa del ruolo delle giudecche nell’economia calabrese lungo il periodo angiono e poi in quello aragonese fino alle concessioni di Alfonso il Magnanimo, per arrivare poi allo studio della decadenza e della fine delle giudecche , del “rimpianto per gli Ebrei” e del tragico fenomeno  dei ghetti. Una ricostruzione documentaria meticolosa, una serie di sintesi serrata che si pone come materiale pietra miliare per gli studi che verranno in futuro.
    
    Peraltro l’Autore documenta in modo ineccepibile l’importanza della presenza ebraica in Calabria non solo a livello qualitativo per la vita delle città e dei paesi, ma anche per la forte presenza numerica che nel 1500 in vari centri della Calabria raggiungeva addirittura il 40% della popolazione. E insieme a questo dato del tutto insospettabile l’Autore ne fa emergere vari altri che non bisogna dimenticare, perché si tratta di veri e propri primati: la stampa nel 1475 a Reggio Calabria dei Commentari al Pentateuco di Rashi con caratteri ebraici mobili, usati per la prima volta in Europa a cura del tipografo Abraham Garton; l’analisi dei motivi per i quali la sinagoga di Bova Marina è ritenuta unanimemente la più antica dopo quella di Ostia; la stampa a Cosenza nel 1478 a cura dell’ebreo Salomonio del “Dialogo dell’origine e dell’immortalità dell’anima” di Jacob Canphora, uno dei membri più importanti del circolo neoplatonico di Marsilio Ficino; i manoscritti copiati nel secolo XVI nelle giudecche di Crotone oggi custoditi nella Biblioteque Nationale de France.

   Forse però la storia più importante e commovente che Vincenzo Villella sta facendo riemergere dall’oblìo di secoli riguarda la straordinaria fioritura di arti, mestieri, scuole di pensiero con cui gli Ebrei resero fertile e grande questa regione, imprimendo il timbro della loro operosità dovunque.

     Una storia di cui andare fieri come Calabresi, che sicuramente aprirà ulteriori scenari di studio e di ricerca perchè, come afferma Disegni, «…oltre a proseguire nella valorizzazione e nella ricerca, che non ha mai termine, vi è l’impegno a costruire, attraverso la narrazione della vicenda ebraica, una cultura della legalità con il mondo delle istituzioni e quello ebraico uniti per combattere odio, pregiudizio, razzismo e antisemitismo». 

                                                                                                                                Bruno Demasi

venerdì 10 maggio 2024

“ CALABRIA LA PRIMA ITALIA” E GLI STUDI SCONOSCIUTI DI GERTRUDE SLAUGHTER (di Bruno Demasi)

  
  Nel 1939 vedeva la luce negli U.S.A. un corposo e brillante  studio sulle vicende storiche della Calabria  sicuramente ancora oggi poco conosciuto sebbene rivoluzionario e fortemente innovativo nel taglio storiografico, a partire dal titolo: Calabria the first Italy., CALABRIA, LA PRIMA ITALIA. Autrice Gertrude Slaughter ( 1870- 1963) docente di grande spessore dell’Università del Wisconsin, arrivata in Italia insieme al marito al termine della I guerra mondiale per sostenere il nostro Paese a fianco della Croce Rossa Italiana come volontari dell’American Red Cross. Da quel momento in poi, a varie riprese, la Slaughter tornò in Italia, e più specificamente in Calabria, per i suoi scavi storici, oggetti di acute sintesi che diedero corpo al libro, il cui assunto principale, dimostrato a più riprese con solidissime argomentazioni critiche e documentali, era esplicitamente  indicato dalla stessa autrice  nell‘ Introduzione  dove asseriva che nella Calabria antica si espressero “…forme di pensiero e di cultura di questa “prima Italia” (che) modificarono l’antica Roma e si estesero all’Europa per divenire parte della nostra tradizione. Cambiamenti vitali portarono ad un capovolgimento del destino e la provincia più prospera e colta culturalmente divenne la più povera e la più ignorante. La Calabria è un “fenomeno” della Storia - continua la Slaughter -... Iniziai gradualmente a comprendere che la Calabria fosse uno dei centri più importanti le cui forze hanno reso moderno il nostro mondo e giunsi infine alla conclusione che fosse anche uno dei luoghi meno compresi".

  Il prezioso studio rimase per noi italiani quasi nell’assoluto oblìo fino al 2006, quando Domenico Lanciano, giornalista e scrittore di Badolato(CZ) non ebbe modo di conoscerlo e di apprezzarne entusiasticamente la teoria di fondo e  i principali contenuti, iniziando una vera e propria opera di divulgazione, e non solo a livello regionale, con tutta una serie di importanti e benemerite manifestazioni culturali che lasciarono il segno. C’era stato però qualcuno a cui lo studio della Slaughter non era affatto sfuggito , Arnaldo Momigliano, lo storico torinese autorità indiscussa in materia di storia antica, che però su questo libro scrisse una bruttissima recensione ( sia per i contenuti che per la forma) ripescata e pubblicata on line postuma e in inglese il 24 settembre 2012 dalla Cambridge University Press . In essa lo studioso , pur concludendo che l’Autrice “… ama la severa bellezza della terra calabrese e la vita dei suoi abitanti e che è un peccato dover litigare per un lavoro d'amore…”, non si esime dal salire in cattedra per correggere alcune sviste assolutamente marginali da lui rinvenute nell’opera, del tipo :” In questo libro sono confluiti alcuni lampi dell’humanitas di Umberto Zanotti Bianco – e anche alcune sue fotografie. Ma il suo nome è costantemente scritto erroneamente “Blanco”, e il resto è in linea…” oppure per bollare con un giudizio molto lapidario di inadeguatezza metodologica l’impressionante ricchezza di notizie trattate dalla Slaughter: “Non esiste – scriveva  lo storico - una prospettiva istorica, né una narrazione ordinata: gli oggetti raccolti casualmente sono raggruppati per città. Le otto pagine su Reggio contengono molte meno informazioni del mio elementare articolo sull'Enciclopedia Italiana…”.Peccato! Momigliano per la sua autorevolezza, se fosse stato solo un po’ più equo e sereno , avrebbe potutto arrecare allo studio della Slaughter una preziosa forma di pubblicità per portarlo all’attenzione del grande pubblico e specialmente di noi Calabresi!

  Finalmente oggi disponiamo della prima traduzione italiana completa di quest’opera di Gertrude Slaughter , eseguita con eleganza  da Sara Cervadoro, pubblicata da un coraggioso editore di Tropea, Giuseppe Meligrana con il titolo “Calabria la prima Italia” e forse l’auspicio che almeno tutti i Calabresi possano conoscerla , espresso a varie riprese e con passione  non comune da Domenico Lanciano, sarà relativamente più facile da realizzare. Si tratta infatti di un’opera che non solo ricostruisce scientificamente la nascita del nome Italia, ma esprime le ragioni storiche vere per le quali l’attuale Calabria è stata la madre della civiltà occidentale addirittura prima della Magna Grecia.

    Il libro, malgrado le accuse pretestuose di Momigliano, ha una sua sintassi argomentativa assolutamente lineare e chiara che ruota intorno ad alcune suddivisioni specifiche della grande e complessa  storia calabrese: il periodo greco-romano; il periodo bizantino; il periodo normanno; il periodo angioino-aragonese; il “regime spagnolo”. Come osserva Vincenzo Villella, insuperato studioso dell’ebraismo di Calabria,  “la prima affermazione che la scrittrice fa è di una attualità incredibile: il pensiero e la cultura della Calabria-prima Italia modificarono l’antica Roma e si estesero in Europa per divenire parte della nostra tradizione. Ma poi cambiamenti vitali portarono ad un capovolgimento del destino e la Calabria da più prospera e più colta culturalmente divenne la più povera e la più ignorante… In questo senso la Calabria si è rivelata un fenomeno della storia, uno dei centri le cui forze culturali hanno reso il mondo più moderno, ma anche uno dei luoghi meno compresi…”

    Forse la migliore risposta alle critiche del Momigliano la fornisce ancora Villella quando afferma con sicurezza: “ Il compito che la Slaugther nel corso dei suoi soggiorni in Calabria si propose fu proprio quello di rintracciare la fonte originaria di quelle antiche forze ormai perdute per ricostruirne la storia ancora non scritta. Questo suo interesse per il passato glorioso della Calabria fu costantemente stimolato dall’incontro e dalla conoscenza con la gente nei paesi decimati dalla malaria e nelle visite ai piccoli musei di allora dove erano custoditi i resti antichi dei giorni più gloriosi nella speranza dei loro appassionati curatori di riportare un giorno la cultura calabrese all’originaria dignità del passato… Colpisce il fatto che, per meglio sottolineare l’importanza che la Slaughter attribuisce ai remoti abitanti della Calabria (protagonisti della storia dell’antica Magna Grecia), la scrittrice dimostri una padronanza di documentazioni storiche, filosofiche, letterarie e artistiche che la portano a citare con precisione frasi e versi di scrittori, poeti e filosofi (da Pitagora a Zeusi, da Milone a Ibico, da Campanella a Mattia Preti).”

   Un plauso all’editore Meligrana per questa impresa che restuisce dignità e porta alla conoscenza del grande pubblico, e non solo degli studiosi, un’opera fondamentale. Il messaggio di attualità che dopo più di 80 anni dalla sua pubblicazione negli U.S.A. questo libro trasmette  ai Calabresi è opportunamente riportato in quarta di copertina: “L’odierna Calabria può essere appieno compresa solamente da coloro che sono vicini alla sua terra ed alla sua popolazione. Ma perfino costoro devono avere una lunga visuale di tempo e di spazio. […] Devono comprendere appieno il loro retaggio storico-sociale […], andare oltre i confini di quella ‘frontiera rimasta indietro’ e rintracciarla nelle forze che formano il mondo moderno. […] Troveranno una linea di quella ereditarietà […], scopriranno altre linee convergenti negli scienziati moderni, nei mistici moderni, nei filosofi e molte altre ancora, attraverso cui ‘le forze creative’ dei nostri tempi sconcertanti troveranno espressione. Per il bene e per il male, secondo l’uso che ne faremo, noi condivideremo quel patrimonio ereditario”.
Bruno Demasi

lunedì 6 maggio 2024

ALLA RISCOPERTA DI OPPIDO VECCHIO (di Rocco Liberti)

 UNA STORIA NELLA STORIA

       Ecco un altro ricco excursus di ricordi personali   e di ricostruzione storiografica, che costituirà una pregevole pietra miliare  per tutti: Rocco Liberti vi ricompone  la difficile vicenda della riscoperta di Oppido Vecchio e degli antichi insediamenti confinanti di cui esso è erede  ricordando che solo meno di un secolo fa il complesso di ruderi drammaticamente abbandonati su un bislungo pianoro a S-W del nuovo abitato costituiva appena un luogo della memoria intriso delle sofferenze provocate dal sisma  che un secolo e mezzo prima  aveva distrutto completamente la città medievale. Un abitato che nell’immaginario collettivo era cristallizzato dentro  un alone  di leggenda e di mistero che nessuno riuscì a scalfire , almeno fino a quando le prime ricerche storico-archeologiche modernamente concepite, iniziate  dal canonico Giuseppe Pignataro e dai fratelli De Cristo negli anni Trenta del secolo scorso , non proposero  la quasi sicura origine bruzio-ellenistica dell’antica Mamerto quale progenitrice della città medievale distrutta. E’ tuttavia l’ultimo settantennio che vede una vera fioritura delle ricerche storiche e archeologiche, un arco temporale che per intero vede massimo protagonista proprio Rocco Liberti, che qui rievoca con la medesima passione e con la medesima lucidità di sempre tutto un fervore di studio della civiltà cosmopolita che a varie riprese interessò il territorio della distrutta città. Per quanti si chiedono cosa sia stato fatto in passato e cosa si stia facendo oggi per valorizzare quell’unicum archeologico e culturale, costituito dai resti di Oppido Vecchio e da quelli del suo antichissimo comprensorio, questa pagina è dunque preziosa e da conservare gelosamente. Essa fa rivivere una storia nella storia evidenziando quanto sia stato faticoso portare all’attenzione degli studiosi e del grande pubblico un bene inestimabile  troppo a lungo lasciato a se stesso e  ancora oggi  male  divulgato e non sempre in modo corretto. Ci si augura che questo ennesimo e ricchissimo lavoro del prof. Rocco Liberti, che con eleganza e senza sbilanciamenti torna a gettare luce sul mistero dei complessi e grandiosi resti di almeno quattro  importanti insediamenti ( Mamerto, in epoca bruzio/ellenistica; Oppidum in evo romano ; di nuovo Oppidum/Hagia Agathè in epoca medioevale e, a valle di esso, il suo mellah sorto sul sito abbandonato di età ellenistica ) sia recepito da tutti  non solo come un ulteriore dono al luogo natìo, ma  anche come  premessa di impegno per  gli amministratori di questa città    a valorizzare sul serio le imponenti testimonianze che  sopravvivono all'incuria  di sempre. (Bruno Demasi).
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    La tragica fine dell’antica Oppido crollata all’intutto nel 1783 per un catastrofico vortice sismico che ha del pari coinvolto quasi tutti gli abitati della Piana mi ha sempre affascinato. Se ne parlava talvolta per casa, ma a rinverdirlo di tanto in tanto erano specialmente i parenti Condò che si erano trasferiti nella vicina Taurianova. In ogni occasione non tralasciavano di riferirsi all’apparizione di quel misterioso personaggio che nella notte precedente al disastro nell’oscurità dell’androne di palazzo Grillo aveva così vaticinato: magnum ludum, magnum ludum. Il gran gioco non prevedeva altro che lo sconquasso che l’indomani si sarebbe poi verificato. Quelle parole in una lingua misteriosa riferite da Candido Zerbi, se non mi atterrivano, poco ci mancava. Di tanto in tanto mi capitava di sfogliare le pagine dello stesso Zerbi e del Frascà, che ne riferivano e che mio padre procurava dietro richiesta di uno dei parenti. Non solo, ma andando con i miei in una loro proprietà nomata Petra, faceva d’uopo transitare dall’imbocco della strada che portava direttamente alle antiche rovine. Era per un tratto acciottolato e con mura a secco che degradava improvvisamente quasi sprofondandosi sulla destra in contrada Petti. La strada non esiste più fagocitata dai profittatori di turno. Nel rasentarla non si evitava mai di riferirsi alla distrutta città e ai tanti morti periti nel grave frangente, per cui la tremarella non si rendeva mai del tutto assente.

  Dopo un bel po’ di tempo, divenuti più grandicelli, sul finire degli anni 40 con alcuni amici, Pino Lentini, Mimmo Morizzi, Mimmo Mazzullo, Andrea Muscari e Pasco Musicò, un bel giorno abbiamo deciso di affrontare la grande avventura avviandoci per la misteriosa arteria, che, cammin facendo, appariva tutt’altro che misteriosa. Alla fine della discesa ci siamo imbattuti nel trappeto dei Mittica dove si molivano olive e abbiamo anche incontrato della gente che ci forniva informazioni utili sulla tratta da percorrere. Fattici presso ad altra proprietà degli stessi a Cannamaria, dove in periodo bizantino ci doveva essere il chôrion di Cannavaria, ci siamo imbattuti in un viottolo che degradava su una fiumara di poco corso e costellato di edicole sacre consacrate alla Madonna Annunziata e a San Giuseppe, la prima nota per una canagliata compiuta in epoca fascista. Siamo indi pervenuti a un affaccio da cui si dipartiva una stradetta disagevole e quasi a picco che portava al corso d’acqua. Saltati agevolmente i vari rigagnoli, ci si è presentata altra erta salitella ed ecco una prima notevole avvisaglia, un avanzo di antiporta urbica con a lato una galleria in muratura non molto antica che i nativi additavano sempre come ‘u bucu di’ saracini. 
 
   Si configurava soltanto una condotta di acqua, ma le favole restano sempre favole e per noi era tale come la si indicava e con tutti i misteri che vi aleggiavano. Incoraggiati dal fatto che eravamo ormai sul luogo tanto atteso abbiamo proseguito per una ripidissima salita giungendo alfine alla vistosa porta d’abasso della scomparsa città. Intanto erano arrivate le prime ombre della sera. Penetrati all’interno non abbiamo scorto anima viva e quei resti scomposti sparsi qua e là c’incutevano timore. I più coraggiosi hanno continuato per un po’, ma altri abbiamo deciso di prendere sollecitamente la via del ritorno aiutati anche dalla discesa. Ci ha raggiunti don Andrea Carrano che veniva da un suo fondo con qualche bambino e un cane e, rinfrancati, ci siamo accodati. Sono trascorsi vari anni prima di ritornare sugli antichi luoghi.

   Era il 13 settembre del 1954 quando finalmente abbiamo calcato il suolo tanto ambito. Arrivato in diocesi un altro vescovo, mons. Maurizio Raspini, uomo del Nord, che, al contrario di mons. Canino, figura piuttosto ieratica, pur se in età avanzata era svelto nel passo, si è proceduto al grande balzo con lui in avanti. N’è stato ideatore lo studioso mons. Giuseppe Pignataro, che alla storia del località aveva consacrato tanto il suo tempo libero. Rammento benissimo quella giornata solatìa e la pletora di paesani, uomini e donne, che sciamavano in massa allegri e curiosi tra le balze che conducevano all’appuntamento prefisso.   Per tantissimi più che di riscoperta si trattava di una vera scoperta. È stata veramente una felice opportunità di gaudio e d’interesse culminata nella Messa celebrata dall’Ordinario. Se non ricordo sufficientemente, Pignataro avrà officiato qualcosa di tipo storico.
    In quella circostanza Melo Romeo tra gli sterpi ha rinvenuto un teschio umano col quale si è fatto fotografare. L’ammirazione univoca era comunque riservata ai vistosi ruderi del castello, sui quali ci siamo arrampicati. Nuovamente buio anche se sporadicamente non abbiamo mancato di fare delle sortite. Trascorsa una lunga pezza i proprietari degli uliveti, che trasportavano il frutto raccolto nei loro fondi con l’asino, una volta in auge il mezzo a motore, hanno iniziato a costruire con un solido aiuto del Comune una strada rotabile dalla parte di sopra.Purtroppo, è stato eliminato il caratteristico percorso a chiocciola che verteva sul fiume e alla Petra c’è scappato anche il morto. Un povero giovane, Antonio Degiorgio, alla guida di una ruspa ci ha rimesso la pelle soffocato da una collina di sabbia crollatagli addosso. Durante la sistemazione della carreggiata tra i resti del convento degli agostiniani sono emerse le lastre tombali settecentesche della famiglia Zerbi e artistiche colonnine, che sono state consegnate a una certa persona. Informato dell’evento, il can. Pignataro mi ha trascinato nell’abitazione di colui che le deteneva e almeno le lastre ridotte a pezzi sono finite in Municipio. Quando operavo in seno alla civica Amministrazione, nel 1970, ho provveduto io al restauro delle stesse, oggi depositate nel chiuso di Palazzo Grillo, dandone incarico alla ditta Schimizzi. Poco dopo c’è stato il via anche da nord e si è ottenuto un secondo tragitto che a un certo punto si è munito di un ponte in muratura. A sud inizialmente agiva un cavalcavia di foggia militare, ch’è poi è crollato sotto il peso di un camion.

   Dall’antico luogo ho avuto agio, prima che sparisse, di far trasferire con una jeep al Comune il capitello marmoreo con lo stemma cinquecentesco del vescovo Canuto. Non sono stato fortunato con altro manufatto bastantemente pesante, che poco dopo è stato involato e traslocato chissà dove. Adornerà la magione di un nuovo incolto ricco!

   Si alternavano gli anni e saltuariamente una visitina alla storica località si qualificava d’obbligo. Nel 1956, considerato che il giornale “La Tribuna del Mezzogiorno” di Messina, che andava pubblicando servizi sui castelli della Calabria, aveva negletto proprio quello della vetusta Oppido, ho imbastito un pezzo intestandolo “Il castello di Oppidum” e gliel’ho spedito. È uscito pochi giorni appresso. Al primo scarno tentativo di scrivere sul nostro passato ha fatto seguito tutta una serie, che è apparsa in giornali e riviste che si occupavano soprattutto di storia, ma anche in volumi. Nell’estate dell’anno1973, trovandomi in vacanza a Nicotera, ho conosciuto il prof. Achille Solano, direttore di un museo civico archeologico, che passava le ore libere a perlustrare con una squadra di amici i siti più interessanti. Tanto per dire si deve a lui il ritrovamento dell’insediamento rupestre di Zungri che oggi così tanto attira turisti da ogni latitudine.

    Il meno che potessi ideare era d’invitarlo a visitare il sito di Oppido Vecchio. Non se lo ha fatto ripetere e un bel giorno è venuto tra noi. Si è mostrato entusiasta, ma a qualcuno, che pare abbia informato i carabinieri della cosa, non è andato a genio, nonostante ci fosse stato un approccio de visu. La sua paura era che “ci rubassero le informazioni”. Vere balorderìe! In prosieguo nella saletta della POA, sede del Centro Sociale di Educazione Permanente (CSEP), della cui conduzione ero stato deputato dal Ministero della P.I., il prof. Solano dietro mio invito ha svolto un incontro su antichi siti e scavi inerenti.
 
    Liquidato dopo un paio d’anni appena il CSEP, è trascorso del tempo prima che si mirasse ancora alle mitiche rovine. Il destro mi è stato offerto dalla costituzione della Pro-Loco, in seno alla quale mi sono riservato l’impegno di segretario, cioè di colui che doveva avviare e condurre a compimento le eventuali iniziative. Era pacifico che mi rivolgessi ancora all’altopiano delle Melle, culla della progenitrice del mio paese. È stato così che ci siamo ritrovati ivi il 19 agosto del 1981 circondati da un mare di popolazione spintasi anche da paesi abbastanza discosti (Rosarno, Polistena, Nicotera, Mileto, Dinami). Ne ha approfittato pure una famiglia di simpatici tedeschi, ch’era in villeggiatura a Gioia, con la quale abbiamo instaurato amicizia e la domenica successiva ci siamo portati al villaggio montano Trepitò di Molochio. A dirottarla tra noi era stata la collega Carmelita Pugliese Milano.

    In un vero tripudio è stata officiata una S. Messa sulle vestigia della cattedrale dall’arcivescovo di Reggio e amministratore apostolico di Oppido Mons. Aurelio Sorrentino, che, alquanto restìo alla proposta, è stato alfine pienamente soddisfatto. Il relatore, lo studioso cosentino prof. Gustavo Valente, avrebbe dovuto parlare in merito al sisma del 1783 come da un suo volume, ma, preso dal momento solenne e dalla presenza di un numero imponente di persone, ha improvvisato un discorso evocatorio che ha attratto tutti. La distribuzione ai presenti di due opuscoletti appositamente stampati (Il Grande Flagello del 1783 di G. Valente e Il Monastero delle Clarisse in Oppido di Giuseppe Pignataro), la colazione al sacco offerta dal Comune e la visita ai resti dell’antica città hanno fatto il resto. Tante le personalità partecipanti, tra le quali m’è gradito citare il senatore Carmelo Dinaro, il consigliere regionale Piero Battaglia, l’Ispettore Scolastico Marafioti, mons. Antonino Denisi e studiosi dei paesi della Piana e oltre. Ma non basta! La troupe della RAI, col giornalista Michele Gioia, cooptata da Valente dietro mio consiglio, ha ospitato nel TG serale un impeccabile servizio, che ha interessato parecchio. La diffusione in largo raggio ha fruttato la costruzione di una carrozzabile per accedervi comodamente finanziata dalla Regione e, di conseguenza, come obbligatorio atto, un saggio di scavi in quel di Mella, ove avrebbe prosperato l’antica Mamerto, a cura della Sovrintendenza Archeologica della Calabria. Così l’eco della giornata nelle impressioni del rosarnese Antonio Lacquaniti affidate al periodico “Il provinciale” nell’edizione del maggio 1987:

“il percorrere quelle strade che si ripopolavano di suoni e di persone ci fece rivivere un momento lontano tanto indietro nel tempo che tutto si trasformò e l’abitato per magìa si trovò con cavalieri, villani e carri che si muovevano sotto l’incalzare della fantasia e quella morta città ricominciò a vivere nel suo tempo passato. E quel suono antico ci portò lontano. Gustavo Valente, Rocco Liberti e il clero presente e i cittadini cambiarono aspetto e ogni forma si colorò d’antico. E mentre Gustavo Valente ripercorreva la storia dell’antica Oppido e dei tragici eventi del 1783 noi ci allontanammo percorrendo i posti diversi, salendo scale che finivano all’improvviso o passando sotto qualche semivolta di casa, riconquistando il silenzio di una città che aspettava d’essere valorizzata per la storia calabrese. Per chi conosce l’antica Oppido, è ben poca cosa quello che noi diciamo ma è un momento di magìa, come una favola che si vive ad occhi aperti. Salimmo al castello e con nostra meraviglia lo trovammo abitato. … E dalle torri merlate lo sguardo si perse tra quel verde mare di ulivi secolari”.
 
 
La risonanza della manifestazione è stata avvertita in altri luoghi anche distanti e comitive hanno in breve raggiunto il posto. Il primo ad arrivare è stato nientemeno il prof. Andrè Guillou della Sorbona di Parigi, cui si deve il noto “La Theotokos de Hagia Agathè” che si occupa delle pergamene greche dell’antica Oppido. Si trovava a Reggio e, appuratone, vi si è precipitato assieme alla direttrice del Museo Nazionale Ilde Lofaro e di altre quotate persone. Curioso l’episodio. Non avevo avuto sentore di alcunchè quando, oziando in piazza un pomeriggio, mi si avvicina il collega Maisano e mi dice: - Sai niente di persone che con due macchine siglate servizio di stato si sono dirette verso Oppido Vecchio? Ho detto di no e abbiamo subito programmato di soffermarci in evidente posizione davanti alla fontana monumentale dalla quale quelle dovevano necessariamente ripassare al rientro. Non abbiamo penato molto quand’ecco un auto è stata fatta fermare da uno che mi conosceva bene. Era il grecista prof. Franco Mosino. All’impatto facendo lo gnorri sbotto: Ma da dove venite? Risposta: Siamo andati a Oppido Vecchio, ma non l’abbiamo visto. Ribatto: come non l’avete visto? Risposta: Dopo tanto girovagare siamo finiti su un ammasso di sabbia, da cui liberatici con vari sforzi abbiamo deciso di ritornarcene sui nostri passi. A noi non fa una grinza, possiamo ritornarci un’altra volta, ma dispiace soprattutto per Guillou. Quando avrà un’altra occasione simile!
 
 
Il can. Pignataro non era edotto a pieno della situazione e ve li aveva condotti dalla strada di sotto sulla quale si effettuavano dei grossi lavori che impedivano il transito fino alla destinazione cercata. Siamo andati al bar Sella e alla mia offerta di accompagnarveli l’indomani hanno risposto che il professore sarebbe dovuto partire. Nell’immediatezza allora così mi sono espresso: Volete vedere Oppido Vecchio? Ritornate indietro con me che vi farò da guida sicura. L’accettazione è stata immediata. Il canonico si è fermato a Oppido, io mi sono seduto accanto all’autista della prima macchina e subito via per il cammino di sopra che si è presentato tutto transitabile. Quando siamo giunti sul luogo già annottava, per cui gli ospiti hanno potuto osservare gli antichi resti alla luce dei fari delle auto e da dentro le stesse. La vista per gli ospiti deve essere stata folgorante se decidevano di ritornarvi il giorno seguente. Quanti l’indomani sono arrivati ve li ho con piacere riaccompagnati e hanno goduto della splendida giornata di sole. In alternanza alla comitiva con a capo il Guillou vi si sono portati gli associati dell’Istituto Calabrese dei Castelli col presidente principe Rino Fasanella e altri gruppi.
   
     E intanto si è fatto il 5 febbraio 1983 e la data del bicentenario del distruttivo avvenimento non poteva passare inosservata. Data la contingenza invernale si è pensato a una cerimonia in paese rimandando all’estate quella di rito. Dopo la Messa in cattedrale solennizzata nelle ore antimeridiane dal vescovo Mons. Benigno Luigi Papa in suffragio dei cittadini periti tra le macerie, è seguita nelle ore pomeridiane nell’auditorium delle Scuole Elementari una conferenza tenuta dall’Architetto reggino Renato Giuseppe Laganà con titolo “Oppido e il terremoto del 1783”. Prima e dopo il Coro Polifonico “Maria SS. Annunziata” diretto dal Maestro D. Vincenzo Tropeano ha eseguito alcuni canti del suo repertorio. Il raduno sull’antico sito si è poi svolto regolarmente il 18 agosto successivo ed è stato della partita ancora lo stesso vescovo Papa, la cui Messa è stata accompagnata dal coro polifonico detto. Il dott. Domenico Coppola direttore dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria ha letto una sua relazione. In mattinata in antecedenza alla partenza per Oppido Vecchio il sindaco avv. Giuseppe Mittica aveva scoperto una lapide sul muro dell’ex-palazzo di Città in piazza Umberto I. Dal 16 al 22 agosto nel Salone dell’Episcopio le persone hanno potuto peraltro ammirare una mostra rievocativa approntata dal dott. Francesco Arillotta e dal già direttore della Biblioteca Civica di Reggio dott. Luigi Lucritano. Anche stavolta la Rai si è resa presente e la trasmissione è stata curata da Mimmo Nunnari, che in ripetute occasioni si spingerà ancora a Oppido.

    Da quella fase è stato tutto un susseguirsi di visite e di scavi sia sul luogo dell’antica Mamerto che su quello della vecchia Oppido. Alla prima hanno dedicato la loro attenzione dirigenti e ispettori della Sovrintendenza Archivistica, in particolare la dott. Liliana Costamagna, che ha diretto degli interventi mirati nel 1984 e 1986. Dalle varie operazioni è emerso buon tratto dell’agglomerato di una vetusta città avvolta nel mistero e della quale, oltre qualche cenno, non era stato ancora rilevato gran che. A un certo punto è stato l’ora dell’italo-americano Prof. Paolo Visonà. Visonà, che aveva intrapreso uno studio sulle monete annibaliche, ha chiesto notizie su possibili località inerenti alla Sovrintendente dott. Elena Lattanzi. Questa ha colto la palla al balzo e lo ha invitato invece ad occuparsi dei recenti sondaggi in zona di Oppido. Dopo una sortita sul luogo in mia compagnia, del Geom. del Comune Francesco Scattarreggia, dell’Ing. Andrea Menghi autore del progetto della nuova arteria (in precedenza io e il sindaco Mittica, che ha sempre sposato ogni suggerimento, avevamo perorato a Cosenza dal Soprintendente alle Belle Arti il rilascio di un attestato sull’esistenza degli resti, ch’è stato materializzato dopo l’invio di funzionari appositi) e della Costamagna, ha accettato di buon grado e sin dal 1987, con un équipe di studenti variata negli anni portatasi dietro dagli Stati Uniti, ha ridato vita a buona parte dell’abitato scomparso nel sottosuolo.
 
      A lui si deve anche l’identificazione del sito di Monte Palazzo, avamposto di transito per le terre dello Jonio. Si è verificato in successione qualche altro intervento, ma il tutto si è andato sempre più arenando anche se sporadicamente ravvivato da visitatori provenienti dai centri della Piana. Oggi si vede ben poco in quanto in gran parte è ormai ricoperto. Gli scavi sono stati messi in luce da una stupenda voluminosa pubblicazione allestita da Visonà e dalla Costamagna e della quale si è relazionato nel salone della scuola elementare il 23 giugno del 2000 dal prof. Salvatore Settis della Normale di Pisa, “Oppido Mamertina-Ricerche archeologiche nel territorio e in contrada Mella”, quindi da altra per le edizioni Rubbettino nel 2009, “Il territorio di Oppido Mamertina dall’antichità all’età contemporanea” di Rossella Agostino, Ispettrice della Sovrintendenza, terzo volume di Sila Silva ho drumès …hòn Sìlan kaloûsin Conoscenza e recupero nel Parco Nazionale d’Aspromonte a cura della stessa Agostino e di M. Maddalena Sica ricco di splendide illustrazioni. Nel 1996 è toccato al professore dell’Unical Maurizio Paoletti effettuare degli scavi ancora a Mella e al Prof. Massimo Frasca a Castellace.

   Nel 1996 medesimo in contemporanea è stato il turno della vecchia Oppido con una campagna di scavi esperita sui resti della cattedrale dal Prof. Giuseppe Roma dell’Unical e da Adele Coscarella, Antonio Lamarca ecc. I frutti sono stati proficui specialmente per l’individuazione dell’entrata nell’antico tempio e sono descritti minutamente in “Archeologia postmedievale” nel nr. 2 del 1998. Nel 2008 si è dato il via a una serie di indagini sia nello stesso sito, che in quelli del convento delle Clarisse e di S. Francesco di Paola da un’equipe con a capo il prof. Francesco Cuteri. Se dall’ultimo, tra l’altro, sono venuti fuori dei materiali in pietra con l’indicazione dell’avvento della peste nel 1577, nel primo è riapparso tutto il tracciato con i resti di tre altari e la scala che immetteva dentro. Non solo, ma al di fuori è stata messa in evidenza parte dell’antico selciato che collegava le due porte urbiche. Mah! Sia il Comune che la Sovrintendenza archeologica allora non hanno compiuto un’azione davvero encomiabile. Lasciando a lungo nel sito i due lastroni l’Ente Locale ha permesso che qualche stupido provvedesse a frantumarli in mille pezzi. Meno male che ne avevo tratte delle immagini fotografiche. È meglio di niente! In occasione di una visita guidata della Sezione di Italia Nostra, tutto giulivo, mi ero fatto un dovere di offerire la novità, quando sono rimasto con un palmo di naso. Era stato tutto sbriciolato a mezzo di pala meccanica. 
 
   Ho tempestivamente avvisato della cosa e condotto sul posto il sindaco Giannetta, ma che poteva fare ormai! Nell’altro caso, informato da Cuteri che quanto previsto per la copertura del convento dei minimi sarebbe stato dirottato a coprire detta strada, mi sono fatto un dovere di contattare sindaco e consiglieri vari nonché qualcuno della Sovrintendenza, ma tutti, facendo bando alle mie proteste, hanno ribattuto picche adducendo scuse barbine. Il pietrame è ancora lì che copre molto solidamente quanto d’interessante avrebbe potuto offrire alle rare persone che talvolta si avvicendano. Cuteri del suo operato ha lasciato una stimolante relazione, ch’è stata pubblicata nell’annata 2008 dell’Archeologia Medievale. Il Prof. Roma c’intratterrà ancora in merito al suo lavoro in un convegno che in una giornata fredda e nevosa del 2013 per iniziativa dell’Associazione Mesogaia, che ha inteso ricordare il 230° anniversario del disastroso accadimento, si è realizzato a Oppido al Seminario Vescovile come pure il prof. Cuteri e altri cultori di rilievo.

   Nel 1989 aveva visto la luce per “Il Provinciale” l’opuscolo Mella è Mamerto? Cronaca di uno scavo archeologico, nel quale, preceduti da un mio capillare resoconto di quanto avvenuto, si snodano gli articoli pubblicati via via dal giornalista Umberto Di Stilo, sempre di vedetta in ogni occasione, che trattano di tutto l’iter di ritrovamenti e manifestazioni pubbliche dal 1987 al 1989. Così l’avv. Mittica nel finale della presentazione: “Eleviamo l’auspicio che attraverso il provvido strumento della Legge 64/1986 le future campagne di scavo possano proseguire confortate da ampiezza di mezzi finanziari e non più col respiro affannoso per far sì che possa essere esposto nella sua compiutezza allo studio e all’ammirazione degli studiosi e dell’opinione pubblica un patrimonio storico di rilevante valore che il genio dell’uomo tramandò in retaggio delle nostre contrade ridenti di verde e dalle zolle ubertose”.
 
 
Altra bella testimonianza contornata d’immagini d’arte tra gli avanzi dell’antica Oppido è quella officiata dallo scrittore antropologo Vito Teti, che in una bella giornata estiva ho accompagnato unitamente al giornalista Sharo Gambino e ad altra persona. Detta è compresa in una pregevole voluminosa opera data alla luce nel 2004. Teti, che ritornerà sul sito in ulteriori occasioni, così ha scritto, tra l’altro: “I ruderi della vecchia Oppido, città medievale già segnalata nell’XI secolo, i resti ancora imponenti del castello di fattura angioino-aragonese sono accompagnati nel loro sonno da grandi ulivi dal fusto esile e slanciato. Quegli alberi maestosi che circondavano il territorio della vecchia Oppido e che destavano l’ammirazione dei viaggiatori hanno esteso il loro dominio tra le rovine. Mi accompagnano, in questa mia prima visita tra i ruderi, l’amico Sharo Gambino e Rocco Liberti, anch’egli caro amico, attento e appassionato studioso dei luoghi, interprete e ascoltatore di una specie di genius loci in una zona dove popolamenti, abbandoni, spostamenti di siti si susseguono fin dall’antichità”. 
   
    In occasione della manifestazione dell’agosto 1983 era stato allestito un opuscolo di Atti e Memorie contenenti il messaggio del vescovo Mons. Papa, gli interventi del sindaco e del sottoscritto e di altre autorità, la relazione dell’Architetto Laganà e l’elenco completo dei morti in occasione del sisma dei cittadini di Tresilico, 213. La pubblicazione è stata arricchita di immagini inerenti.

    E ora? Da tante lune ormai tutto tace e la luce è sempre lontana. Oppido non è più quel tempo e quell’età. La popolazione si è assai ridotta e le proposte culturali conseguentemente latitano. Mancano le associazioni e coloro che dovrebbero fare da propulsori. Non è bene però mai disperare. Auguriamoci che le cose cambino e in meglio. Ad officiare in largo raggio quanto rimane di un passato, in cui i fasti e nefasti, hanno avvolto la memoria di una fiorente città, si evidenziano di tanto in tanto oggi almeno filmati e foto che persone per amore di conoscenza offrono all’attenzione di quanti si dilettano a guardare sul web.
Rocco Liberti