sabato 23 novembre 2024

LA NASCITA DEL “SERVIZIO” POSTALE NELLA PIANA DI GIOIA TAURO ( di Rocco Liberti)

            L’istituzione a Oppido Mamertina e frazioni


     Sicuramente poche istituzioni civili ebbero un effetto dirompente e benefico sulla società e sulla crescita dei paesi aspromontani come l’istituzione e il progressivo consolidamento del servizio postale: non solo veicolo di comunicazione in sé , ma nel nostro caso un vero e proprio ponte con i paesi lontani, anche extraeuropei, nei quali già a partire dalla fine dell’800 si dirigeva la grande e dolorosa emigrazione calabrese. Il quadro che ne traccia Rocco Liberti in questa ricchissima pagina è molto eloquente: le poste italiane già nel momento della loro difficoltosa istituzione a livello locale nascevano come “servizio” sociale, non con quella connotazione di impresa commerciale che poi col tempo, e specialmente oggi, hanno assunto. Un servizio di grande portata perché reso a un contesto umano e sociale il più delle volte povero, oppresso da mille mali e da mille carenze strutturali, non ultima la mancanza di una rete viaria che fu faticosamente creata e migliorata col tempo e col sacrificio di tutti, mentre oggi in gran parte appare abbandonata a se stessa forse anche perché la comunicazione virtuale in prevalenza ha soppiantato quella cartacea.
   Un’altra pagina che ci  deve a lungo far riflettere sul nostro stato sociale e culturale di oggi in rapporto a quello di ieri, di cui dobbiamo ancora una volta ringraziare la penna e la memoria di Rocco Liberti.
(Bruno Dermasi)

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     Risulta alquanto evidente che il termine posta nel tempo antico stava a significare il posto dove si assicurava il giusto riposo agli uomini che recavano messaggi da un capo all’altro nonché alle bestie trainanti carrozze e similari mezzi di locomozione in riferimento e dove peraltro ne avveniva lo scambio. A tutto sopraintendevano i cosiddetti mastri di posta, delle persone che esercitavano parimenti il lavoro di osti. In buona sostanza, la stazione di posta, com’era chiamata, era in funzione presso una locanda vera e propria situata in un punto nodale, ma il luogo che accoglieva quei viandanti si rivelava sempre affatto confortevole: una vera e propria stalla con paglia, fieno e un misero giaciglio.

     Sin dai primordi il servizio postale si qualificava del tutto privato e ad usufruirne si stagliavano in primo piano individui o enti danarosi, i quali potevano pagare, come i mercanti, i nobili, le università e le banche e la storia ci riporta addirittura al mondo romano, quando n’erano incaricati i cursores. Dal ‘600 in poi, aumentando l’interesse, è divenuto un monopolio statale, che poteva essere affidato anche a delle famiglie. Molto nota a riguardo la Tasso, a un ramo della quale è appartenuto il poeta Torquato, che nel Centro Europa n’è stata a lungo detentrice. A quel tempo, precisamente nel 1639, si data la nascita di un vero ufficio postale a Boston negli USA. In successione il servizio postale è stato variamente disciplinato, avendo d’altronde seguito di pari passo l’evolversi degli Stati, cui era soggetto[1].

    L’affidamento in affitto del servizio di posta a famiglie private si verificava anche in Calabria. Da un atto notarile rileviamo che nel 1794 la Tenenza di Posta di Drosi nella Piana di Gioia era appannaggio della famiglia di d. Antonio Montalto per un periodo di sei anni dietro esborso di 110 ducati, così come avvenuto entro il sessennio[2]. Drosi era sicuramente un punto d’incrocio sul percorso della via consolare Popilia. All’epoca sovrintendeva a Napoli nel settore d. Matteo Franco, con titolo di ispettore generale delle regie poste[3]. Altra “posta” si trovava nel 1780 anche a Seminara così come pure ancora a Drosi[4]. In periodo borbonico era dato rilevare nella Piana delle officine postali. Nel 1819, nell’anno dell’emissione di un apposito regolamento voluto da re Ferdinando I, ne risultavano a Palmi, Seminara e Rosarno. Col 1857 si aggiungerà Gioia Tauro. Sinopoli arriverà invece nel 1861 all’inizio del nuovo evo.

    In merito alla situazione postale nell’abolito regno sul finire della dominazione borbonica come pure nel resto dell’Italia siamo debitori a Stefano Jacini, il politico ed economista noto per una nota inchiesta e ministro dei lavori pubblici tra 1860 e 1867:

    «Nel 1859, le provincie dell’Italia centrale e superiore possedevano 1256 uffizi postali, ed invece in tutto il regno delle Due Sicilie questi uffizi sommavano a 376 soltanto; nelle provincie subalpine, nelle lombarde e nelle toscane mercè il sussidio delle vie ferrate, lo scambio delle corrispondenze si faceva più volte al giorno, fra tutti i paesi posti lungo le linee ferroviarie, a Napoli il servizio dei sette corrieri che dalla capitale andavano alle provincie, percorrendo le strade cosiddette consolari, aveva luogo soltanto tre volte la settimana»
[5].

    A tal proposito bisogna aggiungere che in tutti i treni c’era sempre un vagone postale che fungeva da ufficio ambulante, con terminologìa perdurata fino ai nostri giorni e, comunque prima ch’entrassero in attività i centri di raccolta automatica. Le stazioni ferroviarie hanno così ereditato il nome delle antiche stazioni di posta.

    Una relazione sulla condizione del servizio postale in Italia e, di concerto, anche nelle terre ch’erano appartenute al regno di Napoli, ci si rende nota per il 1863, dopo che nell’anno decorso era intervenuta un’apposita riforma. Così si faceva presente:

    «Sinora non si potè bene ordinare questo servizio che per 1.422 comuni rurali, coll’opera di 1.202 portalettere. Per le province napoletane e per la Sicilia questo servizio è ancora incompleto, e si stanno studiando i mezzi abbastanza celeri di trasporto»[6].
   
     Proprio in quel 1863 il ministero dei lavori pubblici autorizzava l’apertura di una officina postale anche a Oppido. Ne veniva ad informare il comune il sottoprefetto di Palmi con lettera del 25 aprile. La realtà non si presentava però delle più rosee e in data 26 maggio 1865 si dichiarava non potersi provvedere perché non vi erano state inserite somme all’uopo in bilancio, per cui era giocoforza servirsi delle officine di Palme o di Radicena. Tuttavia, si stabiliva di inoltrare istanza presso la direzione compartimentale al fine di provvedersi speditamente. Il problema si sarà presto risolto se il 23 luglio susseguente il comune nominava un ufficiale postale in persona di Giuseppe Princi con lo stipendio di £ 350 addossandosi anche il carico per il trasporto della corrispondenza. Intanto, in data 3 luglio dell’anno precedente, motivo la destituzione del pedone postale Domenico Cotugno, ci si lamentava di non poter procedere alla sua surroga. N’era causa il rifiuto dei pedoni del paese a impegnarsi in un tal servizio.

    Dopo queste prime notizie dobbiamo scorrere i registri comunali fin quasi alla fine del secolo prima che ne sortiscano di altre. L’8 marzo 1893 l’ispettore centrale delle poste e telegrafi, cav. Dalmati, informava il comune del furto avvenuto nel locale dell’ufficio postale nella notte tra il 4 e il 5, per cui chiedeva l’avvio di lavori utili a prevenire altri eventi del genere. Il 31 maggio 1893 si esaminava la richiesta del titolare postale e telegrafico Giuseppe Chiliberti perché l’ufficio da lui diretto fosse collocato nei bassi della sua abitazione in via Annunziata con pigione a carico del comune. Una tale sistemazione, che avveniva nella casa poi di proprietà della famiglia Zinghinì, ha avuto poca durata perché col 1896 si è provveduto altrimenti. Il Chiliberti, avanti negli anni, è pervenuto a sposare una sua impiegata oriunda di Bagnara, Giordano Giuseppina, che gli è succeduta e ha diretto l’ufficio fino agli anni ’60 del passato secolo. Dopo un periodo, in cui ha tenuto l’ufficio in qualità di reggente, nel febbraio del 1928 n’è stata nominata titolare.

    Dopo aver peregrinato per diversi locali privati, vedi Mittica (via Marconi, ove è rimasto a lungo), Cannatà (Corso Luigi Razza), Frisina (Corso Vittorio Emanuele II), lo Stato, con il solerte impegno del sindaco avv. Giuseppe Mittica, ha provveduto alla costruzione di un apposito edificio per le Posta all’angolo tra le vie Cavour e Mazzini. N’è stata costruttrice la ditta Surace della stessa Oppido e l’inaugurazione è avvenuta nel 1962 alla presenza dell’allora sottosegretario on. Dario Antoniozzi. Nel locale Mittica ha funzionato a lungo anche il servizio telefonico, dopo lo spostamento dato a un privato, Natale, che ha operato a lungo sullo stesso Corso Razza.

  L’8 febbraio 1895 Lando Gaetano perorava l’istituzione di una colletteria postale a Messignadi, paesino che vantava 1300 abitanti, per cui si faceva viva istanza al ministero delle poste e telegrafi. Il pedone, ch’era nominato dal comune di partenza, aveva l’incombenza della raccolta della corrispondenza nei paesi sedi di colletteria. Quest’ultima, ch’era collegata a un ufficio postale, era sede di raccolta della corrispondenza nei piccoli comuni agricoli.

     Il 29 marzo 1906 veniva a sua volta a proporsi, ma invano, l’istituzione di una colletteria a Piminoro, un servizio, si diceva, «reso ormai importantissimo, per la emigrazione in vasta scala, verificatasi in questi ultimi anni». Il 28 luglio del 1908, accusando le regie poste «del modo assolutamente deplorevole», con cui era condotto l’iter, si avvisava che il fattorino Salvatore Albano, pagato dal comune con £ 240 annue, aveva espresso di non potercela più fare a recare la corrispondenza in tanti paesi e che per la fine del mese avrebbe cessato senzaltro dal carico di portare pacchi e corrispondenza a Piminoro. Non era possibile svolgere un lavoro che lo conduceva contemporaneamente a Oppido, Piminoro e Zurgonadio. Se l’ufficio di Oppido distava da Zurgonadio solo un chilometro, Piminoro n’era lontano ben 7 di chilometri, che si svolgevano su una strada «pessima». All’amministrazione comunale perciò non restava che reiterare la richiesta oppure provvedere all’aumento del soldo per il fattorino. Queste le dure premesse al provvedimento: «i cittadini in Piminoro hanno pur essi il diritto sacrosanto, al pari di tutti gli altri cittadini del Regno, di avere il sollecito ricapito della loro corrispondenza, e che lo Stato ha il dovere di trattarli al pari dei cittadini dimoranti in Castellace ed in Messignadi, ove è stato impiantato un ufficio e una colletteria postale, ed ora non si sa comprendere la ragione di tale abbandono».

    A lungo hanno operato nelle diverse Frazioni degli uffici postali che hanno consentito agli abitanti di usufruirne senza doversi spostare dal luogo di residenza, ma procedendo in avanti ogni cosa è mutata. Piano piano ogni agenzia o collettoria che fosse è stata eliminata e ognuno ha dovuto cercare di adattarsi. Se per l’addietro notavi folle di persone in sosta agli uffici del centro, nel prosieguo, date le possibilità offerte a distanza da nuovi enti, ogni cosa è rientrata in un normale alveo. Un particolare di rilievo. A Oppido hanno svolto il loro impegno a lungo due uffici postali con il secondo ubicato a Tresilico, Comune autonomo fino al 1927. Unendo le due Comunità, a Tresilico l’ufficio è rimasto attivo ugualmente fino a pochissimo tempo fa.

Rocco Liberti

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[1] La storia della Posta e del francobollo, www.poste italiane.it.
[2] Oggi il servizio della distribuzione della posta nel nostro territorio è concentrato in un apposito ufficio a Rizziconi, nel cui comune rientra Drosi. Che non sia un retaggio dell’antica Tenenza?
[3] ROCCO LIBERTI, Rizziconi e Drosi, “Quaderni Mamertini” n. 27, Litografia Diaco, Bovalino 2002, p. 29.
[4] BRUNO FERRUCCI, La storia della posta in Calabria, “Calabria Turismo”, IX-1976, n. 30, pp. 41-46.
[5] STEFANO JACINI, L’amministrazione dei lavori pubblici in Italia dal 1860 al 1867, Ministero dei lavori pubblici, E. Botta, Firenze 1867, VII, pp. 14-15.
[6] Annali universali di statistica, economia pubblica, legislazione, storia, viaggi e commercio compilati da Giuseppe Sacchi e da varj economisti italiani; volume CLVIII della Serie Prima, volume decimottavo della Serie Quarta, Apile (sic! Aprile), Maggio e Giugno 1864, Milano, Presso la Società per la pubblicazione degli annali universali delle scienze e dell’industria, 1864, Prima relazione, p. 294.

martedì 19 novembre 2024

I PIRCHI (di Bruno Demasi)


   I Pirchi prima di spendere un solo centesimo si dovevano riunire tutti nel basso di sera tardi, discutere a lungo e capire se la spesa era indispensabile e giusta. Solo per comprare una lumèra nel ‘41 si riunirono per tre serate di seguito con tante discussioni e sciarre e alla fine con regolare votazione si decise di non comprarla perché era cara.

 Il capostipite dei Pirchi, che di cognome facevano Trupìa, era conosciuto da tutti come Filippo il Pirchio perchè era tanto avaro che si faceva sparare per non cacciare di sacchetta un solo soldo. Sapeva fare lo scarparo, il barbiere e sapeva tirare pure i denti, ma pochissimi avevano i soldi per pagarlo e subito appresso il terremoto del 1908, che aveva quasi distrutto la sua casupola, dove la madre era morta un mese prima, aspettò fino a quando il comune gli assegnò la sua baracca che gli toccò vicino al Piliere, vi trasportò tutto quello che era riuscito a salvare, la chiuse, inchiodò per bene la porta e le due finestre e a ventiinove anni fatti partì per Novaiorca con una piccola somma 'ngruppata bene in un muccaturi, ma senza biglietto per il piroscafo.

     Impiegò tre simanate per arrivare fino al porto di Napoli e per tre giorni e tre notti aspettò la partenza della nave ammuccciato in mezzo alle corde, alle casce e ai baulli dei viaggiatori.: due ore prima della partenza indossò la tuta di macchinista che si era procurato in cambio di due sicarri, si passò una mistura di pece e nerofumo sulla faccia per non farsi conoscere da nessuno, salì sul piroscafo andando direttamente nella sala macchine e cominciò immediatamente a gettare palate di carbone dentro la grande bocca di una fornace che non era mai gurda. Nessuno gli domandò mai niente per tutto il viaggio: faticava come un mulo e rendeva per tre senza mai dire mezza parola, manco quando gli portavano quello che c’era da mangiare. Allo sbarco restò nella stiva per un giorno e una notte e poi uscì solitario portando sulle spalle un pesante pezzo di motore che aveva trovato in un angolo della sala macchine facendo finta di portarlo all’officina del porto: nessuno lo fermò e uscì dal recinto libero come l’aria. Si impiegò subito in una miniera della Pennsylvania lavorando come un mulo. Nel 1914 decise che era ora di tornare a Oppido nella sua baracca, ma sentì dai banditori dei giornali che era scoppiata la guerra in Europa e che molti Italiani avevano il fuoco al culo perché volevano intervenire anche loro. Tornò in miniera e continuò a lavorare fino al 1918. Appena appurò che la guerra era finita, decise di andarsi a comprare al mercato della roba vecchia un’altra tuta da macchinista per il rientro in Italia sul primo piroscafo disponibile.

     Quando rientrò in paese, si accorse che durante la sua assenza la baracca era stata aperta: i cornuti erano entrati da una finestra darreto. Pure il materasso si erano portato; erano rimastì soltanto qualche pignata nigara, la vecchia buffetta zoppa e due trispita arruggiati del letto. Trovò un posto sicuro per ammucciare tutti i dollari che aveva portato e cominciò a guardarsi in giro per trovarsi una moglie e, quando con una scusa, quando con un’altra, era sempre alla fontana grande per guardare le donne che lavavano la biancheria: c’erano tante belle femmine da marito, ma una sola sapeva sparagnare con delicatezza il sapone, mentre tutte le altre più ne avevano più ne consumavano a morimamma. Si trattava della figlia del vaccaro Tornisi che era orfanazza di madre e di nome faceva Marastella. E stella era: bianca e rossa nella faccia come la Madonna delle Grazie. Mandò subito a casa del vaccaro il sensale al quale faceva la barba e dopo due-tre simanate, fatte passare per l’occhio della gente, il vaccaro gli mandò a dire con lo stesso sensale che Marastella lo voleva. Lo zzitaggio era oramai ufficiale , anche se Filippo era  più grande di età della donna, e ogni domenica sera era ricevuto a casa della promessa sposa. Durante quelle serate gli occhi del Pirchio andavano avanti e arreto come il nimolo del tilaro per scoprire tutti i comportamenti di Marastella, che per la verità si dimostrava sempre in ogni cosa che faceva assai sparagnatrice, pure sull’acqua e sul sale. Mancava però la prova del nove e una sera, appena Marastella gli domandò se voleva un ovo fritto, il Pirchio disse immediatamente di si, poi si alzò con la scusa di aiutarla ad accendere la fornacetta e si accorse che la ragazza usava solo mezza della mezza fascina e non una fascina intera, inoltre teneva la padella inclinata sul fuoco con una sola cucchiaiata di olio per cuocere l’uovo senza nessuno spreco. A quella vista il cuore del Pirchio si squagliò e si mise a piangere di felicità. E quella sera stessa disse che il matrimonio si doveva fare al più presto possibile. 
    Per la mangiata nuziale Tornisi voleva scannare una vitella, ma Marastella e Filippo furono irremovibili:

- Si mangiano solo maccheroni di casa con una bella grattata di caso – dissero - e poi ancora caso e pane di casa per tutti!

     Per due simanate Marastella filò fino a tarda notte i maccheroni con l’aiuto di Filippo acciocchè il pranzo per i cinquanta invitati di famiglia fosse come si deve, mentre Tornisi badava a curare le pezzotte di formaggio vaccino che erano necessarie per la scialata. Per completare il mobilio nella baracca il Pirchio intanto si fece fare dal forgiaro un altro paio di trispita e dal falegname due colonnette e un casciabanco per la biancheria, sdebitandosi con la tiratina di una mola e dieci barbe a ciascuno dei due. Un’altra mola perciata poi fu tirata al prete che celebrò il matrimonio.

     La baracca bastò e restò fino a quando arrivarono i primi due figli, uno mascolo e l’altra femmina, ma quando arrivò la terza già erano stretti e la mammina disse incazzata al Pirchio:

- Per la prima figliata mi hai pagato con un paro di scarpe della sechinenza, che appena pigliarono acqua andarono all’aceto, e va bene! Per la seconda figliata mi hai cacciato due denti che ancora potevano stare! E va bene pure! Ma per la terza figliata mi devi pagare!

     Il Pirchio fece finta di non sentire per un ferriamento di testa e cadde pèzzolo in mezzo alla strada, ma quando arrivò il quarto figlio nel 1925 la mammina parlò chiaro e si spartì i patti avanti:

- Stavolta, se non mi pagate, mi dispiace , ma Marastella si può sgravare da sola!

     In sei ora erano strettissimi nella baracca , ma Marastella sapeva quello che faceva e l’ordine assoluto regnava in quella casa. Filippo intanto aveva preso in affitto per i suoi tre lavori un basso dalle parti della chiesa del Buon Consiglio, liberando un poco di spazio nella baracca, ma i suoi occhi erano tutti per il palazzo mezzo sdarrupato dei Liccardi dalle parti della Chiesa Vecchia, che era disabitato da quella terribile mattinata del dicembre 1908 quando la terra si era messa a ballare la tarantella: il tetto era ancora spantumato, l’acqua e il vento entravano da tutti i pertusi , l’erba era cresciuta davanti alle porte e nessuno sapeva che fine avessero fatto i proprietari. Nel 1927 però, quando comparve in paese uno dei Liccardi e cominciò a dare di lingua per vendere il palazzo, il Pirchio si mise a tremare pensando che qualcuno lo poteva comprare , ma in paese a tutti mancavano ventinove soldi per un lira e nessuno poteva comprare. Fu così che a jenaro del 1928, quando ancora i dollari mericani avevano il loro grande valore, Filippo si fece avanti contrattando con quella moneta e il palazzo spantumato fu subito suo. Si affacciava sulla strada grande con due bassi e due cammare di sopra, mentre sulla strada stretta si allungava per quattro volte tanto. E, siccome i bassi erano all’asciutto, in quelli che si aprivano sulla strada grande Filippo piazzò all’ angolo il suo studio di dentista che era pure bottega di scarparo e di barbiere, mentre nell’altro basso pensò di aprire a Marastella un commercio minuto di pezzotte di caso vaccino frisco e stagionato, ricotte salate e musuluchi che Tornisi produceva in grande quantità.

    All’arrivo del mese  di maio furono chiamati due mastri d’ascia e due operai per spantumare dove era necessario il tetto di ciaramide, che il terremoto aveva spaccato come una cortara vecchia , e i muri pericolanti e a giugnetto tutto era pronto per fare il tetto nuovo e ripigliare dove era necessaria la muratura: le mule portarono carichi e carichi di legname, ciaramide e mattoni e tutti i giorni la sacra famiglia , figlio piccolo compreso, si metteva in fila quando con un ciarbune, quando con un un mattone, quando con una ciaramida in mano a ciascuno per servire i mastri sulle impalcature che se la facevano bestemmiando dalla mattina alla sera. Alla fine dell’estate il tetto nuovo era cosa fatta e la muratura pure, ma i dollari erano quasi finiti e il Pirchio pensò di mettere solo le aperture esterne e poi fermare i lavori interni sperando nell’arrivo di qualche provvidenza. A settembre pure le aperture esterne erano quasi tutte a posto, salvo un finestrino in una stanza d’angolo. Filippo disse gridando al falegname Gileppo, che era stato pagato profumatamente, che doveva portare al più presto il finestrino, ma il falegname, che era più pirchio del Pirchio, disse spronto:

- Manca una lira e mezza sul prezzo che avevamo aggiustato per tutto il lavoro: o me la dai o il finestrino non lo vedi!

    Per tutta risposta Filippo gli si lanciò contro come un gatto servaggio e lo gettò a terra. Cominciarono a rotolarsi dandosi muzzicate sulle facce e botte da orbi e dopo pochi minuti erano ridotti tutti e due a pezze da piedi pieni di sangue. Sentendo le grida della gente , si avvicinarono due regi carabinieri che li presero a terra e li divisero sacramentando , poi li portarono in caserma dove furono trattenuti due giorni e una notte. A tirata di causa per direttissima il giudice condannò Filippo a pagare a Gileppo quattro volte quello che gli doveva , e cioè sei lire, oppure a pagare solo una lira e mezza, ma a scontare un mese di carcere. Il Pirchio naturalmente scelse la seconda soluzione e fu portato subito in galera.

  Marastella per tutto il mese non sapeva più cosa fare per sparagnare qualcosa e tirare avanti: cominciò a vendere nella sua bottega anche il grano che le portava una sua cugina di notte nelle cofane della scecca per non dare all’occhio. Poi pensò che era inutile tornare a dormire ogni sera nella baracca del Piliere e per tre giorni i quattro figli trasportarono in testa nella casa in muratura materassi, trispita, sedie, pignate e tutto il resto. Invece  il casciabanco , la buffetta e altre cose più pesanti furono portate dal nonno Tornisi con un carretto trascinato da una vacca vecchissima e tutta ossa , che da Tresilico a Oppido impiegò più di due ore  lordando tutto il corso con le sue cacate continue, che fecero arraggiatiare una guardia comunale che non vide l’ora di correre subito nella bottega di Marastella gridando:

- La vacca di vostro padre ha combinato a tre tubi tutto il corso: non solo si muore dal feto, ma non si può nemmeno camminare. Dovete pagare una multa oppure ve la vedete coi carabinieri!

- Per me – rispose calma Marastella – vi potete pigliare la vacca e ve la potete tenere!

- Allora non volete capire, catinazzo? – insorse la guardia – Come ve lo devo dire che il corso non può restare com’è ? Il Comune minimo minimo deve spendere dieci lirazze per pulizzarlo.

- Sentite! – Rispose Marastella – mangiatevi un musuluco e calmatevi chè parete focàto... Di quant’è la multa?

- Sarebbero sette lire, ma a  voi faccio cinque lire e mezza! – rispose la guardia.

- Pigliatevi un altro musuluco – disse calma Marastella – e vedete di chiudere un altro occhio…

- E che volete?  Che vado io  pure a  pulizzare le cacate di vacca? – rispose risentita la guardia – Almeno una lira e mezza per due orate di fatica di un operaio volete pagarle?

- Mangiatevi quest’altro musuluco che è restato e non se ne parla più! – Disse risoluta Marastella.

- Niente…almeno mezza lira di multa per l’occhio della gente la dovete pagare – rispose sottovoce la guardia a bocca piena.

- Che mezza lira e mezza lira! – Ribattè Marastella insieme ai quattro figli – Diteci dove dobbiamo andare a pulizzare e andiamo noi…E partirono tutti in fila indiana armati di due scope di lafàce e di due limbe piene di acqua.

     La sera stessa la sacra famiglia si sistemò alla meglio in due bassi sdarrupati della nuova casa, quindi si diede di lingua in paese e subito la baracca fu affitata e quando Filippo uscì dal carcere si prese la testa a pugni domandandosi come mai non ci aveva pensato lui prima.

    Pareva che tutti i denti perciati e le barbazze del paese  aspettavano il Pirchio: appena uscito di galera, il basso  era pieno dalla mattina alla sera e per mettere la suola a qualche paro di scarpe doveva lavorare anche di notte. I soldi entravano di nuovo … e si poteva cominciare a pensare a sistemare un poco alla volta all’interno le cammare e i bassi di tutta la grande casa ancora spantumata. Ma una sera a letto Marastella ebbe una pensata e la disse al marito:

- Filippo, abbiamo quattro figli che crescono come la lattuca nel mese di giugno, anzi alle due femmine già comincia a mpinnare il petto: o prima o poi le dobbiamo maritare con l’aiuto di Dio…Ora noi abbiamo un casunale bisesto di dieci cammare e di dieci bassi. E’ vero che sono ancora quasi tutti spantumati, ma a noi che servono? Ci bastano i due bassi delle botteghe e le due cammare di sopra, mentre il resto possiamo 'ngegnarlo per fare quattro case per i figli: due bassi e due cammare ognuno con sporgenza sulla stradella davanti e sulla stratuzza darreto. Che dici?

- Hai ragione – murmuriò il Pirchio morto di sonno – ma ci vogliono quattro scale almeno di tavola. Domani vado a parlare con quel coso brutto del falegname Gileppo, da cui avanzo almeno sette-otto barbe, e se mi fa un prezzo giusto, senza poi armare sciarre come al solito suo pure per mezza lira, gli ordino di fare la prima scala con legno di castagna. Se viene bene, poi Dio provvede…

L’indomani, alle sette arbe, il Pirchio si alzò col pensiero del falegname che gli ferriava in testa; prima aprì la bottega di Marastella e poi mise mano per aprire la sua, ma rimase 'ntassato quando vide arrivare l’officiale del dazio con un milite che senza dire una sola parola di saluto gli passarono davanti ed entrarono senza permesso nella bottega di Marastella che era appena arrivata. Filippo tremava dalla nerbina e restò fuori dalla porta a sentire cosa succedeva…

- Da quanto avete questo esercizio? – disse con la nasca all’aria l’officiale a Marastella –

- Cosa di poco…. meno di un anno….- rispose la donna imparpagliata.

- Che anno e anno? – Ribattè l’officiale – Volete farci fessi? Sono tre anni che lavoro in questo comune e l’esercizio era già aperto quando sono arrivato!

- Vi sbagliate di grosso! – gridò Filippo dalla porta.

- Voi statevi zitto se no vi mando in galera! – Intimò il milite.

- Che cosa vendete? – Domandò l’officiale alla donna.

- Ccà… guardate coi vostri occhi: quattro pezzotte di caso vaccino, poche ricotte, quando ce ne sono, e due musuluchi – rispose ancora più imparpagliata Marastella.

- E in quei sacchi vicino alla parete cosa c’è ? – Riprese l’officiale con le nasche tremanti.

- Avena! Avena per le cavalcature c’è! – rispose Marastella.

Il milite si avvicinò alla parete, prese un sacco e lo mise su una buffetta , aprendolo, mentre l’officiale si avvicinava e prendeva un pugno di cereali e cominciva a sacramentare a voce altissima:

- Questa sarebbe avena dunque? Ci prendete per fessi? Questo è grano, e lo sapete meglio di me che c’è il dazio sul grano e sui farinaggi di grano. Perché non lo avete mai rivelato?

- A me pareva avena…- rispose con un filo di voce Marastella facendo infuriare di più l’officiale che non perse un solo secondo a sparare la sentenza:

- Sono 25 lire di multa. Per ora! E vi è andata pure be….

     Non potè completare la frase giacchè fuori della porta si sentì un grande scalafascio accompagnato da lamenti e grida. Saltarono tutti fuori e quando Marastella vide Filippo a terra che tremava pieno di sputazza fuori dalla bocca domandando di essere portato all’ospedale, si mise a fare voci altissime per chiamare gente. Accorsero tutti dalla ruga e quattro amici lo misero su una vecchia coperta e cominciarono a trasportarlo di prescia in ospedale, dove restò una simanata assistito dalla moglie che tenne la bottega chiusa. E quando la riaprì c’erano solo i latticini.

. . .


    Quando Palmina , la prima delle figlie femmine fu in età di marito, Filippo e Marastella la chiamarono da canto e la 'ndottrinarono per bene.

- Come deve essere un bravo marito? – domandarono insieme alla ragazza.

- Lavoratore e sparagnoso – rispose Palmina.

- Prima sparagnoso e poi lavoratore – disse il Pirchio rosso in faccia, sparando poi subito la seconda domanda:

- E come capisci che è sparagnoso?

- Non deve fumare sicarri e tabacco di nessun tipo, non deve andare nelle cantine a sollevarsi a vino, non deve giocare né a carte né a mbrigghia e quando passa la guantera nella chiesia non deve mettere più di mezzo soldo…!

     Dopo tre mesi il sensale arrivò una sera nella barberia-scarperia e denteria , aspettò che se ne andassero i clienti che erano presenti e a bassa voce si rivolse al Pirchio:

- C’è Geso Mpigna che vuole le mani di vostra figlia Palmina. E’ un bravo giovine , di poche parole e lavoratore che di un sordo ne fa tre…

- Questo si deve vedere... – disse Filippo – Ditegli di venire qui di sera dopo la jornata per aiutarmi nel lavoro di scarparo. Io lo pago e cosi vedo che pesce è.

- Sta bene! – rispose il sensale: domani sera stessa piglia servizio.
   

  Geso si mostrò subito di poche parole, imparò subito a rattoppare le scarpe spantumate e lucidarle benissimo con la sola sputazza faticando come un mulo dopo una jornata di lavoro che aveva già fatto. Bisognava studiare però una prova decisiva per vedere se sapeva sparagnare come si deve. Una sera a Filippo venne l’idea mentre tagliava i capelli a un cliente di sbattere forte più volte vicino alla buffetta di scarparo il faddale che metteva addosso a chi si serviva da lui per non riempirsi di peli, facendo così volare molte leggerissime simigge di scarparo a terra. Poi con la coda dell’occhio si mise a osservare Geso che stava lavorando in silenzio per riparare un paro di calandrelle e che posò subito il lavoro e si abbasso per raccoglierle. Il Pirchio fece finta di niente, ma fu contento dentro di sé per questo comportamento. Tanto più che Geso, dopo aver finito il lavoro, si abbuzzò di nuovo a terra guardando centimetro per centimetro e tastiando con le mani…

- Che perdesti? – Gli domandò Filippo.

- Caddero delle simigge – disse il giovine – Le ho raccolte come ho potuto, ma mi sono accorto che ne mancano tre…

- E come te ne sei accorto? – Lo provocò il Pirchio.

- Perché prima di cominciare il lavoro le avevo contate tutte nella mia mente, una per una!

     Filippo voleva mettersi a ballare per la contentezza e chiamò subito il sensale per comunicargli che lo zzitaggio si poteva fare. E presto si fece pure il matrimonio e la nuova famiglia andò a vivere nelle prime due cammare e nei primi due bassi rinnovati, serviti dalla prima scala di legname di castagno, per il pagamento della quale il Pirchio e il falegname Gileppo almeno quattro volte furono sul punto di venire alle mani di nuovo, gridando in continuazione e minazzandosi con la sputazza alla bocca.

     Quando fu il tempo di Sterina, la seconda figlia, Filippo e Marastella la chiamarono e la 'ndottrinarono come avevano fatto con Palmina. Dopo alcuni mesi arrivò l’ambasciata del sensale che si presentava a nome del padre di Micalangialo Barresi per chiedere la mano della figliola e il Pirchio chiese anche a lui, come barbiere, il solito periodo di prova di sera, ma non ce ne fu bisogno perché il giorno stesso in cui doveva pigliare servizio Micalangialo s’appresentò nella bottega di Marastella dicendo:

- Voglio tre pezze di caso frisco e tutti i musuluca che avete!

- Otto ne ho. – rispose Marastella cercando di sprovarlo – Vi abbastano per quello che dovete fare o sono pochi?

- Pochi sono, ma ci arrangeremo : – rispose Micalangialo – siamo nove amici e dobbiamo fare una schiticchiata: pago io!

Una che fu uscito dalla bottega, una che Marastella entrò affannata nel basso del marito contandogli il fatto:

- Non è cosa! – aggiunse – Questo le sacchette perciate ha e non fa per Sterina. Mandagli a dire col sensale di rigettarsi i sensi!

      Dopo qualche mese però anche Sterina trovò l’uomo adatto, che si rivelò più pidocchioso dello stesso suocero, e anche il secondo matrimonio venne presto celebrato e fu inaugurato il secondo alloggio con la seconda scala di legno di castagno e almeno altre tre sciarre sul prezzo tra Filippo e Gileppo, culminate in una ferata nella piazza della cattedrale in cui i due si sfidarono a botte di bacolo per una differenza di tre lire e mezza sui conti che avevano fatto e che non tornavano.

     Toccava ora aprire famiglia al primo figlio mascolo che di nome faceva Gelardo e che faticava come un mulo dalla mattina alla sera. Gettò l’occhio su Gialorma, una bella figliola nquartata, forzuta e rossa in viso come una paparina, ma era difficile alla famiglia Trupìa sperimentare le virtù di sparagnatrice fina della ragazza. Volle il caso però che un giorno Gialorma fu mandata nella bottega di Marastella a comprare mezza libbra di caso da grattare e Marastella, facendo finta soprapensiero di sbagliare, gliene tagliò un pezzo di quasi una chilata. Gialorma si fece ancora più rossa con le orecchie che le gettavano fuoco e disse che ne voleva mezza libbra e basta. Allora Marastella , per sprovarla, gliene pesò quasi una libbra mandando Gialorma su tutte le furie:

- Vi dissi mezza libbra e mezza libbra precisa deve essere, non una gramma di più e non una gramma di meno: noi i soldi li fatichiamo!

    Fu musica per le orecchie di Marastella e poi di Filippo e poi di Gelardo, che, se possibile, era più avaro del padre, e presto furono ncignati anche questo matrimonio e il terzo alloggio, con la terza scala di castagna, pagata dal Pirchio facendo continue ferate e sfide a quel fetuso di Gileppo, che pretendeva ancora una volta di imbrogliare sempre qualche lira in più rispetto ai patti.

    L’ultimo figlio di nome Saverino a sedici anni sdunò che voleva farsi previte e si chiuse in seminario. Pigliò messa dopo una ferriata di anni di studi, fece il concorso e vinse una bella parrocchia con rendita di due vigne e di un orto, dove per sparagnare su tutto arrostiva l’uovo alla candela , teneva una sola sedia e una buffetta, una sola zimarra per l’estate e per l’inverno, celebrava due messe tutti i giorni e tre la domenica e le feste, facendosele pagare tutte, e limosinava coi parrocchiani alla ricerca di tutte le offerte possibili e pure di quelle impossibili.

. . .


    Gli anni volarono e la famiglia ora era formata, tra grandi e piccoli, da quattordici persone più il previte che , quando si facevano riunioni per decidere qualcosa, arrivava dal paese dove aveva la parrocchia a cavallo di una scecca sempre più affamata e malandata.

     Fu nel ’38 che il Pirchio passò un terribile quarto d’ora, quando il Fascio locale, incazzato perché né lui né il figlio né i generi avevano mai partecipato alle adunate, gli fece sapere che era fuori legge a fare il dentista e che lasciasse il mestiere a chi ne aveva il titolo.

- Ma si tratta di mole e di denti perciati che, se li tocchi, cadono da soli… – fece sapere Filippo.

- Perciati o non perciati – gli mandarono a dire -. Se continui a tirarli senza autorizzazione, ti perciamo noi e vai a finire in galera per tutto il resto della vita.

Dopo qualche mese si presentarono due uomini nella bottega per un’ispezione e gli dissero:

- Trupìa, questo esercizio pubblico è fuori legge: o è barberìa o è scarperìa. Non potete continuare a fare barbe e a tagliare capelli con la puzza e la lordìa di tutte queste scarpazze vecchie, col rischio di dare un’infettazione ai vostri clienti. O vi decidete a lasciare una delle due attività o ve le chiudiamo tutte e due.

    Filippo con la morte nel cuore passò la barberia al secondo genero e la scarperìa al primo, spostandole nei loro bassi: faticò una simanata per trasportare tutto e, quando il suo basso fu vacante, lo riempì di panche di legno in tutti i lati: da quel momento quella era la sala delle riunioni di famiglia. Poi si ritiro nell’esercizio di Marastella e cominciò a vendere pure lui caso, ricotte e musuluchi. Per spassare il tempo...

    Presto però marito e moglie pensarono di ritirarsi e passarono l’attività commerciale al figlio maggiore . Restarono però presenti a tutte le continue riunioni della famiglia, che intanto era ancora cresciuta di numero , quando c’era da prendere una decisione oppure di comprare qualcosa, anche un solo giocattolo o una sola caramella per qualcuno dei più piccoli.

    Una sera,appena finita la guerra, una riunione fu organizzata in fretta e furia perché qualcuna delle femmine della famiglia aveva sdunato che era necessario portare un tubo dell’acqua dentro casa e si doveva pagare una certa somma al comune e un’altra allo stagnino per fare il lavoro: parevano tutti d’accordo, eccetto Marastella e il Pirchio che si batterono come leoni per non far fare quel lavoro. Nemmeno il previte riuscì a convincerli e la discussione si protrasse con grida e minazze per tutta la notte. Alle mattinate Filippo, mentre ancora gridava e batteva i pugni sul tavolo, fu preso da una botta di sangue che lo lasciò a terra a bocca e occhi aperti come un pupo. Lo presero di peso e lo portarono di sopra nella cammara e, dato che era ancora scuro, Marastella , aspettando il medico, accese la lumèra sulla colonnetta, ma Filippo, ormai in fin di vita, mutariando e sacramentando, le ordinò con la bocca piena di schiuma e con le mani tremanti di spegnerla subito perché l’ogghio non lo regalavano!

                                                                                                                         Bruno Demasi

domenica 10 novembre 2024

QUANDO NACQUERO LE CITTA' DEI DEFUNTI... ( di Rocco Liberti )

    Passano oltre 70 anni dall’editto francese di Saint Cloud alla fondazione del cimitero di Oppido Mamertina e di quelli delle sue 3 frazioni, un tempo smisurato anche per dei paesi aspromontani  e Rocco Liberti in questa ricchissima pagina ne spiega attentamente e dettagliatamente i motivi, in gran parte dovuti alle ristrettezze dei tempi. Ma, al di là delle lungaggini e delle traversìe attraverso le quali videro la luce queste moderne istituzioni tese a soppiantare la barbarie delle sepolture urbane, si rinvengono in questa studio analitico, condotto con l’abituale rigore di ricerca, i segni della società del tempo e dietro di essi anche la rigida stratificazione della popolazione di questi centri che nel momento del decesso, dei funerali e delle sepolture affiorava in tutta la sua triste evidenza. Paradossalmente, sembra dirci con ironia l’Autore, le sepolture antiche e frettolose nelle chiese in qualche modo " livellavano” più o meno tutti, ma la (giusta) nascita dei cimiteri extraurbani, delle tombe monumenali accanto alle semplici fosse destinate ai più poveri cominciava a far emergere le stridenti differenze nelle condizioni sociali e la progressiva trasformazione della pietà popolare in forme di vanità tout court oggi più che mai  dilaganti. (Bruno Demasi)
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      L’uomo, sin dalla più remota antichità, si è preoccupato in vario modo di custodire i resti dei propri simili, sia con l’inumazione che con l’incinerazione, quest’ultima sicuramente la pratica più antica. I defunti o quanto di essi restava venivano collocati variamente, ma ad accoglierli erano soprattutto le cosiddette necropoli, letteralmente “città dei morti”, da nekroV  e polis degli agglomerati di tombe che si offrivano nelle immediate adiacenze del centro abitato, naturalmente con alcune eccezioni. Tale tradizione è perdurata a lungo nel mondo antico, ma, sostituitosi il paganesimo con il cristianesimo, sin dal secolo V è invalso l’uso di ammucchiare i deceduti in apposite cripte, da  kruptoV, , letteralmente “nascosto” ma poi anche sinonimo di grotta, nel sottosuolo dei luoghi sacri. Il tutto era probabilmente partito dalla tumulazione in essi delle ossa di un martire o di un sacerdote o vescovo morto in odore di santità. Un tale sistema si è purtroppo protratto per assai lungo tempo e durante i secoli non si è mancato di recriminare per il fetore che i cadaveri emanavano da botole non ermeticamente chiuse o sconnesse per eventi di ogni tipo. È occorso pervenire al 1804 perché una saggia legge francese provvedesse al riguardo o almeno desse il via ad un ritorno alle antiche consuetudini, che ben consigliavano di collocare i defunti al di fuori dei centri abitati. Quanti mali endemici si sarebbero potuti evitare!

     Il 12 giugno del 1804 un editto dell’imperatore Napoleone, detto di Saint-Cloud dal luogo dal quale era stato emanato, è venuto a vietare severamente il seppellimento delle persone decedute all’interno delle chiese, un provvedimento che il successivo 5 settembre 1806 è stato esteso al regno d’Italia. D’allora i defunti si sarebbero dovuti tumulare in appositi luoghi fuori porta cinti da mura e senza segni di particolare ostentazione e diversificazione l’uno dall’altro. Un tale atto, che si qualificava un vero e proprio ritorno ad un passato remoto, ha suscitato allora le ire di due grandi poeti italiani, Ugo Foscolo ed Ippolito Pindemonte, i quali, con ragionamenti diversi, hanno sostenuto fosse un dovere solennizzare in modo visibile gli uomini celebri. Il primo si è imposto subito già nel 1806 allestendo “I Sepolcri”, che ha dato alle stampe l’anno successivo. L’altro, che aveva in corso l’opera “I cimiteri”, lasciata incompiuta alle notizie dell’edizione del lavoro del Foscolo, ha seguito le orme del grande amico nel 1808 con altro carme di uguale titolo.

    Nel regno di Napoli una similare misura è stata introdotta per volontà di re Ferdinando I con legge dell’11 marzo 1817, che stabiliva la costruzione di un “camposanto” in ogni comune. Un regolamento in relazione sarà varato il 21 successivo ad opera del ministro Donato Antonio Tommasi. È pacifico che, a seguito della legge, non sia avvenuta alcuna corsa all’edificazione di tali strutture. Ce ne sono stati sicuramente di amministrazioni sollecite ad avviare a soluzione il problema, ma per la gran parte, soprattutto nei comuni piccoli, quello è stato affrontato ed indirizzato su solidi binari soltanto a partire dalla seconda metà del secolo. Tanti, addirittura, dopo vari tentativi andati a vuoto sicuramente per motivi di ordine pecuniario, hanno potuto raggiungere lo scopo appena sul finire dello stesso, quando non ancora in quello successivo.

  Non sappiamo se in epoca borbonica ci siano stati in Oppido tentativi per avviare una tale opera di civiltà, ma di essa se ne discuteva nel consiglio comunale pochi anni dopo il conseguimento dell’unità d’Italia. Nella seduta del 25 dicembre 1864 si dichiarava che «non si ha in questo Comune Capoluogo Campo Santo, con tutto ciò che avrebbe maggiore importanza di quello del Sotto Comune di Castellace, ed i cadaveri si seppelliscono nei sepolcri della chiesa Parrocchiale», per cui si veniva a deliberare di «non avere in atto il Comune i mezzi per applicarsi alla costruzione dei Campi Santi, e quindi si riporta ad altro tempo la costruzione di quello di Castellace». Da quanto chiaramente espresso si evince che tutto muoveva da una richiesta degli abitanti di Castellace.

    Sicuramente, era stato molto più sollecito il piccolo comune di Tresilico, che ad appena un anno dal decreto di re Ferdinando aveva avviato le pratiche necessarie per varare un suo camposanto. Come tutte le amministrazioni che si rispettavano, anche quella tresilicese è stata attenta per tempo a seguire i dettami discendenti dall’editto napoleonico, che finalmente liberava le chiese e, quindi, i paesi dai miasmi apportati in tanti secoli dal seppellimento dei defunti e, di conseguenza, dall’insorgere di malattie contagiose. Sin dal 1818, infatti, ha iniziato ad inserire apposita voce in bilancio, anche se per la prima occasione la somma stanziata è stata di appena 20 ducati, ma la stessa man mano che si andrà avanti aumenterà progressivamente. Già due anni dopo, nel 1820, saliva ad 80 e nel 1846 addirittura a 160.
 
   Tornando ad Oppido, è dato riscontrare che, in successione a quanto riferito, un «piano topografico del cimitero» a cura dell’ing. Luigi Oliverio era stato approvato con un decreto prefettizio in data 18 ottobre 1871. Sicuramente, si trattava dello stesso che in una delibera comunale risulta allestito nel 1864. Purtroppo, quel progetto prevedeva l’ubicazione del manufatto in contrada Carrì, località che la commissione sanitaria è venuta a scartare per la netta opposizione del limitrofo comune di Tresilico. La commissione in sua sostituzione ha allora scelto la contrada Resta, ma a tal punto il piano non si adattava più al nuovo sito, per cui si è commesso l’impegno all’ing. Andrea Cozzolino. Il progetto da questi approntato poteva essere così approvato dal consiglio comunale nella data del 22 maggio 1874. Ancora l’anno prima, il 22 aprile 1873, si recriminava che non si era potuto dare il via all’opera, in quanto la pratica in riferimento risultava “incompleta” per il fatto che mancava il decreto che autorizzava il comune ad acquistare il fondo. Sistematesi alquanto le cose ed iniziati i lavori con la ditta Giovan Francesco Carbone di Tresilico, nel 1876 tutto stava per giungere finalmente in porto, quando è sopraggiunto l’inopinato decesso di quell’impresario. A tal motivo è subentrata la rescissione del contratto ed il comune è stato costretto a completare il tutto in economia nel periodo 1878-1879.

    Il discorso inaugurale per l’apertura del camposanto di Oppido toccava a Candido Zerbi, lo storico locale allora in voga, che lo pronunciava proprio nel giorno consacrato ai morti, il 2 novembre 1879. Si tratta di una concione come tante all’epoca, particolarmente aulica ed ampollosa oltre i limiti, che poco concedeva a fatti reali e dove, tra i tanti riferimenti ad antiche e famose sepolture che toccavano un po’ tutte le latitudini, non poteva mancare quello ai “Mausolei di S.a Croce” di foscoliana memoria. Ecco quanto ha quegli tenuto ad offrire agli astanti in merito al progresso ottenutosi con l’opera in questione. Anche se l’enfasi non è assente del tutto, è forse il passo che si rende più comprensibile ai molti:

    «L’igiene moderna, o Signori, proscrive, con severo precetto, i cimiteri delle civiche abitazioni, e con maggiore scrupolo dell’antico romano costume, che li poneva nel pomerio delle città, ne vuole lo stabilimento in luogo da esse molto discosto, e sempre aerato ed aprico. Gli esiziali effetti delle mefitiche esalazioni, di cui fecesi in ogni tempo la ragion precipua di simile spediente, e noi plaudendo sempre al vecchio, ed indispensabile assioma, che la salute pubblica è legge suprema, l’accettiamo senza malgrado, divenuto oggi savio provvedimento della vigente legge di pubblica sicurezza. È di vero, o Signori, quei fangosi carnai, crateri perenni di contagi e miasmi nei paesi rurali, da nessuna precauzione vigilati, da nessuna aromatica effusione, se non purificati, resi meno insalubri, e perniziosi, travagliano selvaggiamente la civiltà dei tempi, e rifugge da essi con orrore la vista, e non che il pensiero dei micidiali effluvi, l’altro ancor più grave della barbarie di un volgare becchino, che frettoloso, ed impaziente ne stiva, per ogni dì lo spazio, pigiando con feroce disinvoltura il cadavere dei già venuti per lasciar luogo ai vegnenti.
    E si che gore letali sono gli attuali sepolcri delle chiese urbane. Il vostro ambiente è malsano. Senza alcuna mente del danno, che ne avviluppa, e compenetra, perché senza occhio, che li vegga, noi aspiriamo continuamente a gran sorsi, il germe della morte; e gassi putridi, e miriadi d’infusori, ed organici corpuscoli ne sono gl’invisibili portatori. E pesti calamitose (la vecchia e nuova patologia l’attesta) e morti nere e lue tifica e carbonchiosa, e maligni esantemi furono sovente il triste effetto di cotesta occulta e velenosa inoculazione. Oh, se l’areoscopo del Pouchet[i] potesse divenire un familiare istrumento, quanti nuovi mali imminenti ci sarebbero noti, e quante nuove sollecitudini per allontanare il periglio! …
    Accettiamo dunque, senza peritose esitazioni il portato della civiltà. Percorriamo anche noi con franchezza, il cammino del progresso, e col viatico della prudenza, e dell’accorgimento per ischivare i pericoli di un sentiero troppo lubrico e precipitoso. Orsù fatevi cuore, e con premure unanimi, e con unanimi preci, consacriamo, volenterosi, il campo del nostro ultimo asilo; chiamiamolo, da oggi, inviolabile-santo. Non è ancora in buon’essere. Il vostro solerte maestrato Municipale, che ebbe sollecita cura della sua costruzione, vorrà prender carico del suo totale rassettamento: ne affretto l’indispensabile compito con le mie più calde preghiere»[ii].

 
  Come chiaramente si evidenzia dalla prosa altamente declamatoria dello Zerbi, il camposanto oppidese si è subito rivelato un manufatto inadeguato alla bisogna e già nel 1888 all’ing. Domenico Mezzatesta si è dato incarico per un suo ampliamento. Per cui, tra il ’90 e il ’92, una nuova impresa, la Giuseppe Rizzica, provvedeva in merito. Ma, apparendo limpide altre necessità, ad occuparsene è stato ancora lo stesso tecnico tra ’91 e ’93. Nonostante così tanti interventi, non si era però pervenuti ad uno stadio accettabile se il commissario straordinario Nicodemo Maria Del Pozzo, nel 1894 veniva ancora a lamentarsene così:
«…il pubblico Cimitero … non è corrispondente né ai bisogni della popolazione, né alle alt re opere belle ed importanti, di cui questa cittadina è decorata. La cinta è ristretta, limitato troppo il locale destinato alle tombe gentilizie, le cripte mal costruite, e deficienti i muri di spessore.
Manca poi un campo per i morti di malattie epidemiche-infettive, la cappella, la sala per le autopsie, la camera mortuaria e l’altra del custode, giusta i regolamenti.
Oppido, al modo come fu condotta l’opera, non può avere più un camposanto né bello per la sua situazione ed esposizione, né monumentale»[1].


    Offerta questa non proprio lusingante relazione sullo stato del camposanto di Oppido, il Del Pozzo si è dato a segnalare quali a suo avviso potevano risultare i rimedi utili a riqualificare quel pio luogo. Ma, invero, si è dovuto sicuramente attendere l’impegno fattivo del sindaco Giuseppe Mittica, che tra gli anni ’50 e ’90 del novecento ha profuso incessanti energìe per una soluzione adeguata ai nuovi tempi. Molti sono stati però gli intoppi che hanno rallentato un progressivo avanzamento. È però merito anche delle amministrazioni che si sono succedute fino ad oggi se il tutto pare stia per completarsi in modo abbastanza idoneo.

    Eccoci ora di nuovo a Castellace, frazione nella quale è stato installato un cimitero in ordine di tempo dopo Oppido. Tale struttura si è materializzata tra 1886 e 1887 ad opera della ditta Domenico Farone per una spesa di £ 4.100 e su progetto del solito ing. Mezzatesta dell’anno 1886. Nel 1894 si evidenziavano tuttavia varie carenze e, in primo luogo, quella di una strada che lo mettesse in comunicazione col paese in maniera comoda. Quella allora in uso si rivelava, infatti, così malmessa che spesso faceva d’uopo interrompere il trasporto dei cadaveri. Deplorava ciò nel 1894 lo stesso commissario Del Pozzo. Così, infatti, teneva ad enunciare nel merito: «siamo dolorosamente ben lungi da poterlo dichiarare completato»[2] e ne elencava le insufficienze.

    Un progetto per il cimitero di Messignadi rimonta al 1886 e probabilmente è stato anch’esso opera del solito ing. Mezzatesta. La materializzazione è avvenuta nel 1890 in un terreno demaniale dello stato, nel fondo detto di S. Maria dell’Angelo. In questo sito è durato ben poco se in una delibera dell’11 giugno 1895 si afferma che il manufatto «si è dovuto spostare perché nel 1887 essendosi impiantato per ordini perentori del Ministro un cimitero provvisorio per quella borgata in una località dello stesso fondo demaniale … per non violarsi le tombe del cimitero provvisorio venne il bisogno indispensabile dello spostamento». Anche del cimitero di Messignadi il Del Pozzo non aveva mancato nel 1894 di segnalare le consuete carenze[3].

     Un cimitero è stato realizzato anche a Piminoro, ma nel 1894, così come a Castellace, non ci si poteva servire di una strada agevole. Ne restava senza il sobborgo Zurgunadi, ai cui abitanti, per l’estrema vicinanza al capoluogo, è stato consentito di servirsi del cimitero del maggiore centro. Nel 1894, tuttavia, il Del Pozzo, chiedendo di abolire il sistema in vigore, che non doveva essere certo ottimale, invitava l’amministrazione a dotarsi all’uopo almeno di un carro funebre[4]
 
Rocco Liberti
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1) Si tratta di Felix Archimede Pouchet (1800-1872), naturalista francese e strenuo sostenitore contro Pasteur della teorìa della generazione spontanea dalla vita della materia non vivente. Tra le sue tante opere, infatti, c’è “Heterogenìe, ou Traitè de la generation spontanee : base sur de nouvelles experiences", J. B. Beilliere et fils, Paris 1859.
2) Discorso pronunciato dal commendatore Candido Zerbi nel Campo Santo di Oppido Mamertina aperto, e solennemente benedetto il 2 Novembre 1879, Tip. Ceruso, Reggio Calabria 1879.
3) Relazione su l’amministrazione del Comune di Oppido Mamertina letta dal R. Commissario Straordinario Cav. Nicodemo M.a Del Pozzo nel dì dell’insediamento del nuovo Consiglio 11 gennaio 1894, Stamperia del Progresso, Reggio Calabria 1894, pp. 49-50; Liberti, Oppido Mamertina ieri e oggi nelle immagini-II, Diaco Editore, Oppido Mamertina 1985, pp. 123-124.
4) Del Pozzo, Relazione …, pp. 51-52.
5) Ivi, p. 52.
6) Ivi, pp. 52-53.