mercoledì 29 gennaio 2014

“...'U DISSI PURU L ‘ABBATI CONIA, CA CU’ SETT'ORU NON SI CUGGHIUNIJA...”:

di Michele Sozzarra 

     E’ stata questa frase, ancora usata in alcuni  paesi della Piana per indicare l'importanza...delle cose importanti, ma anche la fama antica di questo originale poeta, e da me sentita per caso una sera di molti anni addietro a Nicotera, che mi ha spinto ad interessarmi e rivedere la produzione letteraria e la figura dell’abate Giovanni Conia, nato a Galatro nel 1752, primogenito di una famiglia di agiati contadini, e morto ad Oppido nel 1839, alla venerabile età di 87 anni, dove fu sotterrato nella Chiesa del Purgatorio( ormnai inesistente), senza neanche il ricordo di una lapide. In seguito furono disperse pure le ossa.
      Molte sono le questioni sollevate dalle incerte notizie che si hanno intorno alla sua vita, ma proviamo a domandarci lo stesso: chi era l'abate Conia? Da molti viene descritto come organista prestigioso, poeta, maestro del bel canto, cerimoniere ecclesiastico, oratore sottile e teologo; infatti, grazie ai suoi meriti di teologo, di oratore, di umanista, fu chiamato a far parte dell'Accademia Florimontana di Monteleone, ed il principe Filangelo Vibonese, al secolo don Raffaele Potenza, che ne era il fondatore, lo accolse con il nome di Florisbo Elidonio.
      Giovanni Conia, ordinato sacerdote nel dicembre
La vecchia cattedrale di Oppido
del 1777 dal Vescovo di Nicotera, al quale era stato presentato dal Vicario Generale di Mileto Francesco Lupo, da giovane aveva fatto parte del clero romano dove, segnalato per la sua dottrina e per la sua condotta, venne nominato predicatore apostolico e poté parlare anche alla presenza del Papa nella Cappella Sistina. Don Rocco Zerbi nel necrologio di Giovanni Conia afferma che questi era “d’intemerati costumi e menò vita illibata. Religioso senza ostentazione, virtuoso senza fasto, attivo senza consumo di forza, amico senza doppiezza”.
Ma, quando ormai si trattava di cogliere il frutto dei suoi meriti, Giovanni Conia abbandonò Roma. Tornato dalla Capitale si stabilì in luoghi come Limbadi, Orsigliadi, Caridà, Zungri, definiti dal Canonico Giuseppe Pignataro: “Paesi microscopici e remoti nei quali le cose e gli uomini diventano natura. Ma tra queste cose e questi uomini gli asceti e gli artisti avvertono potente la voce di Dio”.
     Fu anche arciprete della Chiesa di Santa Maria degli Angeli e di San Giorgio a Laureana di Borrello e nel mese di maggio del 1826 entrò a far parte del Capitolo di Oppido.
      Oratore di eccelse virtù, salì i migliori pulpiti, percorse in lungo ed in largo la Calabria reggina e parte del catanzarese per tenere panegirici, prediche quaresimali, orazioni funebri: il favore popolare lo assisteva, si racconta che ascoltare un suo panegirico era uno scialo di idee, di affetti e di entusiasmo.
In una delle sue poesie più famose, la Canzone faceta, proprio per questo suo peregrinare, dice: 

                             Pistatimi sta testa:
                                            cu tantu chi campai,
                      ancora no mparai
                      la Santa Cruci.
                              ‘Ncignai di li primi anni
                     pemmu ricivu ‘mbiti;
                     e mai ‘nci furu liti
                     pe la juta.
                             Ma poi pe’ la tornata
                    ognunu rifriddava,
                    ed eu spessu ‘ncappava
                    a billi balli.
                            Eu currijai lu mundu,
                    pruppiti non dassai:
                    festa non c'era mai
                    senza di mia.[…]


L'attuale seminario di Oppido
      Disseminava per ogni dove poesie in dialetto calabro ed in volgare, sollecitategli a destra ed a manca, al suo passaggio o durante il suo soggiorno, stante la conoscenza che si aveva del suo poetare. Non a caso le poesie del Conia si presentano come modello di lingua popolare viva, poiché in esse troviamo ritratte e trasfuse mirabilmente, le locuzioni speciali, la potenza espressiva del nostro vernacolo, la semplicità, il brio spassoso, l'arguzia fine, l'ironia mordace, i sottintesi tanto significativi; infatti le vicende di una gatta che rubava i pesci e li portava al suo padrone, di un asino o di un cognetto di alici, non potevano che esprimersi che nel dialetto parlato ogni giorno.I conoscitori dei nostri dialetti, riconoscono che il Conia considerava il nostro dialetto una vera e propria lingua, e per la bellezza dei suoi versi lo considerano “un antesignano del rinnovamento letterario”. C’è stato anche chi ha sostenuto che “quello che Dante ha rappresentato per la lingua italiana, Giovanni Conia lo ha rappresentato per la lingua calabra”.

Cesare Lombroso per mostrare l’eccellenza del dialetto calabrese e l’arte dei suoi poeti, trascrisse alcune versi del Conia, nei quali ha riconosciuto una “stupenda e vera poesia, tanto più che riassume la storia ed i pregi del calabrese vernacolo”.
        Nonostante tutto questo, ancora oggi, molte notizie sulla vita di Giovanni Conia rimangono incerte, anche se ci sono in giro delle ottime pubblicazioni.
      La prima è dello stesso Conia e porta come titolo: “Saggio dell'energia, semplicità, ed espressione della lingua calabra nelle poesie di Giovanni Conia” è dedicata al Signor D. Nicola Santangelo, Segretario di Stato e Ministro degli affari interni nel Regno delle Due Sicilie ed è stata pubblicata dai Tipografi Vescovili di Napoli nel 1834.
        Un’altra edizione dal titolo: “Giovanni Conia – Poesie complete” a cura di Pasquale Creazzo è stata pubblicata a Reggio Calabria presso la Società editrice reggina nel 1929.
Altra pregevole pubblicazione del 1980, edizioni Parallelo 38, “L’abate Giovanni Conia, Poeta dialettale calabrese – Testimonianze e poesie” del prof. Raffaele Sergio, il quale è anche l’autore del busto in bronzo di Giovanni Conia che si trova nel piazzale antistante il Municipio di Galatro.
Sempre nel 1980, sotto il titolo “Poesie calabre del Canonico Conia” mons. Giuseppe Pignataro ha curato e presentato la ristampa dell’edizione originale del 1834.
Sul mensile Proposte, nel numero di novembre del 1989, avevo chiuso il mio articolo sull’abate Conia scrivendo che, la ricerca poteva continuare…
        Ma, a dire il vero, non pensavo mai che venisse fuori uno scritto totalmente sconosciuto anche ai più approfonditi studiosi del nostro poeta; infatti, fino ad oggi, di Conìa sono state pubblicate solo le poesie. Per questo, mi considero fortunato di aver avuto la fortuna di far conoscere, grazie alla gentilezza della Signora Tina Mumoli-Martorana di Limbadi, l’elogio funebre che l’abate Conia, il 28 giugno 1817, quando era arciprete di Zungri, compose per l’anniversario della morte dell’Arciprete di Limbadi Don Andrea Mumoli.
       E’ questo un documento di grande importanza, perché contribuisce a far conoscere la vera dimensione culturale, oltre che oratoria, di Giovanni Conia.
       Da parte mia, la curiosità che ha suscitato la figura dell’abate Conia, anche attraverso i miei scritti, è stata una soddisfazione abbondantemente ripagata, dall’aver contribuito a far conoscere più approfonditamente questo grande Poeta galatrese, perché a dispetto di quanto affermava il Creazzo, che “il Conia ha avuto la sfortuna di nascere in quel di Galatro perché li poco o nulla si apprezza”, penso che è stato anche merito dei galatresi aver fatto si che Giovanni Conia non fosse dimenticato, ma venisse conosciuto e apprezzato, non soltanto da pochi esperti.
        E vi assicuro che questa, per un galatrese,come me, è una soddisfazione non da poco….