martedì 24 novembre 2015

SCIMITARRE E LUPARE :IL PRESUNTO “SCUDO NDRANGHETA” CONTRO L’ISIS

di Bruno Demasi
     La sensazione diffusa – forse diffusa anche ad arte - è che il Sud in genere, ma la Calabria in particolare, siano al sicuro dalle mire terroristiche dell’ISIS per i buoni uffici che sarebbero interposti dalla ndrangheta e per il potere di quest’ultima anche rispetto a queste aggregazioni sanguinarie. Ma quanti in Calabria vogliono ricordare che da noi c’è già da un pezzo una strage strisciante, la maggiore incidenza di omicidi rispetto a tutto il resto d’Italia con una percezione della criminalità tra le più basse della Penisola?
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       Se i dati ISTAT 2014 ( cioè gli ultimi pubblicati, riferiti al 2013) non fossero tremendamente shoccanti e inzuppati di rosso, davanti alla favola della ndrangheta che avrebbe influenza persino sull’ISIS e che proteggerebbe sia gli uomini di  buona volontà che quelli di volontà cattiva della Regione , tenendoci al riparo dalle mire del terrorismo islamico, ci potrebbe far rotolare a lungo per le risate.
     Non sappiamo quanto possano essere realistici da queste parti gli allarmi verso il pericolo Jihad e quanto possano essere strategici gli obiettivi “sensibili” calabresi in grado di destare l’interesse del terrorismo. Di certo sappiamo invece che l’ecatombe dalle nostre parti è incessante da lunghi anni, prima ancora che l’ ISIS venisse partorita dai moderni mostri politici internazionali: un lunghissimo fiume di sangue che probabilmente neanche questa creatura sanguinaria riuscirebbe a eguagliare ammesso e non concesso che si dedicasse a scrutare e a colpire la nostra regione. 

    Di certo c’è che in Calabria si uccide più che in tutte le altre regioni d'Italia con una incidenza di quattro volte superiore alla media nazionale, ma i Calabresi non percepiscono rischi dalla criminalità e nello studio “Noitalia 2015” dell’ Istat è proprio la Calabria che si colloca ampiamente al vertice dell ‘ orrenda classifica degli omicidi volontari commessi o comunque tentati, con un rapporto rispetto alla popolazione pari a 2,437 omicidi ogni 100.000 abitanti. 

    In queste Olimpiadi del crimine e del piombo, in questa gara dell'odio e del disprezzo per la vita, in cui ci collochiamo vincitori assoluti ai nastri di arrivo, addirittura la Campania è soltanto seconda ,con un rapporto di 1.32, seguita da Sicilia, Sardegna e Puglia , con valori compresi tra 1,32 e 1,09 omicidi consumati per 100 mila residenti ( Il valore più basso, dopo la Valle d’Aosta in cui non ci sono stati omicidi volontari, si registra invece co lo 0,24 in Veneto ) .
    E per comprendere quanto sia elevato ed orrendo il tasso registrabile in Calabria basta osservare il dato medio italiano che  è  appena di  0,83 omicidi volontari consumati per 100 mila abitanti. 

     In una situazione del genere ci si aspetterebbe che l'analisi della percezione della criminalità, e in particolare del fattore di sicurezza, facesse emergere l'esistenza tra i Calabresi quanto meno di un minimo di preoccupazione , ma l’altra classifica, quella riferita al livello di percezione del rischio di criminalità, presenta una Calabria che, sempre per il 2013, vede solo il 21.6% di famiglie che percepiscono il rischio criminalità contro il 40,8% del Lazio o 37.2% della Lombardia.
    Insomma nell’immaginario collettivo calabro tra abbuffate narcotizzanti di nduja o digiuni imposti dalla povertà galoppante non solo il rischio criminalità non esiste, ma è anche ridicolo preoccuparsi del terrorismo internazionale.
    Tanto – dicono - la criminalità organizzata dalle nostre parti è senz’altro più forte…!

venerdì 20 novembre 2015

LEA GAROFALO, MEMORIA DI SCAMBIO...

di Bruno Demasi

   Persino i martiri calabresi di mafia possono diventare testimonial di questo o di quell’interesse mediatico che non ci appartiene, che tutto copre e mette nel congelatore, mentre le verità vere vengono seppellite nei grandi immondezzai che ormai ricoprono questa terra.
    In un’intervista rilascia a “La C News 24” Marisa Garofalo, sorella di Lea, ci gela con le sue verità, ma non so quanti si scandalizzeranno.
“Sono schifata ! Pubblicizzare l'Associazione Libera in un Film dove a pagare con la vita è stata mia sorella Lea! Anche io e mia mamma ci siamo costituiti parte civile nel processo di mia sorella non solo l'associazione Libera!” A Marisa Garofalo, sorella di Lea, il film di Marco Tullio Giordana  sulla vicenda della testimone di giustizia fatta uccidere dall'ex compagno, non è proprio piaciuto. Lo ha scritto già su Facebook al termine della messa in onda, lo ribadisce oggi, in un'intervista a Lacnews24.it.
Ma cosa non è piaciuto, a Marisa, in particolare?
“Non mi è piaciuto come è stata rappresentata Lea, nei modi e negli atteggiamenti, modi rozzi che non erano suoi. Anche la mia famiglia è stata rappresentata in modo vergognoso. Lea non era quella. Non aveva quei modi.”
Ma c'è stata qualche scena o qualche personaggio che è stato invece reso per come lei lo ricorda?

Nessun personaggio in particolare. Forse solo la scena in cui Denise si è rivolta ai carabinieri, ma il film è stato impostato male, non mi ha emozionato proprio. La storia di Lea invece è una storia che emoziona, ogni volta che la racconto. Questo invece è stato un film che il regista e Don Ciotti hanno studiato a tavolino per fare emergere un'immagine importante dell'Associazione Libera.
In che senso?
Mi è sembrato più un film su Libera che su Lea. Io non sono stata mai contattata, eppure ero l'unica a poter dare spiegazioni più precise di Lea, a me lei ha sempre raccontato tutto, dal tentato rapimento alla situazione che si era creata con Cosco. E stato tutto poco veritiero: ad esempio, dopo la scomparsa di Lea, Denise è stata per sei mesi a casa mia, non da mia mamma. Pur di non nominarmi hanno cambiato la storia. E quando Lea uscì dal programma di protezione, siamo andati io e mio marito a Campobasso in macchina per prendere lei e Denise, non sono tornate in treno. E poi c'è stata una scena che mi ha dato particolarmente fastidio... 

Quale?
La scena di Carlo Cosco a casa di mia madre, che da dei soldi a mamma, una cosa mai successa, lui non è mai entrato in casa di mia madre, lei non lo voleva vedere proprio, quando capitava di vederlo, addirittura cambiava strada. Le dico che probabilmente farò anche una denuncia su questa cosa, sto valutando con il mio avvocato.
Marisa, ma perché ha tutto questo risentimento nei confronti di Libera e Don Ciotti?
E' nato tutto dai funerali di mia sorella, ai quali io non sono stato invitata, è stata esclusa la mia famiglia. Eravamo andati a Milano dieci persone, quando mi sono presentata un collaboratore di Don Ciotti mi ha detto che si stava preparando per la Messa e che quindi mi avrebbe ricevuta dopo. Sono stata anche esclusa dietro le transenne, come se fossi una curiosa qualunque, non la sorella di Lea. Poi quando ho sentito, durante l'omelia, Don Ciotti che elogiava Carmine Venturino (il pentito che ha partecipato alla sopressione del corpo di Lea e che ha permesso di trovarne i resti, ndr) me ne sono andata, non potevo restare. E' vero che si è pentito, ma è sempre la persona che ha fatto a pezzi e ha bruciato il corpo di mia sorella. E poi lui si è pentito solo dopo la condanna, per ottenere uno sconto di pena. Poteva anche pentirsi prima. Dopo la morte di mia madre, pochi mesi prima, io ero l'unica rimasta della famiglia di Lea. Eppure ho saputo solo da internet dei funerali a Milano. Che poi anche in quello, hanno deciso altri per lei, alcuni hanno deciso quando doveva morire, altri invece dove farle il funerale e seppellerila. Perchè Lea voleva essere sepolta a Bergamo. Qualche giorno prima della sua morte, aveva mandato un messaggio ad una delle suore che l'avevano accolta a Bergamo, dicendole: “Se mi succede qualcosa, fammi seppellire a Bergamo” Perchè negarle quest'ultima volontà? Perché seppellirla a Milano? 

Ma lei Don Ciotti lo ha sentito qualche volta?
Mai, non mi ha mai cercato, anche dopo i funerali, anche dopo aver letto i miei sfoghi sui giornali, non mi ha mai cercato, anche per un chiarimento. Piuttosto, ogni volta che parlavo in pubblico contro Don Ciotti o contro Libera, saltavano gli incontri con Denise. E' successo per tre volte.
Da quanto tempo non vede Denise?
Tre anni a febbraio. Non l'ho mai vista dopo i funerali. Ho solo ricevuto una sua lettera in cui mi diceva che non voleva avere più niente a che fare con la famiglia della madre, ma per me non veritiera, quella non era la scrittura di Denise. Come vede ho le mie buone ragioni per avercela con Don Ciotti e con tutta l'organizzazione..."

domenica 15 novembre 2015

LA MERAVIGLIA DELLA MADONNA DELLA GROTTA DI BOMBILE

di Gianfrancesco Solferino
    Quando Gianfrancesco  qualche tempo fa mi mandò questo stupendo pezzo sulla Madonna di Bombile, grondante commozione e sapienza mariana, oltre che spasmodica cura critica  e artistica, mi pregò di non pubblicarlo subito  sul blog per... questioni editoriali.  Ma non erano tali o soltanto tali. Non era forse  maturo il tempo che egli si era dato , che aveva cercato, scavato, rovistato per rivisitare ancora una volta la superba tradizione mariana che emerge in queste righe scritte con l'inchiostro dell'anima e preparate in innumerevoli pellegrinaggi minimali ai luoghi dell'Infinito di cui è costellata la Locride nella sua sacralità senza tempo.
   Se non rischiassi di  offuscare  l'armonia magnifica in cui si immergerà chi vorrà leggere questa pagina, potrei qui scrivere molte altre cose su questo brano di grande memoria  e  su questo autore e poeta insuperato e forse insuperabile nella critica d'arte sacra  in Calabria, e non solo in Calabria, ma è un  delitto che mi guardo bene persino dal tentare..Grazie, Gianfrancesco! Grazie anche a nome dui chi leggerà e si fermerà a contemplare ciò che irrimediabilmente questo tempo malato e l'ottusità di tanti fra noi vorrebbe  cancellare  per sempre. (Bruno Demasi)
    
Immaculatae
semper Virgini
Dei Genetrici Mariae
per Christum praeservatae
per Franciscum defensae
humillimus labor
   dicatus

   
«E quant' è bella 'sta divina Matri,  mirati com' aspetta li divoti...» 

L'intuizione del privilegio mariano dell'immacolato Concepimento  e i riflessi della devozione popolare 
nella Madonna della Grotta di Bombile, mirabile artificio di Antonello Gagini.  
 


«E quant' è bella 'sta divina Matri
mirati com' aspetta li divoti.
Illa pe' fari grazzi è fatta apposta
e d'ogni guerra la paci s'aggiusta
e di li ciechi si duna la vista
li peccaturi ca li fa cuntriti.
E chistu è dunu di chista gran Matri 
sa' benidittu Diu e chi 'ndi la fici
illa fu fatta di lu Ternu Patri
'nterra la misi pe' gran Maestati
E 'ssi bellizzi vui, gioia, ch' aviti
non fu lu mastru chi vi l'ha formati
ca fu abbracciu di Diu chi s' è mentutu
pe' maravigghja di cu' v' ha criatu...»[1]

    La plurisecolare confidenza che lega il popolo di questo estremo lembo di Calabria al sembiante marmoreo della Signora che "abitava" la Grotta di Bombile è una tra le testimonianze più antiche della pietà mariana locale, patrimonio di fede, di storia e di arte che ancor oggi resiste in virtù di quella viscerale affezione che i fedeli nutrono nei confronti dell'immagine della Vergine. Una devozione che ha metabolizzato, anche sul piano affettivo, la perdita - dieci anni or sono - della suggestiva cornice ambientale ove la statua albergava, la grotta scavata ai primordi del Cinquecento dagli eremiti Zumpaniani, che, senz'ombra di dubbio, ha rappresentato una peculiare attrattiva agli occhi dei visitatori di tutti i tempi.
    L'impervia bellezza che caratterizza i fianchi tufacei delle colline ardoresi ha contribuito a radicare nell'immaginario collettivo il fascino verso il piccolo Santuario rupestre, luogo quasi inaccessibile e assolato, immerso in una dimensione "altra", ascetica e dunque ben lungi dalla quotidianità, ma che pur tuttavia ben esprimeva le molteplici, contrastanti realtà della nostra terra. L'asprezza del paesaggio circostante, impenetrabile e discosto dalle assolate marine, ideale ricettacolo per le popolazioni rivierasche storicamente vessate dalle incursioni nemiche, si poneva al tempo stesso in contrasto con la percezione di accoglienza offerta dall'antro naturale nel quale i pellegrini venivano confortati dalle soavi fattezze dell'immagine divina. La distruzione del Santuario ha materialmente interrotto quel rapporto che, per secoli, i fedeli hanno instaurato con la dimensione catartica della Grotta di Bombile, giacché in essa riconoscevano la meta di un cammino di penitenza spirituale, oltre che fisica, un "accesso" simbolico alle viscere della terra dimorate dalla Madre di Dio, e dunque un luogo privilegiato dove essere abbracciati e riconciliati con il divino. Non a caso, l'ultimo tratto del pellegrinaggio imponeva la discesa di una ripida scalinata, formata da 141 gradini ricavati nel tufo, che per devozione i fedeli percorrevano in ginocchio molto spesso trascinandosi carponi fino ai piedi dell'altare. Qui avveniva l'atteso incontro con il volto di Nostra Signora, la cui diafana bellezza era rischiarata, nella penombra raccolta dell'antro, dalla luce tremolante dei ceri e dalle lampade ad olio che le ardevano perpetuamente innanzi. 

    La visione del simulacro era in grado di sciogliere la più pertinace ritrosia, di ammaliare e al tempo stesso "ferire" lo sguardo dei fedeli, di sollecitare materialmente un intimo e accorato dialogo intessuto nella mai stanca ripetitività dell'incontro, espresso attraverso gesti e parole di ancestrale memoria. Si dispiegava così, spontanea e incontenibile un'onda di forte emotività che dalla brulicante massa dei pellegrini si infrangeva sull'immota maestà marmorea e, per una misteriosa osmosi, vi faceva ritorno attraverso un senso di rassicurazione e di tenerezza riverberato dalla bonomia del volto.
    Ecco l'ubi consistam, ossia il senso più recondito del canto da noi utilizzato come titolo della presente riflessione, un verso nel quale anche l'inanimata stanzialità dell'opera d'arte, riletta attraverso i filtri della pietà popolare, gode di una vitalità divina ed è capace di interagire con i fedeli, addirittura "aspettando" e quindi accogliendo i devoti nella Grotta. La spontaneità del linguaggio vernacolare, dai toni apparentemente trasognati e fanciulleschi, affronta con inaspettata profondità i molteplici vincoli relazionali che legano il popolo al Trascendente: lo fa ricapitolando la vastità dei drammi della realtà umana, il peccato in primis, le malattie e i disastri naturali - soltanto per citarne alcuni - ovvero quei dinamismi dell'umana esperienza dinanzi alla cui imponderabilità null'altro si può implorare se non la misericordia, il perdono, l'accettazione.
    Per di più, il canto sacro dialettale è depositario della storia, spesso velata dai toni leggendari, dell'epos fondativo dei luoghi di culto, dei fenomeni soprannaturali più eclatanti e, non in ultimo, del ruolo determinante delle immagini sacre, che costituiscono il perno iconico e devozionale intorno al quale ruota l'interesse dei fedeli, oltre che rappresentare, come ben espresso nel nostro caso, un segno provvidenziale della Misericordia divina. La bellezza ineffabile della statua del Gagini, secondo l'autore dei versi ancora oggi in uso nel repertorio dialettale di Bombile, è espressione intellegibile della Trascendenza, una forma tridimensionale del divino che rende viva e interagente la forma scultorea così da scioglierne la fredda monumentalità e fare del marmo una materia dinamica. In virtù del potere taumaturgico "insito" nella statua - così come dice il canto - ogni grazia viene qui accordata, sia essa fisica o spirituale, personale o comunitaria, giacché la Vergine Maria si degna di manifestarsi nella sua «Maestati», nel ruolo cioè di Omnipotentia supplex, per usare le straordinarie parole di San Bernardo, che tutto può dinanzi a Dio.
    La statua marmorea, preziosa ed elegante nelle sue trasparenze alabastrine, diventa immagine paradigmatica della Vergine, depositaria di un munus che non è solo effingendi ma anche cum-subsistendi tant'è che nell'intendimento del poeta la bellezza esteriore del simulacro non è da rapportarsi solo all'abilità tecnica dell'artefice ma «all'abbracciu di Diu», ossia alla mano del Creatore, che ha fatto della Vergine Maria una «maravigghja», metaforicamente e artisticamente parlando. Ciò pure in considerazione di un più antico topos letterario secondo cui la statua marmorea, commissionata da un non ben identificato mercante, sarebbe stata completata nella bottega dell'artista da una mano angelica, se non del tutto da quella di Dio, «pe' maravigghia di cu v' ha criatu». 

    Ma, a tal proposito, ci sembra quanto mai importante sottolineare che il potere taumaturgico di cui ab origine è stata insignita la statua della Grotta, si è materialmente concretizzato nello splendore soprannaturale di cui è circonfusa la scultura, splendore che senz'ombra di dubbio - a detta di chi ha interpretato il comune sentire attraverso il canto - dev'essere restituito al sommo Demiurgo, l'unico Artista capace di concepire un capolavoro di tal fatta qual è la Vergine Maria, creatura perfetta tanto nella sua realtà storica di Madre di Dio quanto in quella artistica di scultura. E' evidente che quando il popolo si appropria della dimensione iconica dell'immagine sacra, conferendole un'identità quasi "idolatrica" nel suo rapporto con l'Archetipo, "costringe" all'interazione psicologica ed emotiva anche l'immota imperturbabilità del manufatto vulnerandola nella sua più scontata astrazione formale, per farla entrare compiutamente nell'hic et nunc dell'azione cultuale. Una consustanzialità, quella tra il sacrum e il simulacrum, oggi inconcepibile ma che allora trovava giustificazione nello sforzo di insegnare, anche grazie al canto vernacolare, concetti trascendenti rendendoli semplici, comprensibili, quanto più aderenti all'osservanza della dottrina cattolica.
    L'apparente iconolatria che alberga tra le pieghe della pietà popolare rappresenta, sotto un profilo prettamente liturgico e al tempo stesso antropologico, il risultato di un'evoluzione complessa che trae le sue origini da un rapporto modificato tra l'immagine sacra e i fedeli. Non è un mistero che il ruolo catechetico e parimenti politico dell'arte sacra sia stato introdotto anche in Calabria già agli albori della dominazione bizantina, durante la cui lunga e travagliata soggezione l'uso delle immagini sacre e delle rappresentazioni pittoriche è stato veicolato come unico, necessario strumento di inculturazione alla fede per le masse. L'azione cultuale riservata in particolare alle icone, oltre che ai grandi cicli ad affresco per i quali vigeva l'impiego di schemi collaudati nel significato teologico oltre che narrativo, rappresentava dopo la celebrazione liturgica l'espressione più alta della fede, giacché come diceva San Basilio Magno «l’onore dell’immagine si riversa sul prototipo»[2].
    Nel messaggio figurativo, tuttavia, è possibile cogliere inaspettate sfumature politiche atte a rimarcare anche attraverso la composizione teologico-gerarchica dei personaggi sacri il centralismo del potere bizantino, efferato nel gettito fiscale imposto al di là del Bosforo ma pressoché assente nella gestione militare dei propri domini che, come quello bruzio, si ritrovarono costantemente indifesi, oltre che in una drammatica condizione di indigenza e di arretratezza culturale. Gli esiti di questa complessa dinamica storico-politica ebbero riflessi particolarmente significativi sul territorio calabrese, in modo del tutto singolare su alcune aree rimaste culturalmente e spiritualmente legate a Costantinopoli anche dopo la conquista normanna, come la Diocesi di Gerace, cuore della Locride, che conservò il rito greco-ortodosso fino al 1480[3], anno della latinizzazione imposta da Sisto IV. L'atto quasi "coercitivo" con il quale i fedeli furono costretti ad abbandonare il patrimonio figurativo bizantino passando dalla bidimensionalità delle icone alla tridimensionalità della scultura e, dunque, ad un diverso uso liturgico, concettuale e quindi anche relazionale dell'eikon - sostituzione che è già stata paragonata per certi versi ad un'incruenta forma di neo-iconoclastia in pieno evo moderno[4] - ebbe tra l'altro come singolare esito un importante implemento di opere marmoree che proprio sul fare del XVI secolo presero a soppiantare in gran copia le opere più antiche nelle chiese della Provincia reggina, così come in quelle di gran parte della Regione. Un processo veicolato molto spesso dagli Ordini mendicanti mercé il sostegno della committenza altolocata in grado di sostenere il consistente onere economico dei manufatti marmorei. E non deve apparire una semplice coincidenza se al processo di latinizzazione "artistica" della Diocesi geracese abbia contribuito anche Antonello Gagini attraverso un capolavoro di non comune prestanza, nel quale albergano sostanziali novità iconologiche. Novità che sono l'oggetto della nostra riflessione. 

    Non è in realtà intendimento del presente saggio aggiungere ulteriori chiarimenti sulla vicenda attributiva del simulacro di Bombile, men che meno puntualizzare su quanto già argutamente avanzato alcuni anni or sono anche in merito all'opera del Gagini in Calabria[5]. Rimane piuttosto un nostro convincimento l'esistenza di una peculiare verve comunicativa, profondamente radicata nella produzione gaginiana, che sostanzia l'intuizione del maestro specie nella redazione dei simulacri mariani. La purezza evanescente dei volti del Bambino Gesù e della Madre, torniti con altrettanta pietà dal Panormita nella lattiginosa massa di marmo, manifesta severità e compunzione, magnificenza e al tempo stesso quotidiana bellezza, quasi come se la fissità di quegli sguardi, a stento disegnati dalle policromie superstiti, non fossero stati pensati per bloccare nel tempo il ritratto di una regalità imperturbabile ma piuttosto il sorriso accondiscendente di una creatura comune. Anche lo sguardo, segnato dalle pupille appena accennate, appare vetrificato - al pari delle ceramiche robiane - nell'istante di una immutata predisposizione, quella dell'ascolto.
    In effetti i fedeli, soffermandosi dinanzi alla maestà del Gagini, rimangono sopraffatti da questo moto perpetuo ma pur sempre cristallizzato, dalla voce sottile taciuta nel marmo, dalla tenerezza di uno sguardo che sa intercettare quello dei figli, ne scruta interiormente l'affanno, ne scioglie senza difficoltà le reticenze. Il popolo, che è primo, immediato destinatario di questi capolavori, continua attraverso i secoli a percepire il significato, a interiorizzarne il messaggio. Con confidenza filiale si è accostato e continua ad accostarsi alla "fredda" maestosità di questo blocco alabastrino: la materia, la forma, la nobiltà dei panneggi, l'involversi monumentale delle masse lo diletta ma non lo carpisce. Senza nulla togliere alla grandiosità dell'effetto complessivo e alla grazia sovrumana che promana dalla scultura, il cuore dei semplici attende di essere trafitto dallo sguardo della Madre, di essere rassicurato nella solerte attesa, lì, nell'antro del santuario. E quando l'attesa si scioglie e le mani supplichevoli si posano sui piedi calzati della Vergine, sui lembi originariamente cerulei del manto, anche l'alabastro diventa materia viva, le labbra disegnate dal Gagini si dischiudono per sussurrare parole mai dette che solo gli animi sensibili possono intercettare. E il Bimbo che sembra intento ad accarezzare il pennuto con la mano sinistra, riprende la sua dimensione reale, teologicamente più calzante e ortodossa, quella, cioè, del Cristo Redentore, adagiato sul braccio della madre perché Ella lo manifesti al mondo, e come Odegitria lo indichi ai redenti. 

    Il misticismo che affiora in modo sottile ma evidente dall'analisi dell'opera è in realtà una componente fondamentale nella produzione gaginiana e, più d'ogni altro riferimento, tende a manifestare nello scultore Panormita una singolare attenzione nel trattamento dell'iconografia mariana. Si delinea costante, infatti, nel suo catalogo un carattere inconfondibile, o meglio, un particolare interesse nell'approfondimento delle molteplici sfumature dell'espressività mariana, esternata attraverso i moti dell'animo e nella modulazione di semplici gesti che tendono a restituire concretezza all'umanità della Vergine e del Bambino. Ciò in aperto contrasto con la visione più distaccata e idealizzata delle divine maternità rinascimentali, spesso ispirate ad una grazia arcadica distolta dal tempo, dallo spazio e, in qualche modo, distante dai fruitori. Non è un mistero, infatti, che la produzione artistica quattrocentesca sia venata, se non del tutto condizionata, dai riflessi della cultura neoplatonica, a discapito di una spiritualità genuina e accondiscendente verso le esigenze cultuali delle masse sempre più isolate da un linguaggio figurativo aulico, talvolta del tutto criptico. Tale riflessione appare evidente se accostiamo la scultura di Bombile con il capolavoro fiorentino della Madonna delle Neve di Benedetto da Maiano, celebre altorilievo considerato come l'archetipo al quale Gagini si ispirò costantemente in gran parte della sua produzione[6].
    Antonello, che probabilmente attese in veste di allievo alla redazione del dossale commissionato da Marino Correale per la Chiesa dei Celestini di Terranova Sappo Minulio, non si limitò a trarre dal disegno del maestro un'ispirazione da ripetere ad libitum ma volle interpretare criticamente l'assunto maianesco sviluppando una visione personale, in qualche modo innovativa sul tema mariano, e più in generale sul repertorio della storia sacra. Durante gli anni della formazione fiorentina presso la bottega di Benedetto, segnati dal confronto con i grandi temi culturali che attraversarono la capitale medicea e che di lì a poco furono sovrastati dal nascente astro michelangiolesco, Gagini ebbe modo di perfezionarsi non soltanto sotto il profilo tecnico affinando la sua innata versatilità in scultura ma anche di conoscere i nuovi fermenti teologici e i dettami culturali e iconografici che giungevano dalla corte di Francesco della Rovere, salito al soglio pontificio col titolo di Sisto IV.
    Per quanto determinante possa essere stata la "folgorazione maianesca" sull'impostazione linguistica del giovane Gagini, nulla vieta di considerare a latere la spiccata inclinazione dello Scultore panormita verso un pietismo elegantemente semplice e devoto, genuinamente popolare, concreto pur se rivestito da quegli slanci ricercati e magniloquenti dello stile contemporaneo. Forse è proprio nella summa della poetica gaginiana che per la prima volta sul fare del Cinquecento è pace fatta tra le più ricercate formule della maturità rinascimentale e una profonda percezione della pietas popolare, il cui spessore innovativo e consapevole porta - a nostro avviso - i segni indelebili dell'apostolato francescano. Nella ricerca di una sua personale visione del sacro, Gagini sembra voler impolpare la bellezza epidermica dei maestri contemporanei con una muscolatura teologicamente compatta, vibrante di tensione emotiva e di consapevolezza del Soprannaturale, prossima a quanto lo stesso papa Della Rovere impone nella gestazione del primigenio cantiere della Cappella Sistina, la cui originaria dedicazione, nominale e iconografica, era intitolata alla Vergine Assunta. Ben noti sono gli sforzi compiuti dal Pontefice ligure, illustre teologo dell'ordine Minore, per imporre malgrado i contrasti del tempo, la festa dell'Immacolata Concezione della Vergine Maria, il cui dogma, sebbene ancora lungi dall'essere proclamato, viene però presentato alla Chiesa romana sotto forma di devozione teologicamente dimostrata, così come teorizzato nel XIV secolo dal Beato Giovanni Duns Scoto, nonché dalle innumerevoli schiere dell'Ordine serafico che ne avevano sposato la causa. 

    Il pensiero di Francesco d'Assisi, la cui metanoia spirituale, culturale e sociale, sovvertendo ogni assunto, fu la scaturigine del Rinascimento italiano[7], sembra rivelarsi in maniera ugualmente efficace anche nella gestazione di alcuni temi iconografici adottati da Antonello Gagini, temi la cui novità, sebbene finora passata inosservata, non potrebbe spiegarsi altrimenti se non attraverso un'adesione convinta all'intuizione teologica dell'Assisiate. La visione cristocentrica del Serafico, che restituisce preminenza dottrinale all'incarnazione di Cristo nel tempo e nella storia, implica nuovi spunti di riflessione sulla dimensione creaturale del Figlio di Dio, sull'umanità rinnovata dal suo avvento, sul mistero della kenosi, ossia lo "svuotamento" del Logos divino[8], che in totale obbedienza al Padre si consegna volontariamente alla morte come supremo atto oblativo per la salvezza dell'uomo.
    Nella realizzazione di alcuni esemplari di tabernacoli eucaristici, lo Scultore, squinternando quegli schemi convenzionali oramai collaudati, impone l'uso di una nuova partitura strutturale e iconografica il cui intento catechetico è anteposto a qualsiasi altra esigenza rappresentativa o più semplicemente estetica. In questa priorità "narrativa" delle scene, Gagini affronta con estrema chiarezza i temi sacri stemperando i toni aulici mutuati negli anni della formazione toscana, utilizzando un pittoricismo fresco e al tempo stesso quasi popolare, venato di sentimenti e di emozioni che riportano il ductus scultoreo ad una spontaneità quasi innata. Il Sacro viene "calato" nuovamente nella realtà umana, la tridimensionalità delle forme torna a battere di vita e soprattutto a colorarsi, non cromaticamente ma emotivamente, attraverso l'impiego di una gamma di sfumature affettive che sono ben lungi dalla misurata bellezza impressa nel marmo da Benedetto da Maiano. Così facendo, Antonello trasforma i suoi rilievi in trompe l'oeil attraverso i quali permette all'osservatore di compenetrarsi spiritualmente nella narrazione figurativa, rivitalizzando la finitudine materica e, altresì, stemperando psicologicamente quel carattere aulico, aristocratico della scultura rinascimentale, meno accessibile all'intelligibilità delle masse. In questo processo di semplificazione teologico-figurativa, che non può prescindere da una metabolizzazione personale del messaggio evangelico, ci sembra di rintracciare le ragioni del successo raggiunto dal verbo gaginiano. 

    Nel retablo di Santa Cita a Palermo[9], molto simile alla redazione di Roccella Valdemone[10], Antonello pone in primo piano la scena della Natività di Cristo: come spesso accade nelle rappresentazioni pittoriche coeve, il Bambino Gesù è deposto dalla Madre per terra, quasi sull'orlo del piano prospettico, in asse con la porticina del tabernacolo che si trova nella predella sottostante. L'impianto non è casuale, giacché l'Artista ha scelto di porre in correlazione iconografica e teologica l'incarnazione di Cristo con la custodia delle Specie eucaristiche dimostrando anche figurativamente il rapporto causa-effetto della transustanziazione adombrato dal più celebre versetto biblico di Geremia, poi ripreso nel Vangelo di Giovanni: «Verbum caro factum est et habitavit in nobis» (Gv, 1, 14). Con questo escamotage, il Panormita sottolinea come la realtà dell'incarnazione storica di Cristo si sia perpetuata nella sacre specie eucaristiche attraverso le quali Egli è realmente presente con il suo corpo ed il suo sangue. Ancor più efficace è l'azzardo teologico del Tabernacolo del Museo di Messina[11], sviluppato verticalmente su quattro registri scanditi non da elementi architettonici ma dalle sole figure angeliche. Nella fascia centrale si staglia la triplice rappresentazione cristologica: in alto, il Figlio di Dio si manifesta come Pantocratore, scorciato di tre quarti mentre giganteggia benedicente sulla scena; al centro appare nell'immagine trasfigurata della resurrezione, mentre gli angeli ostendono i simboli della passione; in basso il Salvatore appare ridotto al solo volto, iscritto nel clipeo che sovrasta l'elegantissimo tempietto eucaristico, appena leggibile nell'evanescente trattamento scultoreo dello stiacciato. Ci troviamo dinanzi ad una traslazione figurativa del "Trisaghion" incentrata sulla triplice azione di Cristo, seconda Persona della Trinità e, per questo, Creatore, Redentore e Pane eucaristico. Altrettanto efficace è l'iconografia nel tabernacolo di Ciminna[12] nel quale il Vir dolorum, affiancato dall'Addolorata e da Giovanni, lascia cadere pietosamente le sue mani piagate intorno alla custodia eucaristica, posta nel registro inferiore, mentre sulla predella scorre a caratteri cubitali il celebre verso di Tommaso d'Aquino «Tantum ergo Sacramentum».
    Il tema dell'incarnazione ritorna bellamente anche nel Tabernacolo di Tusa[13], che Kruft attribuisce alla bottega di Antonello ma nel quale ci sembra quanto mai vibrante l'intuizione primigenia del maestro: la custodia, racchiusa nel comparto centrale, è affiancata ai lati dalla raffigurazione dell'Angelo annunziante e della Vergine annunziata, accostamento iconografico che ribadisce teologicamente il concepimento di Cristo e la sua reale presenza nel mondo attraverso l'Eucarestia. 

    In quest'ottica assume un altro aspetto anche la rappresentazione della Madre di Dio, il cui ruolo corredentivo nell'economia della Salvezza, si traduce in molteplici spunti di riflessione che pongono l'accento sull'Immacolata Concezione della Vergine Maria, per la quale Antonello non sembra nascondere una singolare devozione. Benché siano ancora lontane le prime rappresentazioni iconografiche del Privilegio mariano, intese nella citazione dei simboli apocalittici - in particolar modo il serpente diabolico con la mela del peccato e le falci della luna - Gagini adombra efficacemente in numerose opere il senso più profondo dell'Immacolata, o meglio, spiega nella rappresentazione figurativa il rapporto causa-effetto che teologicamente motiva la preservazione dal peccato originale della Madre di Dio fin dal suo concepimento. La scaturigine di questa intuizione, così significativa anche sotto il profilo espressivo, risiede nell'Oratio propria della festività mariana, istituita da Sisto IV l'8 dicembre 1480 e da questi appositamente commissionata al canonico veronese Leonardo de Nogarolis: «Deus qui per Immaculatam Virginis Conceptionem, dignum Filio tuo abitaculo preparasti, quaesumus: ut quae ex morte eiusdem Filii tui praevisa, eam ab omni labe praeservasti...»[14]. Maria Santissima, pensata da Dio per diventare «degna abitazione» del Figlio Unigenito, «in previsione della morte di lui» è stata «preservata da ogni colpa». Nella statua catanzarese della Vergine delle Grazie, che Antonello scolpì per i Minori Osservanti nel 1504[15], la mestizia inquieta che avvolge lo splendido ovale della Madre stride con l'ilare espressione del Bimbo, quasi inconsapevole nel gesto di ricevere dalle mani della Madre la mela. Infatti Maria porge al Figlio il simbolo del peccato originale che Cristo è venuto a mondare col sacrificio della croce. Il drammatico presagio della morte che sembra incombere sul volto rattristato e pensoso della Vergine, si riflette potentemente sulla compassata gestualità di tutto il corpo, irrigidendo anche l'orchestrazione dei volumi scultorei dei panneggi. Le ricercate sgualciture con le quali Antonello è aduso pronunciare gli effetti di ricercata naturalezza del suo modellato, si rastremano nella scultura catanzarese in semplici, taglienti masse di pieghe, che ricadono sulla base quasi a voler simulare un drappo inanimato, una prefigurazione del sudario di Cristo.
    Anche nella Vergine Annunziata di Bagaladi, il cui volto appare dolcemente rapito nell'estasi della scena, Antonello lascia trasparire la razionale risolutezza della fanciulla di Nazareth dinanzi al Nunzio angelico. La mano destra, sollevata verso l'alto e rivolta all'Angelo non sembra, infatti, manifestare il senso di un semplice saluto ma piuttosto di tradurre con estrema naturalezza il lecito quesito avanzato dalla Fanciulla nella narrazione evangelica: «Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco?» (Lc 1, 34-35).
    Per quanto importante e di indiscusso successo presso la committenza, la rappresentazione della Madonna col Bambino è comunque oggetto di meditazione da parte del Panormita il quale a motivo di ciò si è cimentato nella redazione di un vasto repertorio iconografico, ricco di opere tutte diverse tra loro, alcune invero meno riuscite, altre eccezionali per freschezza e singolare comunicatività. Ognuna di esse affronta un aspetto sempre nuovo della dimensione umana e divina della Vergine, sfumature psicologiche ed espressive che attraverso la regalità manifestano l'umiltà di Maria, sottolineando il ruolo unico ed irripetibile che è stata chiamata a svolgere come Madre di Dio. Il repertorio gaginiano spazia sui riferimenti più disparati provenienti dalla tradizione, passando dalla tenerezza materna del rilievo di Alcamo, dove la Vergine sfiora lo zigomo del Bambino in un gesto paragonabile ad una Eleusa bizantina, alla compassata immagine della Vergine allattante di Vibo Valentia, o della Chiesa domenicana di Catania[16], fino ai vertici raggiunti nella spettacolare redazione del Duomo di Siracusa[17], ove la divina maternità è sopraffatta dalla delicata fisionomia dei volti, prossimi alla freschezza di un ritratto dal vero. Molteplici sono, poi, i dialoghi figurati tra Cristo e la Madre, allusivi al ruolo di intercessione che la Vergine svolge presso il Figlio in favore dell'uomo, come nella statua conservata a Santa Lucia del Mela[18], dove la mano destra della Madonna sembra accogliere e contemporaneamente presentare al Bambino, teneramente abbracciato, le implorazioni dei fedeli radunati ai suoi piedi.

    Antonello Gagini, assecondando una personale, devotissima interpretazione della Madre di Dio, si è fatto cantore della pietà popolare, partecipando consapevolmente alla codificazione di linguaggio espressivo in grado di cogliere le esigenze relazionali dei fedeli. Scorgiamo nella profondità del suo sentire l'esigenza, o sarebbe più corretto dire, l'anelito di ricongiungere attraverso l'ingegno demiurgico dello scalpello la bellezza del Creatore alla bellezza "sciupata" delle creature, quasi a voler dimostrare nella perfezione iconica del sacro la nostalgia verso quella divina Perfezione, che del creato fece un capolavoro unico ed irripetibile. Il respiro di tanta sensibilità ha impresso un sigillo spirituale che in tutto è debitore al Francescanesimo. Forse Antonello fu seguace del Poverello d'Assisi tra le foltissime schiere dell'Ordine Secolare? Si lasciò anch'egli trascinare da quell'amore sconfinato verso il Cristo, povero e crocifisso, che cambiò la vita di Francesco e che, innegabilmente, ritorna anche nella sua produzione scultorea attraverso queste pagine di evangelica bellezza modellata nel marmo? Un'ipotesi non del tutto peregrina, ma che deve essere provata.
    Ben altra verità, fino a prova contraria, inoppugnabile è il successo riscosso dalle sue opere. Un successo che superando il limite della semplice approvazione estetica e formale, ha coinvolto - e continua a coinvolgere - l'attenzione del popolo azzerandone le differenze sociali e culturali. Il marmo, ne abbiamo avuta chiara dimostrazione, si è fatta materia viva e plasticamente adatta ad esprimere le sfumature emotive e psicologiche del Sacro. Al cospetto di capolavori senza tempo come la Madonna di Bombile, continua dunque a dispiegarsi il moto drammatico dell'animo umano e quella recondita, insopprimibile esigenza di contatto con Dio, che si fa presente nella realtà sensibile anche attraverso il sembiante accondiscendente e tenero di una maternità.
    Forse è per questo che ancor oggi i pellegrini, faticosamente giunti per mille strade al cospetto della statua del Gagini, cantano accoratamente:
«Quant'è bella la Madonna di la Grutta,
pe' dispenzari grazzi è fatta apposta.
Ped' ogni guerra la paci s'aggiusta la Santa Matri è l'Abbocata nosta»

[1] N. Femia, M. Furfaro (a cura di), Benedittu lu Signuri, Raccolta di canti popolari religiosi, Marina di Gioiosa Ionica 2000, vol. II, p. 517.
[2] Basilio di Cesarea di Cappadocia detto il Grande, De Spiritu sancto, 18, PG, 32, 149 c.
[3] E. D'Agostino, Da Locri a Gerace. Storia di una diocesi della calabria bizantina dalle origini al 1481, Soveria Mannelli 2005, p. 261 e ss.
[4] D. Castrizio, Un “ritorno” in Calabria del mondo greco-bizantino - Una storia dimenticata, in G. Passarelli, Μνήμη. Il ricordo. Le icone del Piccolo Museo San Paolo di Reggio Calabria, Reggio Calabria 2002; pp. 11-12.
[5] F. Caglioti, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in S. Valtieri (a cura di), Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, Roma 2002, pp. 977-1042.
[6] Ivi, p. 999 e ss.
[7] H. Thode, Francesco d'Assisi e le origini dell'Arte del Rinascimento in Italia, Roma 1993, pp. 61-67.
[8] H. Vorgrimler, Nuovo dizionario teologico, Bologna 2004, p. 370
[9] H. W. Kruft, Antonello Gagini und seine söne, München 1980, p. 408.
[10] Ivi, p. 413-414.
[11] Ivi, p. 380-381
[12] Ivi, p. 374.
[13] Ivi, p. 422.
[14] P. Maranesi, Gli sviluppi della dottrina sull'Immacolata Concezione nei secoli XII-XV, in "Italia Francescana", 80, 2005, pp. 97-122, specie p. 119.
[15] F. Caglioti, cit., p. 999.
[16] H. W. Kruft, cit., p. 473.
[17] Ivi, p. 418.
[18] Ivi, p. 415.

martedì 10 novembre 2015

La penna del Greco: IL MARE E LA QUISTIONI MERIDIONALE

                                              di Nino Greco
    Non so se e  quanto se la prendano Gramsci, Fortunato e Salvemini quando affermo  che dopo di loro il Meridionalismo è diventato il pantano delle oche nel quale ancora oggi sguazzano in molti per costruirsi l’alibi di un impegno politico e sociale inesistente e per farsi stanziare altri soldi. Un impegno tanto inesistente e balordo che persino il Fascismo peggiore , da Mussolini, alla vecchia e nuova DC, a Berlusconi, fino ai Napolitano , Monti e Renzi, ogni tanto ha spolverato e spolvera la vecchissima tarantella figurata del meridionalismo sbracato solo per fare dispetto atroce agli Italici collocati da Napoli in giù e rompere loro …la testa di chiacchiere e menzogne. Nulla a che vedere insomma con la storia narrata dal Greco in questo fortunatissimo racconto, che in questi giorni vede la seconda ristampa. Storia di gente semplice, ma che sa confrontarsi con il potere nella dimensione paesana e sovrapaesana, di gente che malgrado tutto, malgrado i paradossi, riesce a discernere la vera realtà sociale all’interno della filigrana di bugie , promesse e raggiri di cui erano maestri i politicanti di un tempo e i loro servi …(Bruno Demasi).
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- Si avvisa la popolazione che oggi dalle ore 16 alle ore 21 sarà sospesa l’erogazione dell’acqua - annunciò il banditore con altoparlante, percorrendo le vie principali di Pretì.
- Mu vi cacciavanu i ‘ntrami! -[1] Strillò onna Serafina, rivolta all’automobile del banditore.
Non era ancora estate e il sindaco, con un’ordinanza, aveva provveduto già a razionare l’acqua.
Il getto di acqua che a stento si era ricavato con i lavori finanziati dalla lautissima mensa della Cassa per il Mezzogiorno, non era sufficiente a soddisfare i bisogni del piccolo comune aspromontano.
Nonostante le numerose sorgenti naturali di cui erano ricche le vicine montagne, il paese in estate pativa la sete. Gli abitanti erano ormai abituati a questa ricorrente angheria della stagione. Chi poteva riempiva tutti i commitati: vasche, catini, fiaschi e damigiane. Chi non faceva in tempo si accodava alla lunga fila che andava a formarsi nelle fontane pubbliche poste rispettivamente sulle strade dell’Ospedale e del Camposanto e alimentate dal cosiddetto camino vecchio[2] che, a differenza del nuovo impianto di approvvigionamento, continuava a dare acqua senza interruzioni.
Una deviazione della condotta portava l’acqua anche ai rubinetti della casa del sindaco. Pochi metri di tubazione allacciati al vecchio camino per evitare le lunghe code alle fontane alla prima cittadina che spesso, per sua bontà, apriva le porte del garage, dove aveva fatto installare un rubinetto, per far fare rifornimento ai vicini.
Il calvario iniziava con i primi caldi. Quando il fontaniere comunale si accorgeva che il livello del serbatoio scemava oltre il limite previsto, informava il sindaco il quale, puntualmente, emanava la solita e classica ordinanza di sospensione dell’erogazione dell’acqua. Solo la data cambiava, il resto era tale e quale all’anno precedente.
L’informazione però non giungeva a tutti: molti cittadini non avevano modo di prenderne visione, tanti altri non sapevano leggere e così si ricorreva al vecchio sistema del banditore. Automobile con amplificatore collegato alla batteria, fine dicitore, un pieno di benzina e via per le strade del paese. Il “passa parola” nei rioni completava l’informazione.
- Cummari caccianu l’acqua! - [3] era la voce corrente nei vicoli e - ndavivanu u nci caccianu l’occhi o sindacu e a cu u misi ja ssupra!- [4] era la tipica invettiva di risposta.
Qualcuno a quel sindaco aveva pur dato i voti per vincere le elezioni, ma quando si ripresentava il problema dell’acqua, sembrava che nessuno l’avesse votato; eppure, a ogni tornata elettorale, la Democrazia Cristiana faceva cappotto. Pieno di voti alle comunali, incetta alle politiche; percentuali elevate al di là di qualsiasi media nazionale; si arrivava oltre il 60%: un perenne plebiscito.
Le campagne elettorali per le comunali si caratterizzavano, oltre che per le sfide dei partiti, per le sfide all’interno degli stessi. La caccia alla preferenza era senza quartiere. Montagne di facsimili col numareju[5] entravano in tutte le case. 

Era importante disporsi in lista con dei numeri facili da scrivere. I preferiti erano: 1, 8,10, 18. Molti analfabeti prima delle elezioni venivano istruiti dai candidati a scrivere i numareji. Pagine di quaderni a quadretti e numeri da copiare. L’asta(1) , due piccoli cerchi uno sull’altro(8), un’asta e un cerchio(10), un’asta e due cerchi(18). La settimana che precedeva le elezioni era un via vai per appurare i progressi di scrittura e la memorizzazione del simbolo. Per molti era andare a scuola per la prima volta.
- Mina nda cruci! - [6] Suggerivano i democristiani
- A falci e u marteju! - [7] Dicevano i comunisti
- U focu, a fiamma! -[8]i nostalgici fascisti
- La croce è il simbolo della morte! - dicevano gli avversari DC.
- Falce e martello? Un futuro di lavori forzati, basta la falce del vostro lavoro - contro i comunisti.
- La fiamma vi brucia, è segno di distruzione - giù contro i fascisti.
Slogans diretti, duri e bugiardi, per suggestionare in qualche modo le sensibilità di uomini e donne di animo semplice. Gente che si ritrovava invasa la casa da notabili fino a qualche giorno prima indifferenti alle loro esistenze.
Si faceva leva su tutto. Soggezione autentica di fronte ad un avvocato o a un medico che scendeva nei più remoti tuguri pur di catturare un voto. Preti, medici condotti e avvocati: grandi elettori per comunali e politiche. Promesse di aiuto o sistemazione di un figlio: il bramato posto fisso.
Comune o Ospedale erano le mete, come se fossero fabbriche. I più ingenui pensavano che tra i tanti ci potesse stare anche un loro figlio. Un figlio impiegato con tutto ciò che ne derivava: benessere, rispetto e invidia. Sì, certo, anche l’invidia, qualcuno pensava che fosse un segno positivo avvertire l’invidia degli altri e che ciò fosse il parametro di misura del livello di emancipazione della propria famiglia.
Era il viaggio della fantasia. Pensieri senza filtri e voli pindarici. Ogni padre sognava il figlio impiegato: - Perché non dare un voto a una persona che aiuterà mio figlio? - Una forte e malcelata voglia di riscatto: - Mai la zappa a mio figlio, non deve fare la mia vita! - il desiderio dei tanti.
Era il più grande segno di speranza di un padre nell’immaginare così il futuro di un figlio, specialmente di chi aveva vissuto una vita marcata da fame e bisogni.
Quell’anno si votava per le politiche: l’agitazione e le contrapposizioni infiammavano la campagna elettorale. I notabili dei partiti e le segreterie locali, come sempre accadeva, si erano mobilitati a portare sui palchi eretti nelle piazze, uomini politici di chiara fama. La politica nazionale arrivava solo attraverso le loro voci e qualche manifesto che pochi leggevano. Anche a Pretì, cosi come nei piccoli comuni, le sfide si accendevano negli ultimi giorni.
- Cittadini! Questa sera, in piazza Umberto I, parlerà per il Movimento Sociale Italiano l’onorevole Raffaele Valentini, accorrete numerosi! -. Una voce gracchiante scosse quel muto, caldo e sonnolento pomeriggio di maggio.
Le note della canzone “Giovinezza” enfatizzavano e sottolineavano l’invito rivolto alla popolazione.
- Cumpari, sentistivu? - [9] Uscì allarmata Rosina a Pìnnara. - Caccianu l’acqua ? -[10]
- No cummari, chissa è ‘a machina di votazioni! - [11] precisò alzando gli occhi Cumpari Micheli che era seduto all’ombra sul muretto davanti casa sua.
- Chimmu votanu all’anchi allariu! -[12] imprecò ancora Rosina, non nascondendo il sollievo per il mancato pericolo di dover fare scorta di acqua.
- Eh nno, cara cummari, i votazioni su mportanti, ricordativi ca u guvernu simu nui! - .[13] Affermò con sicumera di uomo navigato. - Ieu vaiu e votu. E stavota votu pa cruci!-[14] proseguì.
Cumpari Micheli, ultrasettantenne in pensione, da qualche anno diceva che la Posta era il suo pedi ttrovaricu[15], la fonte del suo benessere. - Ponnu bramari quantu vonnu! - [16] diceva - ormai ‘a me barca è o sciuttu! - [17]
Era la sentinella del rione; con le sue fantasticherie appariva agli occhi dei vicini come chi ne sapeva una più del diavolo. Su ogni cosa aveva l’aneddoto pronto e in più aveva sempre a portata … di lingua la soluzione per tutti problemi. A proposito del problema dell’acqua, sosteneva che l’acqua stessa fosse l’origine di molte malattie perché arrugginiva le budella e i mal di pancia non erano altro che buffareji[18] che nuotavano nello stomaco.
 - Io mi curo col vino! L’acqua la lascio a voi ignoranti! - sentenziava goliardicamente. Come se l’acqua servisse solo per bere. Per questi motivi non si curava della mancanza dell’acqua, tanto a quella ci pensava sua moglie. 

Era anticonformista per eccellenza, ridanciano e sostenitore di tesi surreali, tanto da far credere a qualcuno che avesse studiato d’avvocato. In Piazzetta, quando si trovava al fresco della maestosa magnolia con gli altri amici, teneva banco; i suoi racconti erano sempre declamati con enfasi trascinante, al punto da far credere a molti dell’autenticità di quanto narrato.
Dopo una vita di stenti e difficoltà, da poco, con la pensione, si era trovato ad assaporare la tranquillità economica da sempre agognata. Tanti, come lui, erano visti come i “borghesi” dei poveri: vivevano con poco ma con la certezza di averlo a vita.
Le pensioni sociali stavano diventando la vera linfa, della gracile economia, dei piccoli comuni calabresi. Braccianti, contadini e operai ormai al tramonto della loro vita di lavoro vissuta con affanni, segnata da lavori improvvisati, che non avevano compiutamente maturato i diritti per la pensione, si trovarono l’inattesa fortuna di questo esiguo ma sicuro compenso mensile. Il successo economico nazionale aveva lambito di riflesso e con ritardo questo piccolo mondo che appariva sempre più lontano dal resto d’Italia. Distanza enorme, antica e inesorabile; eredità di quel Risorgimento ingeneroso e patrigno per la gente del Sud.
Erano pochi soldi, ma molti di più di quanto ne guadagnavano in un anno di lavoro. Cumpari Micheli era uno di loro. Con gli arretrati della pensione aveva comprato anche un televisore.
Fino a qualche anno prima, questo eccezionale apparecchio, era presente solo in poche case; le più disponibili aprivano le porte ai vicini sprovvisti ed erano tantissimi ne approfittavano per gustare i resoconti di grandi eventi o i varietà più popolari.
Quello di Cumpari Micheli era diventato il televisore del rione. Sua moglie, con maestria, aveva cucito una custodia di stoffa per preservarla dalla polvere come l’oggetto più pregiato di quella casa. La sera, prima di accenderlo, levava le tendine rosse: il sipario di un moderno teatro in casa.
Il suono del televisore era il richiamo per i ragazzi del quartiere. Si aspettava con ansietà l’inizio della “tv dei ragazzi” e quando i telefilm d’azione proponevano scene movimentate con scazzottature e spari, scattava l’allarme:
- Micheli, stutala ca ‘nda rrumpunu! -.[19] Balzava sua moglie che preoccupata si alzava repentinamente e la spegneva, tra il disappunto e le risate degli spettatori occasionali; tutti ordinatamente, accovacciati, come galline, sui gradini della scala che portava su in camera da letto.
- Aspettati cincu minuti, dopo chi si sciarrianu a iapru natra vota! -.[20] rassicurava tutti. E loro giù, a ridere ancora. Per lei era reale ciò che appariva dentro quel vetro grigio e convesso. Uno straordinario mobile nero dotato di tre pulsanti che s’illuminava, come per magia, al pigiare di uno di essi. Portava il mondo dentro casa: quelle immagini vive non potevano essere finzione.
L’aria dolce del mese di maggio conciliava le prime adunate vespertine di gruppetti di pensionati sulle panchine della Piazzetta. Quattro chiacchiere tra reduci dai lavori dei campi. Orti, sementi, potature e fatti antichi intrecciavano i loro discorsi, mentre restavano in oziosa contemplazione di ciò che accadeva in piazza e nel paese.
Giorni caldi, preludio di un’estate che avrebbe visto i figli di ritorno dalle fabbriche del Nord. Testimoni di un mondo che appariva, agli occhi di chi non aveva ancora visto il mare, il paradiso in terra. Le automobili fiammanti, comprate a rate, dicevano molto dei progressi economici, frutto di lavori quasi sempre pesanti. Ragazzi scappati dai campi e rifugiati in un mondo in pieno “boom” a cui stavano danno il meglio della loro vita, più di quanto quel mondo aveva dato e dava loro.
Sui muri della piazzetta campeggiavano grandi manifesti di ogni colore e di tutti i partiti, una cornice di mille pezze colorate, slogans indirizzati a chi, spesso, non ne coglieva il vero significato; al centro un palchetto di legno. 

Quella era la “Piazza Rossa”. Da quel pulpito tenevano i comizi il Partito Comunista e il Partito Socialista. Mastru Turi lo montava il giorno successivo la convocazione dei comizi e ne montava un altro in piazza grande, su cui sfilavano i candidati della DC e dell’MSI.
Piazza grande moderata, piazzetta progressista. Culle, entrambe, della socialità paesana: Piazza grande borghese, Piazzetta popolana. La prima ospitava la sede il “Circolo dei Signori”; e nei bar si giocava a scopone scientifico, a “popolo” e a “terziglio”. Nei bar della seconda si radunavano gli incalliti giocatori di tresette e briscola, non mancavano le sfide a scopa e capitava, spesso, qualche rota di patruni e sutta[21].
Piccoli assembramenti si formavano intorno al bigliardino e ai tavoli del bar di Don Rafeli, davanti alla Posta. In uno di questi, quotidianamente, Ntonuzzu e Rroccuzzu u Bagnarotu, si ritrovavano per la perenne sfida a scopa. Per ripararsi dal caldo seguivano l’ombra degli edifici spostando il tavolo, cosi come venivano seguiti dai ragazzi curiosi spettatori. Questi sostavano lì: muti, attenti alle giocate e agli accidenti; i più solenni li declamava Ntonuzzu. Quando faceva scopa, l’imprecazione era divertita e la più roboante era:
- Mannaja la Supercortemaggiore, la più potente benzina italiana! -. Tono da bestemmia e volto divertito. Di fronte Rroccuzzu, distaccato, non batteva ciglio. Ntonuzzu ripeteva lo slogan di una rèclame dell’Agip, faceva un gesto teatrale per sottolineare una giocata magistrale e per strappare risate al nugolo di ragazzi testimoni divertiti. Entrambi esperti giocatori di scopa, sapevano contare il “quarantotto” e il “pari e dispari”. Erano avvezzi a fare il mazzuni[22] e abili a eluderlo. Si conoscevano bene. Antagonisti nel gioco e concorrenti nel lavoro.
Entrambi titolari di posto fisso e dirimpettai al mercato comunale coperto, all’ingresso del quale gestivano due banchi di frutta e verdura. Postazioni privilegiate: a vendere ci pensavano le loro mogli. Loro si occupavano esclusivamente dell’approvvigionamento. Tutte le mattine si recavano con le “Lambrette” al mercato all’ingrosso e tornavano puntuali per le sette, orario di apertura del mercato e inizio del lavoro per le loro mogli. Scaricavano le cassette e andavano. Facevano ritorno dopo mezzogiorno, caricavano la merce non venduta e tornavano a casa.
Il pomeriggio era il tempo della sfida: “Partita, rivincita e bella”. Per ogni tornata in palio una birra. Ne bevevano una ciascuno e chi perdeva, pagava tutto.
Rroccuzzu, atteggiamento freddo nelle giocate, era di poche parole e quasi immobile sulla sedia di alluminio, nella quale entrava a stento. Capelli lunghi, castano chiaro, pettinati alla muscagna[23] e contenuti da una buona dose di olio; baffi chiari segnati, sotto le narici, dalla nicotina lasciata dal fumo emesso dal naso. Sigarette, “Esportazione” senza filtro, accese una dietro l’altra:
- A carta voli fumo! - [24] diceva e accendeva con rito scaramantico. Portava la sigaretta alla bocca con il ritmo della giocata, stretta tra le dita della mano destra, ingiallite dalla nicotina. Camicia sbottonata sul petto, laccio d’oro a maglia marina e una croce penzolante che poggiava sul ventre tracimante; duro collaudo per gli ultimi bottoni della camicia.
Ntonuzzo, muscagna corvina e ondulata, mostrava tratti somatici mediterranei, un fisico asciutto e voce imponente. Impazziva per il settebello. Faceva di tutto per accaparrarsi quel punto a ogni giocata e quando lo perdeva in malo modo, si lasciava andare:
- E chi ti fici a magheria u vai sempri ndi iju? - [25]
Oppure scaricava a raffica seriose e fantasiose invettive, geniali nei toni e nelle descrizioni, come:
- M ….a settima pinna i ll’ala sinistra du spiritu santu! -[26] oppure - M…a Santu Rroccu e u cagnoleju cu pani a vucca!- [27]
La prima: una delicata e parziale imprecazione, quasi in punta di piedi, alla settima piuma dell’ala sinistra della colomba, simbolo dello Spirito Santo. La seconda: l’immagine di San Rocco nella sua interezza narrata con dovizia di particolari. Non erano bestemmie sentite, era una sceneggiatura teatrale all’aperto.
Di tanto in tanto si affacciava Don Rafeli per raccogliere le chiamate[28] di birra. Don Rafeli in quell’incrocio viveva le sue giornate, dopo aver fatto per qualche tempo noleggiatore e riparatore di biciclette, aveva messo su il bar pasticceria con l’aiuto del fratello e ci lavorava insieme alla moglie. Nei giorni di paga delle pensioni trascorreva la mattinata in Posta. Molti pensionati erano analfabeti e per riscuotere il mandato occorreva apporre la firma di un testimone accanto al segno di croce del titolare di libretta[29]. Don Rafeli si offriva a fare da testimone, per chi lo richiedesse e per ogni firma incamerava 150 Lire.
Maggio, per il paese, era un rinascere; l’aria mite e i raggi caldi anticipavano le estati soleggiate. La collina calabra colma di ulivi secolari, faceva già sentire lo stridio delle prime cicale.
Sinuosi tornanti verso valle tra le ombre degli ulivi, poi un lungo rettifilo e sullo sfondo il mare. Campìe[30] e distese di erba da fieno pronta per essere mietuta e lasciata a essiccare col sole di giugno. Braccia forti e mani abili l’avrebbero torciuta e ammannata[31].
La statale collegava Pretì a Casilino. Il primo anticamera della macchia aspromontana, il secondo porta del mare. Nella mentalità degli abitanti di entrambi i paesi era nata e cresciuta, in modo istintivo, una convinta rivalità. 

I casilinesi chiamavano montanari[32] gli abitanti di Pretì e questi rispondevano chiamandoli pisciunari.[33] Non correva buon sangue tra le genti dei due paesi e i pochi chilometri di distanza non erano sufficienti per limitare i contatti. I primi, apparentemente, disprezzavano la montagna, i secondi, nello stesso modo, il mare. In fondo non era così, ma non bisognava dare soddisfazione ai rivali. Perciò ogni momento era buono per rinfocolare la radicata antipatia. Festa faceva Casilino con fuochi d’artificio, altrettanto rispondeva Pretì. Banda pugliese per le serate del santo patrono, con banda pugliese rispondevano gli altri.
Gli abitanti di Pretì percepivano nei marinari casalinesi un piglio più cittadino. Le spiagge di Casilino ogni estate si popolavano di turisti e di emigrati di ritorno: erano un brulicare multicolore di ombrelloni, teli e asciugamani; di camere d’aria di ruote di camion usate come salvagente; bizzarre cinture di sicurezza, per chi provava, per le prime volte, a bagnarsi nell’acqua di mare.
Lidi e spiagge libere invase da famiglie intere; con quantità di vettovaglie in ceste di pezzula[34], coperti da tovaglioli e tenute al riparo dal sole. Dispense portatili di: melangiani chini[35], crocchè e panini imbottiti. Cocomeri sotterrati nella sabbia della battigia, carezzata dalle onde, per mantenerli al fresco. Moderne “scampagnate”e pranzi dentro e sotto i capanni fatti di teli; donne in sottoveste – surrogato del prendisole - per senso di pudore antico. Il costume sarebbe stato troppo per chi aveva sempre portato la gonna sotto il ginocchio. I mariti, con pantaloni cumbiati[36] al ginocchio e torso nudo, pronti a bagnarsi solo i piedi.
Solo i più giovani e chi arrivava dal Nord vestivano costumi, liberi di essere baciati e bruciati dal sole.
Primi avvii di lidi in concessione, microeconomia in movimento. Segnali di un benessere che cominciava a toccare i più.
Questo era Casilino in estate e cosi appariva alle genti di Pretì. Un paese vivace che respirava le nuove tendenze, a conferma che i luoghi di approdo sono i primi ricettori di progresso. Lo sfavillare estivo, l’aria festosa e vacanziera, foriera di emancipazione e benessere alimentavano sempre più l’invidia dei vicini montanari.
                                                                                       . . .
Si era nell’ultima settimana della campagna elettorale, ogni giorno per le vie del paese era un via vai di macchine con altoparlanti e un costante invito: - Vota e fai votare…! - ne seguivano il nome del candidato e del partito.
Automobili attrezzate in perenne ronzio. Una sfida a suon di slogans e musiche di sottofondo.” Biancofiore” di odore democristiano, “Bandiera Rossa” ed “Intenazionale” per i comunisti, “Giovinezza” per MSI, ” Bella Ciao” per i socialisti. Una diffusione gracidata riempiva i silenziosi pomeriggi di quel maggio.
Uno scorazzare convulso, per annunciare i comizi serali e per trascinare il maggior numero possibile di cittadini in piazza. I personaggi di spicco dei vari partiti si riservavano l’intervento a chiusura della campagna elettorale, per cui l’ultimo venerdì delle votazioni era un succedersi di eventi.
Il Movimento Sociale aveva da poco concluso la campagna elettorale; l’On Tripepi, con piglio solenne ed eloquente enfasi, aveva scaldato il cuore dello sparuto gruppo di nostalgici fascisti con il penultimo comizio di una campagna elettorale che aveva visto impegnati tutti i partiti.
L’ultima parola adesso spettava alla Democrazia Cristiana. Cambio di drappo sul palchetto, via la fiamma tricolore per far posto al lenzuolo bianco con al centro lo scudo crociato. I fedelissimi della locale sezione avevano già predisposto tutto. Il drappo bianco avvolgeva il pulpito, una bandiera posta sul lato destro dell’oratore sventolava, mossa da una leggera brezza serale, un leggìo e una lampadina avrebbero permesso di leggere eventuali cartelle scritte. Prove microfoniche continue per tenere all’erta i presenti in attesa dell’onorevole che avrebbe chiuso i giochi.
La piazza, non gremita, presentava gruppi di cittadini intenti a commentare il comizio appena finito. Seduti sulle panchine alcuni anziani, con aria curiosa, aspettavano l’inizio del round finale prima del rientro casa.
Cumpari Micheli, trasferitosi dalla Piazzetta alla Piazza grande insieme ai suoi abituali amici, sostava sulla panchina alla destra del pulpito. Poche cose avevano inteso dall’oratore precedente e si accingevano ad ascoltare il prossimo, cercando di carpirne qualcosa in più.
Uno stuolo di sostenitori si era sistemato in prima fila per dare sostegno e calore a chi si presentava come la personalità di spicco di questa campagna elettorale.
Tutto pronto:
“O bianco fiore, simbolo d'amore
con te la gloria della vittoria.
O bianco fiore, simbolo d'amore,
con te la pace rifiorirà.” 

Le note della canzone coprirono il chiacchiericcio della piazza, l’attenzione di tutti si spostò sul palchetto. Il Sindaco, il segretario politico paesano e i fedelissimi erano già li, pronti ad accogliere e a presentare l’uomo, il politico e la voce che avrebbe esposto programmi e impegni di cui intendeva farsi portatore presso il Parlamento.
- Amici ! - debuttò il segretario politico. - Dopo una campagna elettorale impegnativa è giunto il momento di tirare le somme. Le nostre responsabilità sono evidenti. Dobbiamo tutti, con il nostro voto, partecipare e sostenere il Partito e gli amici che ci rappresenteranno a Roma. Le nostre terre e il nostro paese in particolare hanno sempre più bisogno di una voce amica, vicina; un sostegno serio, deciso e costante che dia respiro e forza alla crescita economica; di un’azione incisiva che riduca il problema della disoccupazione e dia slancio per un futuro di ricchezze e benessere. Questi sono gli obiettivi che da sempre hanno contraddistinto l’azione politica del nostro amico che ho ancora il piacere e l’onore di presentare. Nel ringraziarlo a nome mio e del Partito per l’impegno profuso, v’invito ad ascoltare e domenica a sostenere Sua Eccellenza On. Dario Figliozzi! -
Un applauso accompagnò la stretta di mano e l’abbraccio del segretario con l’onorevole; le prime file del pubblico applaudirono per qualche minuto e mentre lui aggiustava il microfono, facendo intendere di voler parlare a braccio, Cumpari Micheli, rivolto agli amici, commentò:
- Azzo eccillenza? U chiamau eccellinza! È chi è viscuvu’-[37]
Era d’uso rivolgersi con appellativi del genere solamente a vescovi, a cardinali e a prefetti. L’eccessiva ruffianeria aveva portato il segretario a dare, con pomposità, dell’eccellenza all’onorevole Figliozzi che nell’ultima legislatura Sottosegretario al Ministero del Turismo.
L’onorevole, impettito, sulla scia dell’applauso prese la parola: - Amici, questa cittadina è il luogo migliore per chiudere la mia campagna elettorale. Qui mi sento a casa. Il vostro affetto e il vostro sostegno che ho avuto modo di apprezzare nelle ultime elezioni politiche, mi fanno sentire uno di voi perciò vi ringrazio ancora. In questi ultimi anni le vicende economiche dell’Italia ci hanno visto impegnati su più fronti. Il Governo ha tenuto un costante filo diretto con questa Regione e in particolare con questa parte della Calabria. Molte cose sono state fatte e tante ancora le dobbiamo completare. La crisi che ha attraversato tutta l’Europa ha investito anche il nostro Paese, frenando l’impulso che il Governo, di cui mi onoro di aver fatto parte, aveva saputo dare -
Mentre l’onorevole, interrotto di tanto dall’applauso degli astanti, elencava tutte le iniziative che aveva portato al vaglio del Governo in favore della Calabria, il gruppo di amici di Cumpari Micheli commentava:
- Chistu parra bonu, Si vidi ca fu o guvernu! -[38]
- Si si è veru, ma ijeu cca i chiju chi dici non vitti mai nenti! L’atra vota vinni si futtiu i voti e poi: cu si vitti si vitti - [39]
Cumpari Micheli stava attento, seguiva il discorso facendo intendere di seguire e capire quanto veniva detto.
- Ora, amici, è inutile nasconderlo; noi paghiamo la colpa e le conseguenze di quella che è l’annosa questione meridionale. È il solito e vecchio problema. Non riusciremo mai a dare compiuto sviluppo alle nostre terre se prima non si pone rimedio alla vecchia questione. Stiamo tuttora pagando questo divario che nasce nella notte dei tempi e che condiziona tutto. Sostengo e spero che questa sia la volta buona: occorre dare linfa ai progetti, crederci e con convinzione lottare con tutte le forze, anche le vostre, certo; per fare in modo che questa maledetta questione meridionale non sia più la zavorra e il peso che tarpa le ali a un popolo degno di progresso, voglioso di emancipazione e sviluppo! -
Dai fedelissimi sotto il palco partì uno scrosciante applauso che sottolineò questo passaggio intenso e appassionato.
Cumpari Micheli aveva ulteriormente aguzzato le orecchie; l’enfasi e la passione dell’oratore avevano catturato la sua attenzione. Ora non seguiva più i commenti degli amici: la foga dell’onorevole si era rivelata coinvolgente; era un politico navigato capace di cogliere gli umori degli astanti e dare sfoggio di notevoli capacità oratorie.
In fondo, in quella piazza, tutto era molto semplice; i fedelissimi avrebbero applaudito in ogni caso e la rimanente parte si poteva affascinare con i toni e l’impetuosità. L’onorevole con i suoi discorsi, intrisi di riferimenti alla politica nazionale, poneva continuamente l’accento sulla questione meridionale. Individuava quella come il peccato originale dello Stato centrale nei confronti delle regioni del Sud. Uno stato colpevole di non aver mai attuato e in modo serio un progetto che andasse a ridurre il divario economico e sociale tra Nord e Sud. Un cavallo di battaglia che tornava comodo in tutte le elezioni e a tutti i partiti.
- Amici, venendo qua e percorrendo questo tratto di statale, mi sono reso conto delle ricchezze di cui è dotata la nostra terra. Siamo a due passi del mare e dalla montagna. Il tratto di piano che arriva fino alla costa non ha nulla da invidiare alla pianura padana o alla piana di Sibari. È un tratto di terra che potrebbe offrire serie possibilità anche in termini di opere pubbliche. Per esempio: immaginate un grande tunnel che colleghi le due coste della Calabria, un tunnel che parta da qui, per dare continuità a questa strada e in pochi minuti raggiunga l’altra parte di questo stupendo lembo d’Italia! E poi immaginate se oltre al tunnel di collegamento tra Ionio e Tirreno! Qui (indicando la parte pianeggiante) a fianco di quella che potrebbe essere un’autostrada, nascesse un aeroporto internazionale; un grande scalo capace di servire tutto il Sud, un importante crocevia per scambi commerciali e per passeggeri! - 

L’onorevole cominciava a volare alto, doveva sbalordire e ci stava riuscendo.
- Chi di voi non ha un parente emigrato in Argentina, Australia, Stati Uniti? O in altri Paesi? Ecco, l’importanza dell’aeroporto internazionale è proprio questa. Perché andare a Roma o Milano? Per imbarcarsi e volare in America, quando è possibile far nascere qui una struttura che soddisfi le necessità di chi vorrà andare a trovare i propri cari in terre lontane e parimenti dia loro la possibilità di raggiungere noi in brevissimo tempo? -
Sapeva bene che quello dell’emigrazione fosse un tasto sensibile: in tanti erano partiti per terre lontane e con i cari rimasti nei paesini della Calabria si erano salutati a vita. Distacchi duri e dolorosi tra persone che non si sarebbero più riviste.
- Amici, la vera soluzione della questione meridionale passa attraverso progetti seri, impegno costante e capacità di far pesare i vostri voti, quelli che voi, generosamente, mi vorrete dare, per far sentire la vostra voce dentro il Parlamento nazionale -
Un applauso, stavolta più consistente, accompagnò le ultime frasi dell’uomo politico.
Cumpari Micheli, che aveva assorbito attentamente il discorso e le promesse azzardate dall’onorevole, si staccò dal gruppo dei suoi amici, si portò quasi al centro della piazza e sotto il pulpito e, allo scemare dell’applauso, cercò l’attenzione generale:
- Permettetemi nu momentu! - disse tra italiano e dialetto.
Un mormorio attraversò gli astanti, qualcuno in prima fila abbozzò un sorriso, l’onorevole scrutò questo vecchietto con barritta[40] sulle ventitré che con fare da capo popolo riuscì in un attimo a zittire la piazza.
- Caro ccillenza, vi voglio dire solo due cose - disse con una punta di spavalderia.
Si alzò il mormorio e qualche risata da parte dei notabili sul palco.
- Lasciate che l’amico parli e ci dica il suo pensiero! -disse l’onorevole con tono accomodante.
- Vi volevo dire, caro ccillenza, che qui non c’è nuja quistioni meridionali, comu a chiamati vui; u paisi è tranquillu, e se ndavarria u nc’esti ccacchi quistioni ccà ci la vidiamo noi!- [41]
Le risate contagiarono anche i sostenitori del partito. Solo gli amici di Cumpari Micheli ascoltarono seriamente.
- Spettati nu momentu! - riprese Cumapri Micheli - non finìa! Vui dicistivu ca voliti fare una galleria per andare dall’atraparti dilla Calabria e un aeroportu pemmu potimu jiri a Merica - [42]
Il silenzio si fece sentire, tutti tacquero. Forse aveva qualcosa di molto serio da dire e la scena fu sua.
- Onorevoli, sentiti a mia – continuò - Na cosa sula, chi sarria bona, potiti fari: dassati futtiri a galleria o l’aeroportu pa Merica. Nda ja chianura portatindi u mari!!! Cosi nci ndi potimu strafuttiri i ji quattru pidocchiusi di Casalinisi! E non vi preoccupati, ca ccà i quistioni ndi sbrigamu nui! -[43]
Un applauso, di tutti coloro che fino a quel momento erano rimasti impassibili, coprì le risate dei notabili; Cumpari Micheli si era fatto portatore di una mirabolante proposta dettata solo dalle cose che conosceva, che viveva e che respirava: le rivalità con Casilino.
Fu l’epilogo del comizio, le risate di scherno dei numerosi galoppini e portaborse del partito continuarono senza ritegno nei confronti di chi, secondo loro, era un campione d’ignoranza.
In fondo, però, la richiesta di portare il mare a Pretì non era più stramba delle mirabolanti promesse che qualche minuto prima l’onorevole si era permesso di fare a un pubblico attento, ingenuo, rispettoso e credulone; a gente che nella forma e nella sostanza, da secoli, di rispetto e attenzione ne aveva avuti poco o niente proprio da chi saliva sui quei pulpiti.
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[1] Che vi levassero le budella
[2] Vecchia condotta
[3] Sarà sospesa l’erogazione dell’acqua
[4] E’ da accecare il Sindaco e chi l’ha votato
[5] Il numero in lista del candidato
[6] Fai il segno sullo scudo crociato (DC)
[7] Fai segno su falce e martello (PCI)
[8] Fai il segno sulla fiamma tricolore (MSI)
[9] Compare ha sentito?
[10] Sospendono l’erogazione dell’acqua
[11] No comare, la macchina annuncia un comizio
[12] Che si ribaltassero
[13] Eh no, cara comare le elezioni sono importanti, ricordatevi che il Governo siamo noi
[14] Io vado a votare e questa volta voto la croce- DC-
[15] La mia fonte del benessere ( riferimento ad una qualità di ulivo di buona resa)
[16] Possono gridare quanto vogliono
[17] La mia barca è a riva ( La mia condizione economica è sicura, non corro pericoli)
[18] Girini, piccole rane
[19] Michele, spegni il televisore , lo rompono
[20] Aspettate cinque minuti, dopo la lite l’accendiamo
[21] Con una conta, o con le carte, si eleggeva il Capo ed il Sottocapo i quali decidevano a chi dare da bere.
[22] Barare nel distribuire le carte.
[23] Taglio di capelli alla Mascagni
[24] Accendere la sigaretta per esorcizzare le carte
[25] Ti ha fatto l’incantesimo per essere sempre suo?
[26] Imprecazione alla settima piuma dell’ala sinistra dello Spirito Santo
[27] Imprecazione a San Rocco cosi come è raffigurato nelle immagini in compagnia di un cane col pane in bocca.
[28] Comande
[29] Documento attestante la titolarità della pensione.
[30] Distese, pianure.
[31] Raccolta ed intrecciata
[32] Montanari,in senso dispregiativo
[33] Pescivendoli, in senso dispregiativo
[34] Lamine di legno di castagno
[35] Melanzane ripiene
[36] Rimboccati fino al ginocchio
[37] Eccellenza? L’ha chiamato Eccellenza! Come se fosse un vescovo
[38] Questo parla bene, si sente che è stato al governo
[39] Si è vero, ma di ciò che lui dice qui non si è visto mai nulla. L’altra volta e venuto s’è preso i voti e poi è scomparso
[40] Coppola
[41] Vi volevo dire, caro eccellenza, che qua non c’è nessuna “questione”,(intesa come contesa o litigio di paese) il paese è tranquillo e se dovesse nascere questione la risolveremmo, noi , tra paesani
[42] Aspettate un momento, non ho finito, avete detto di voler fare una galleria per andare dall’altra parte della Calabria e un aeroporto per andare in America
[43] Onorevole ascoltatemi, una sola cosa, da fare, sarebbe ottima; lasciate perdere la galleria e l’aeroporto . In questa pianura portateci il mare! Cosi ce ne possiamo strafottere dei pidocchiosi Casilinesi! E le nostre questioni le risolviamo noi