martedì 6 agosto 2019

“L’Arcibàte”, l’ultimo prete contadino.

                di Francesco Barillaro
   E' come se, leggendo a grandi sorsi questo romanzo, facessi un tuffo nel passato, con lo stesso vigore, lo stesso slancio, la stessa forza, con gli stessi profumi, sensazioni, umori, il forte attaccamento alla propria terra degli uomini e delle donne di due piccoli borghi aspromontani, Zurgunadio e Tresilico, all’ombra della più grande Oppido e della montagna che tutti sovrasta. 
   Una lettura d’altri tempi, ma perfettamente consonante con la ricerca sempre attuale, commossa e divertita, delle radici vere per tanti di noi poco inclini all’oblìo. Così “L’Arcibàte”, di Bruno Antonio Demasi, ci regala uno spaccato nudo e crudo dell’ambiente del centri aspromontani e ci riporta ad un tempo che appare lontanissimo senza dolciastri e stucchevoli ricordi, ma con piglio energico e umoristico. 
   In questo scenario, narrato in modo quasi teatrale, dove si sbarcava il lunario tra amara realtà, privazioni di ogni genere, esistevano anche i sogni, quelli della povera gente, degli umili, come appaiono i personaggi, quasi parlanti, del libro, soprattutto il prete (nella realtà don Battista) con la sua talare sempre sporca di fango, ma dignitosa, sudaticcio mentre scarica la sua millecento carica di ogni profumo e sapore dei prodotti della terra. E nelle storie intrecciate tra loro riemergono le immagini e i suoni di tante adolescenze svanite, di tante età della meraviglia e della commozione irrimediabilmente perse.
   Le nostre strade, dopo mille giri tortuosi, debbono riavvolgersi e guardare al passato, dove, forse un giorno, incontreremo coloro che ci hanno preceduto su questa terra e dovremmo dare conto, chiarimenti sul nostro operato.  


   Ringrazio davvero l’Autore per le riflessioni, i ricordi e le emozioni che ci offre con la lettura piacevole e scorrevole, arricchita spesso da termini ormai in disuso (ciaurrina, cannata, buffetta, ceramide, gucceria,zimarra…). Un libro senza ambizioni, se si esclude quella dell’omaggio al ricordo e al passato, ma denso di scene di vita umoristiche e commoventi, da cui emergono la storia di questo grande e strano sacerdote, il bene silente prodigato dalle sue mani annerite e callose, sull’altare e nei campi, per le strade e nelle case della povera gente che Dio gli aveva messo accanto.

   I personaggi de "L'Arcibate" escono prepotentemente dalla finzione letteraria e tornano ad essere persone: il piccolo “Mizzica”, Mastro Gianni e Mastro Filippo Titta, i coniugi Dormienti, Cuncia, Cicca, Ngiulina e Chelino, Genoefa, Sabella , Giacchino, Don Filamberto, l’Arciprete Pinna, lo stesso vescovo del tempo e tutti gli altri che si alternano sulla scena e nel mondo agro-pastorale del tempo, nei vicoli anneriti straripanti di gente, nelle campagne dense di voci, odori e suoni, che solo chi ha gustato davvero può riconoscere, nelle feste dei santi ( di cui in calce a queste piccole note viene riportata una breve descrizione tratta dal volume). 
   E se adesso la moltitudine di case abbandonate e cadenti, il deserto e le spine nelle campagne testimoniano un tempo che non tornerà mai più, quello delle rinunce e della rassegnazione, è pur vero che , come dimostra questo singolare romanzo, occorre trovare il coraggio di tornare al poco e al giusto per ridare vita nuova ai luoghi della nostra infanzia dove vennero filate e intrecciate le radici delle nostre storie personali e riscattarli con una vita nuova.(Francesco Barillaro)

Bruno Antonio Demasi: "L'Arcibàte", romanzo, Brenner Editore, Cosenza, Luglio 2019.

                                                                           FESTA!

    “…La statua fu finalmente fermata davanti al portone della chiesetta mentre il predicatore con il filo di voce che gli era rimasto e che ormai non aveva nulla di umano, concludeva il suo panegirico iniziato la mattina tessendo le ultime lodi del Santo in modo passionale e prolisso. La gente stanchissima lo sommerse però con un applauso che non finiva più e fu il segnale per lo scoppio dei previsti mortaretti e per portare dentro la statua, rimetterla al suo posto e chiudere in tutta fretta con la benedizione la processione, mentre i portatori imprecando si sedevano a terra dove capitava sacramentando con piedi e mani insanguinati.
   Alle nove e mezza di sera iniziò il concerto delle due bande sul palco eretto proprio davanti alla chiesetta: avevano deciso di esibirsi suonando un pezzo ciascuna secondo sorteggio. Il primo brano toccò alla banda di Marrapodi che , avendo già strumenti e sedie a posto sul palco, salì e attaccò subito con “Cavalleria rusticana” che infiammò gli animi di grandi e piccini, salvo una solenne stonatura nell’ attesissima aria di Lola che aveva di latte la cammisa che sconcertò più di uno stomaco.
    Poi toccò alla banda del paese grande, ma ci volle una buona mezz’ora per trasferire a terra tutti gli strumenti della banda precedente e issare il nuovo armamentario, quindi partì finalmente con “Traviata” suscitando al Brindisi l’euforia dell’Arcibate e di alcuni suoi amici che brindando ripetutamente assistevano al concerto dal cortiletto della canonica al centro del quale campeggiava la solita buffetta ricoperta da varie tipologie di bicchieri e bottiglie. 


    Il terzo pezzo, dopo la mezz’ora canonica del cambio di strumenti, toccò di nuovo alla banda di Marrapodi che si produsse nel pezzo forte della serata atteso con ansia da tutti gli intenditori dei due borghi e del paese grande: il “Quarantotto” detto anche volgarmente “ Turandot”. Già dopo le prime note si cominciò a distinguere qualche sonoro sbadiglio. Dopo i primi cinque minuti i borbottii di disapprovazione non si contavano più dinanzi alla cacofonia paurosa di suoni in libertà che partiva dal palco. A metà brano il vecchio Barracca, già bandista anche lui in gioventù e ora considerato la massima autorità del paese grande nel giudicare il valore di una banda, si alzò tremante di rabbia e si diresse platealmente all’altro lato della piazzuola , si girò verso il muro iniziando a urinare e a ruttare rumorosamente in segno di evidente disgusto, visto e sentito da tutti. Fu il segnale del tumulto: fischi, pernacchie, belati, miagolii, muggiti di vacca, risate, rutti. L’Arcibate sgomento accorse a vedere cosa stesse succedendo e, rendendosi conto che anche la serata musicale stava scadendo in malo modo, corse dal maestro della banda del paese grande e gli intimò qualcosa all’orecchio.
   Dopo la mezz’ora di cambio di strumenti, la banda del paese grande pomposamente attaccò il cartello con cui riproponeva l’Aida. Si ristabilì un silenzio denso e pesante intriso di curiosità. Il preludio del I atto fu ascoltato in relativo silenzio e con le orecchie aperte allo spasimo per cogliere il primo errore. Seguì la sintesi del I atto arrangiata alla meno peggio, ma sostanzialmente passabile. Fu alla marcia di trionfo che si scatenò un temporale di note e rumori che produssero suoni orripilanti e disarticolati al posto della musica pensata e scritta da Verdi. E qui sei o sette concittadini dei bandisti di Marrapodi che accompagnavano sempre la loro banda nelle tournèes fuori comune, si alzarono di scatto e si diressero di corsa vero il muro dell’altro lato della piazzuola, mettendosi a urinare e dando la stura ai fischi dei loro concittadini che erano rimasti sotto il palco e agli applausi smodati con cui i compaesani della banda locale cercavano di coprire gli insulti sanguinosi degli ospiti.
    L’Aida proseguì molto zoppicante ancora per parecchi minuti con continue alzate dei Marrapodiesi in preda a un’ostinata diuresi e spellamenti di mani dei fans della banda che si stava esibendo in un lago di sudore. 


  All’una di notte le due bande , come da programma, dovevano esibirsi separatamente nel Canzoniere Napoletano, ma, a furor di popolo, vista l’ora, si decise di farle suonare insieme o per si o per forza. Si fecero arrivare altre sedie sul palco, tutte rigorosamente diverse una dall’altra, e i bandisti stretti come sarde si disposero sul minuscolo palco e attaccarono “Funiculì Funiculà” eseguito in maniera allegra e sportiva, che tranquillizzò gli animi e riscosse il plauso ritmato con mani e piedi del pubblico.
    Fu a “Core ingrato” invece che le trombe soliste dell’una e dell’altra banda si piegarono pancia a terra in suoni striduli scoordinati e sconvenienti che echeggiavano sordi rumori di viscere in subbuglio e suscitarono subito le ire minacciose delle persone. Seguirono alcuni brani allegri accompagnati dai fischi e dagli strepiti del pubblico e infine “O sole mio” suonato all’unisono da tutti e da nessuno: una cacofonia di suoni repellenti che costrinse i due maestri prima a fulminarsi con gli occhi e subito dopo a nascondersi per la vergogna, mentre fischi e lazzi smodati di ogni genere cui si aggiunsero tremende esplosioni di fuochi d’artificio che riempirono di fumo spessissimo e puzzolente il sobborgo conclusero verso le due del mattino una festa, che nessuno , Arcibate compreso, ebbe da quel momento in poi l’ardire di pretendere fosse ripetuta o ricordata negli anni a venire.”