sabato 26 dicembre 2020

LA VENERABILE ROSELLA STALTARI NEL CUORE DELLA CALABRIA DEI POVERI

 di Bruno Demasi

     La breve esistenza della nostra conterranea Rosella Staltari, che Papa Francesco nei giorni scorsi ha dichiarato venerabile nella stessa occasione  in cui ha annunciato al mondo la prossima beatificazione del giudice Rosario Livatino, ha come poli estremi  la devastante alluvione calabrese del 1951, quando Rosella è nata, e la miseria delle strade di Palermo dove è improvvisamente morta nel 1974 ad appena 23 anni di età vissuti intensamente al servizio dei poveri.

    Aveva visto la luce il 3 maggio del 1951  ad Antonimina, una delle zone più povere della provincia di Reggio Calabria, nel cuore di quella Locride che oggi appare all’avanguardia della ricerca sociale e politica nella tormentata provincia di Reggio Calabria, ma che 70 anni fa faceva i conti con una situazione sociale ed economica che Umberto Zanotti Bianco appena  pochissimi  anni prima aveva definito terribile.

     Era la  terza figlia di Rosario e Maria Reale. La precarietà economica della famiglia, si era  aggravata a causa della grande alluvione che aveva colpito  la Locride e tutto il territorio reggino ( 18 ottobre 1951 ),  ma soprattutto per la morte improvvisa della mamma che lasciò un segno indelebile nella povera  vita familiare. 

   A due anni e sette mesi, Rosella, per volontà del padre e col supporto dell’E.N.A.O.L.I., viene accolta all’Istituto Scannapieco di Locri e si impegna nello studio fino a conseguire la licenza di Avviamento Professionale. Viene successivamente inviata a Reggio Calabria presso l’Istituto Mater Gratiae della Congregazione delle Figlie di Maria SS.ma Corredentrice per continuare gli studi.  

     Come racconta il vescovo  mons. Giancarlo Bregantini in una sua radiosa pagina su questa bella figura calabrese, l’amore paziente ed esemplare di Padre Vittorio Dante Forno , fondatore dell’Associazione religiosa e poi della Congregazione, la maternità spirituale della Superiora Generale Sr. Maria Salemi e la condivisa gioia delle Sorelle, generano nel cuore di Rosella, già aperto alla Voce dello Sposo, il desiderio di speciale  Consacrazione al Signore e, dopo lunga e sofferta ricerca interiore, il 2 luglio 1973 con la Professione religiosa insieme ad altre compagne di cammino, Rosella si consacra per sempre al Signore. 

 

    La vita di Rosella, dopo la sua definitiva consacrazione, si apre alla luce solare della ricerca incessante della bellezza del Signore e dell’umile ed appassionato amore servizievole ai fratelli soprattutto i più bisognosi di cure e di sollievo: ed è di parola fino alla fine dei suoi giorni.

    Pagine del suo Diario, commuovono per il carattere elevatissimo della sua esperienza alla scuola del Signore: sono pagine mistiche, di altissimo lirismo estetico,  che parlano della interiore nostalgia di Cielo dello spirito di Rosella a nessuno rivelato pienamente.

    Ne è prova l’epilogo della sua esistenza dopo il trasferimento a Palermo per motivi obbedienziali. Palermo è la tappa decisiva e matura della scelta di Rosella: non solo viene e nominata educatrice di un gruppo di bambine, ma all’interno della sua comunità la sua presenza si pone come testimonianza autentica di radicalismo evangelico. In una pagina dei suoi scritti, Rosella, in un dialogo d’amore con Gesù, così confida: “ Gesù mio, il tuo nome è scritto nel mio cuore ed è Lui che mi riscalda e mi avvampa d’amore. Voglio perdermi, o Gesù, nel tuo mare d’amore: ma il mare per quanto sia profondo, ha il suo fondo e così la sua fine. Ma il tuo amore no, perché non ha nessun fondo e più si entra e più amore c’è ”. ( 30 ottobre 1969).  La sua estasi d’amore si consuma in una mattinata fredda del 4 gennaio 1974 a Palermo reggendo tra le mani una statuina della Madonna, vera Madre dopo la perdita della sua mamma terrena, ed il Crocifisso della sua Professione pendente dal collo: nel viso impressa una struggente bellezza. Così muoiono i Santi! 

    La storia di Rosella si innesta meravigliosamente con la storia della diocesi di Locri-Gerace.  Mons. Bregantini stesso, davanti alla realtà delle virtù e della fama di santità della Serva di Dio, chiese ed ottenne  il parere – giunto favorevole – dell’Arcivescovo di Palermo Card. Salvatore De Giorgi avendo il consenso unanime dagli Organismi Diocesani, della Conferenza Episcopale Calabra ed il Nulla Osta alla Causa da parte della Santa Sede in vista dell’introduzione della Causa di Beatificazione e Canonizzazione di Rosella  nella Diocesi che le ha dato il dono della vita fisica. Ed il 24 settembre 2003, nella Chiesa Cattedrale di Locri, davanti al Postulatore Padre Luca de Rosa, al Vescovo di Piazza Armerina, alle Consorelle, ai due Fratelli di Rosella, a rappresentanti del Clero e di Fedeli delle Diocesi di Locri-Gerace e di Reggio Calabria-Bova, Autorità Civili e Militari, ha avuto luogo l’insediamento del Tribunale Ecclesiastico Diocesano per l’inizio dell’inchiesta canonica della Beatificazione della Serva di Dio Rosella Stàltari nel corso della quale il vescovo Bregantini, propose Rosella come testimone della storia contemporanea della Chiesa e come dono di Dio piovuto dal Cielo soprattutto per la sofferta terra di Calabria. 

   “In ogni terreno – afferma Mons. Bregantini - si può fiorire: il segreto sta solo nell’abbracciare la vita non come fatalità e destino, ma come amoroso progetto d’amore del Padre per ognuno di noi perché davvero ogni dolore ( l’esperienza di Rosella in questo è un autentica lezione di vita sempre attuale) è come una ferita d’amore la cui fessura è tutta luce e vita e dalla quale passano le freccie della grazia.   Questo è il messaggio di Rosella Stàltari, nata nel fango dell’alluvione che disperde e rinata nella purezza dell’amore di Cristo che mai potrà separarci da nulla. ( cfr. Rm 8)”. Un messaggio rivolto principalmente ai giovani e a chi cerca significati di alto spessore per la vita e nella vita. 

“Che il Cielo si apra sulla nostra povertà – continua Mons. Bregantini - e ci riempia di luce: quella luce che fa nascere la pace, fa fiorire i nostri deserti trasformandoli in oasi di predilezione, fa crescere tutti nell’ascolto della Voce del Padre perché davvero alla scuola di Gesù impariamo quella lezione che rivela sempre ai piccoli il mistero del suo amore misericordioso.”  

                                                                                                                                                    

 

 



martedì 22 dicembre 2020

CHI SI E’ ACCORTO CHE UN ALTRO AFRICANO E’ MORTO “COME UN CANE” ?

di Bruno Demasi

  
     «Cassama Gora è morto come muoiono i cani, sul ciglio di una strada non illuminata, mentre il resto del mondo vive il rammarico del mancato cenone natalizio». Sono le parole del sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi, che ben sintetizzano quanto è avvenuto la sera del 18 dicembre scorso a un giovane africano del Senegal che dopo una lunga giornata di stenti e di fatica attraverso la strada dell’orrore che attraversa la I zona industriuale, tra il porto di Gioia Tauro e San Ferdinando, al buio stava facendo ritorno sulla sua vecchia bicicletta alla tendopoli dove aveva avuto la fortuna di trovare alloggio a differenza delle migliaia di Africani che dopo la distruzione della vecchia tendopoli voluta due anni fa da Salvini ancora oggi sopravvivono alla fame e al freddo sfollati nelle campagne di Rosarno e di San Ferdinando. E’ stato falciato da un’auto che – secondo quanto è stato detto in un primo momento – non si è neanche fermata per prestare soccorso: un altro granello di un rosario infinito di morti dalla pelle nera di cui non si cura nessuno e, se lo fa per il tempo necessario a parlarne in tono lacrimoso che puzza di paternalismo a un miglio di lontananza, se ne dimentica subito dopo, perchè i riflettori calabresi hanno altro da illuminare...o da nascondere nell’ombra...
    Già dopo qualche giorno dalla sua morte violenta e della sua frettolosa sepoltura in una delle tombe più periferiche di un marginale cimitero della Piana o della partenza della sua salma verso il paese d'origine nessuno di sicorderà di lui, per giunta sotto le feste mirabolanti del Natale laico di sempre che quest’anno contende i riflettori al Coronavirus e alle sempre più becere diatribe di una politica mestierante e vuota come appare nella sua nudità se le si strappano di dosso i lustrini  e le false discussionidi cui si ammanta.

mercoledì 14 ottobre 2020

QUELLE MANI BENEDETTE DELLE RACCOGLITRICI DI OLIVE...

di Bruno Demasi
    Di mia madre, Francesca Timpano, che oggi avrebbe compiuto 100 anni, ho sempre davanti agli occhi, tra l'altro,  le mani callose e stanche e vive, rimaste estremamente agili e vitali anche negli ultimi anni della sua lunga esistenza, quando ormai non riusciva più a muovere le altre membra logore del suo corpo antico.
    Erano le mani benedette di una raccoglitrice di olive, esercitate con destrezza e sveltezza incredibili fin dall’infanzia e per molti decenni di durissimo lavoro. Mani che non riuscirono mai  a star ferme e oziose, neanche quando, più di recente, nelle campagne l’uso delle reti soppiantò la raccolta manuale del prezioso frutto, quando, rapidissime come sempre, frugavano tra l’erba ai margini delle reti, perché nessuna drupa si perdesse o si lasciasse marcire. E non per avidità, ma quasi per un senso religioso del risparmio e per un omaggio antico a questo frutto dell’albero che i Greci antichi avevano voluto da sempre simbolo della sapienza e della sacralità della vita.
    Non so come mia madre riuscisse a coniugare i suoi mille impegni di sposa, madre, commerciante, sarta con il lavorio di raccolta delle olive che non abbandonò mai nei nostri oliveti e, pur non avendo vissuto direttamente l’esperienza delle braccianti sui terreni altrui, ella ne aveva sempre condiviso il sacrificio immane e la fatica,gli stenti,le paure e le speranze.     Venivano queste donne nelle campagne del comprensorio di Oppido, fino agli anni Settanta del secolo scorso, dai paesi della Ionica, dove la raccolta olearia finiva a metà novembre, o dai paesi più montani della stessa Piana , dove prospera poco l’ulivo, e restavano accampate per tutta la durata dell’annata sulle nostre balze d’Aspromonte
fino a giugno inoltrato. 
  Loro compagni di ventura erano il freddo pungente che penetrava nei miseri alloggi di campagna, il fumo, la fame, la preghiera trepidante per chi avevano lasciato a casa e le canzoni antiche nelle quali raccontavano la fatica e la sofferenza della nostra civiltà costruita sul sudore e sull’ingegno dei poveri. Portavano con sé i figli più piccoli e tornavano alle loro case, cariche di olio e di olive e del poco denaro guadagnato, custodito nel fazzolettoni più volte annodati intorno al seno, solo per trascorrervi le feste di Natale e Pasqua.
    Di tutte queste donne senza storia e senza nome, di queste mille e mille mani annerite dalle morchie indelebili delle olive mature , di tutte queste altère persone che hanno saputo coniugare la fatica accettata sempre come un dono di Dio con gli impegni del focolare e che hanno creato drupa dopo drupa la ricchezza di questa terra poi divorata da politici imbelli e da oziosi parassiti dalle “berrette storte”, mia madre ha condiviso sempre la sorte con affetto e trepidazione .
Ne ha condiviso la fatica e la dignità, il coraggio e la forza. Ne ha alleviato per la sua parte anche la sofferenza di annaspare carponi sul terreno marcio di pioggia fino a poche ore prima del parto; ne ha consolato i lattanti illividiti dal freddo e dalla fame adagiati nelle povere nache tessute di midollo e di corteccia di castagno ai margini delle ante di dieci o venti donne in riga che avanzavano insieme solenni e faccia terra nella raccolta e che  con una manciata furtiva di drupe ciascuna riempivano anche il paniere della loro sorella che si allontanava senza essere vista per allattare il suo piccolo che piangeva disperato.
    Possa il Dio della Pace e della Sapienza trovare in Te, madre, in voi tutte, raccoglitrici di olive di un tempo irrimediabilmente perduto, le solerti custodi dei valori della Famiglia, del Lavoro e dell’Onestà che abbiamo smarrito. A voi il riposo guadagnato in tantissimi anni di immane fatica e l’omaggio commosso di chi ancora ricorda e ricorderà sempre…
    Grazie!!!

domenica 11 ottobre 2020

DON SANTO RULLO : FIGLIO E VATE DEL SEMINARIO DI OPPIDO MAMERTINA

                                di Francesco Barillaro e Bruno Demasi

 
  Viene spontaneo accomunare in un’unica grata memoria un sacerdote, Don Santo Rullo , la cui preziosa attività pastorale probabilmente è ancora tutta da scoprire, e un faro di formazione e di civiltà , forse il più antico in età moderna ( ci si passi l’ossimoro), per la Piana di Gioia Tauro, il seminario vescovile di Oppido Mamertina: due elementi di una simbiosi esaltante di fede e di cultura che occorre senz’altro riscoprire e far conoscere in un contesto temporale in cui si dà tutto per scontato e nel quale troppo spesso ci si accontenta dell'improvvisazione e dell’esibizionismo .
   Non è il caso di don Santo Rullo, che non sarebbe eccessivo e pomposo definire apostolo del seminario di Oppido, del quale nella presentazione del suo monumentale e insuperato studio ( “Il Seminario di Oppido Mamertina nei suoi tempi” E.O.G.1995), afferma essere stato non soltanto una istituzione di carattere ecclesiale, ma anche una realtà viva e dinamica che ha elevato notevolmente il livello morale e culturale della società civile, ed ha influito sull’ evoluzione, lenta e incessante, della nostra mentalità. Dall’opera educativa del Seminario, direttamente o indirettamente, chi più chi meno, tutti siamo stati benevolmente “contagiati” e la fascia pedemontana dell’Aspromonte, unitamente a tutta la Piana, ne ha ricavato enorme beneficio civile e culturale oltre che religioso. 


  Una simbiosi di intenti – si diceva - che ha magicamente e fortemente unito i destini di due vite, quella del luogo deputato alla prima formazione di tantissime leve di sacerdoti che dalle balze dell’Aspromonte hanno mutuato forza e sacrifici inenarrabili e quella di un presbitero indissolubilmente legato allo stesso luogo, dal momento della sua entrata come piccolo seminarista impaurito, ma tenace, proveniente da un villaggio di montagna distante mille miglia dalla civiltà classista del suo tempo, ma forse per questo più vicina alle alture dello Spirito. Una simbiosi vitale che certo non si esauriva nel ruolo di rettore che don Santo ricoprì fervidamente per alcuni anni nel seminario.
    Maestro di fede e di pastoralità, ma anche di ricerca storica tradotta in prosa con rara sicurezza sintattica e ortografica e libera da luoghi comuni ripetitivi sempre incombenti quando si bada troppo a scrivere e troppo poco a interpretare realmente i fatti e i documenti, con umiltà e buona educazione nient’affatto scontate in un contesto come il nostro, don Santo Rullo dava subito al seminario di Oppido la dimensione spirituale e sociale che gli competeva - e che sicuramente gli compete ancora oggi - proponendosi di tracciarne un profilo non stucchevole, ma serio attraverso un “ libro che, pur nel rigore critico della verità storica, non ha una destinazione puramente accademica, ma tende all’istruzione e alla maturazione di chi legge”.
    Era questa la cifra di ogni ricerca condotta da don Santo Rullo, sempre arricchita da corollari pastorali inseriti nella trama dei suoi numerosi studi, frutto di una pratica nel metodo storico raffinatissima e profonda che ben sapeva coniugare lo spessore dei suoi lunghi studi classici con il rigore della ricerca crociana e con le teorie di Chabod , senza dunque abbandonarsi mai a improvvisazioni presuntuose e fini a se stesse.
   “ Dal 1701 (data reale e ufficiale della sua fondazione) il Seminario di Oppido Mamertina – come osserva il cardinale Pio Laghi nell‘entusiasta presentazione dello studio di Don Rullo - …nel cuore dell’Aspromonte ha rappresentato un fucina di formazione che ha dato alla Chiesa tanti bravi sacerdoti e alla Patria tanti stimati professionisti …e il compito di questo seminario non è concluso…” 
 

    L’analisi storica condotta da don Santo parte dalla fondazione della Diocesi di Oppido, che egli colloca presumibilmente verso il 1025, anteriore a quella di Mileto (1081) Nicastro( 1050-58), San Marco Argentano ( 1080), Catanzaro (1121) e individua le cause del relativo ritardo con cui viene fondato questo seminario : la posizione geografica sulle estreme propaggini dell’Appennino, la ristrettezza dei suoi confini giurisdizionali schiacciati presto dallo strapotere normanno in favore della diocesi di Mileto, la povertà dei suoi abitanti. Quella stessa povertà – sembra affermare l’Autore – che fu ed è ancora lievito per un seminario certamente non grande, ma sicuramente importantissimo per la Chiesa di Calabria e per la piana intera di Gioia Tauro nei suoi prestigiosi e fecondi 320 anni di vita e che ancora oggi rimane – lo si voglia o meno – un vero faro di civiltà in un contesto sociale e civile martoriato a tutti i livelli da una barbarie di ritorno di cui si stenta a rendersi conto.
    In effetti lo studio di don Rullo è minuzioso , ma non pedante, illuminato da un’acuta capacità di comprendere tutte le situazioni storiche, sociali, culturali e soprattutto spirituali all’interno delle quali il seminario oppidese, per quasi un secolo nella città distrutta dal terremoto, per oltre due secoli nel nuovo abitato, è stato la cartina di tornasole della situazione generale della Piana di Gioia Tauro con i suoi problemi enormi e crescenti, con il suo tessuto sociale lacerato da enormi sacche di povertà e dal cancro della ndrangheta e della mentalità mafiosa che ancora oggi più che mai ne comprimono lo sviluppo e soprattutto la libertà.
                                                                                    . . .   

  La Piana – si diceva - deve molto al Seminario oppidese ( per la cui conoscenza approfondita rimandiamo alla lettura attenta di questo libro basilare per chi ama questa terra e troppo a lungo rimasto sconosciuto e – chissà perché - misconosciuto) , ma anche a colui – don Santo Rullo - che dal suo osservatorio privilegiato quale responsabile dell’Archivio diocesano (rinunciando sempre a favore proprio del seminario persino al compenso che annualmente gli spettava) ha saputo ordinare e interrogare sapientemente tutti i documenti consegnando alla storia con l’umiltà che solo i saggi possiedono, una ricostruzione lineare, veritiera ed eloquente di questi tre secoli abbondanti di una vita probabilmente dimenticata, ma sicuramente ancora più attuale che mai e che ogni studioso dovrebbe conoscere per apprezzarne il valore, ma anche per riconoscere lo sforzo eroico portato avanti da questo grande sacerdote che agli attacchi immotivati ricevuti da qualche suo libro sapeva rispondere sempre col sorriso silenzioso ed eloquente della Carità e dell’eleganza che non si spense mai sulla sua bocca, neanche al momento della morte.
    Un aspetto molto rilevante della personalità di Don Santo Rullo è infatti quello dell'umiltà, della riservatezza, del non amare palcoscenici dove esibirsi: preferiva sicuramente il silenzio alle chiacchiere, il raccoglimento al frastuono. Nella sua veste di Archivista-bibliotecario della curia di Oppido accoglieva chiunque ascoltando con attenzione e, anche il dono di un libricino senza pretese trovava la sua attenzione e il suo posto. “Io sono un servitore ad tempus”, amava ripetere. E ancora: “L'amore soverchio all'ufficio è brutto vizio, ed io ne sono affetto”, scrive in una missiva, il 16 marzo 2000, indirizzata ad un suo superiore.
   Scriveva nei ritagli di tempo, nel suo studio con una luce bassa, circondato da un mare di libri, appunti e note in un ordine scrupoloso, anche su piccoli ritagli di pagina, riempiti con la sua inconfondibile calligrafia. Nel suo studio si avvertiva una sensazione di pace e serenità. Scriveva spesso la notte, quando le incombenze della Parrocchia terminavano, rubando tempo al sonno, ma mai al suo ufficio pastorale e liturgico che pose fino alla fine sempre in cima alle sue occupazioni e preoccupazioni quotidiane. Nelle sue ricerche nulla era lasciato al caso, “ al sentito dire”, andava alla fonte delle notizie “ Risalire il fiume ed arrivare alla fonte è difficoltoso – diceva spesso - ma solo lì l'acqua è pura, incontaminata degli interessi umani”, questo il fondamento del suo metodo di studio mutuato dagli studi crociani e dalla conoscenza degli scritti di Chabod che, paradossalmente, gli causò non poche amarezze e incomprensioni.


  Se la sua esperienza di storico è singolare e irripetibile, certamente non meno esemplare appare quella pastorale. Era giunto come parroco a Scido la sera del 18 ottobre del 1966, inviato, provvisoriamente, da Mons. Giovanni Ferro, Amministratore Apostolico della Diocesi di Oppido Mamertina, in sostituzione dell'arc. Giovanni Battista. Non lascerà più quella parrocchia fino alla sua morte. Nel corso degli anni rifiuta infatti “inspiegabilmente” altre destinazioni più comode. Al piccolo paese, alle falde dell'Aspromonte, dedica i primi suoi due libri, nel 1991 “Una Parrocchia Del Sud San Biagio di Scido”, e due anni dopo “ Scido Cammino di Una Comunità”. Nel 2004, in occasione del suo Cinquantesimo anniversario di ordinazione Sacerdotale (29 giugno 1954), consegna alle stampe un volume che traccia la vita, i sogni, la gioia, le delusioni del suo cammino nella comunità scidese emblematica di una mentalità aspromontana difficile e dura, a volte docile come le greggi d’Aspromonte, a volte impetuosa e ribelle come i torrenti che ne solcano le balze ripide e selvagge.
    Dare tutto se stesso alla parrocchia, alla porzione di Chiesa voluta da Dio e non sentire mai in tanti decenni il peso della fatica pastorale e delle preoccupazioni quotidiane è esemplare. Scrive dopo cinquant’anni di ordinazione sacerdotale: 

...per me, il 50° di Ordinazione Sacerdotale è stato una nuova nascita; sono nato di nuovo e oggi guardo il mondo che mi circonda con gli occhi di un bambino. Osservo gli uomini, le cose, l'universo, nel chiarore di una gioia semplice e pura, libera da prevenzioni e convinta di ignorare tutto. Ignoro gli uomini, nel loro spirito impenetrabile e nel mistero della loro anima. Ignoro le cose, nella struttura della loro intima divina composizione. Ignoro il mondo nel suo moto e nelle sue finalità e, pensando a Teilhard de Chardin, mentre celebro la S. Messa mi pare di essere circondato da un'immensità cosmica, animata e inanimata, sintetizzata nella “Azione Divina di Cristo e della Chiesa” che sto compiendo da investito di Potere Sacro, Cuore del mondo, Inno di lode al Padre, Nutrimento capillare di ogni uomo, e prego per voi, fratelli e sorelle scidesi, perchè possiate ricevere dallo Spirito il dono do godere di questa gioia e partecipare a questa giovinezza...Sono in attesa dell'alba del “Giorno del Signore”, quando Egli sentenzierà: “Basta! Oggi si volta pagina!”. Allora sarò lieto se potrò dire a Lui che mi accoglie:


Non meno eloquenti alcune delle  riflessioni disseminate nei suoi numerosi libri: 

   La fede non è sapienza comune; è voce di Dio e risposta dell'uomo, è una vita affidata alla parola di Dio. L'uomo credente gioca il suo futuro ponendolo nelle mani di Dio. Fede non è una decisione umana o un sentimento buono da accogliere e seguire. E' un'avventura straordinaria e stupenda sganciata da ogni logica umana e lanciata all'incerto destino preparato da Dio. Per credere bosogna amare. Crede chi ama.” (Fede e Liberazione pag 47)
 
   Quanto avviene nell'uomo rinato dalla fede non è meno straordinario del sorgere della tomba di Gesù, vivo. IL fatto accaduto a Gerusalemme, la mattina dell'otto aprile dell'anno 30 fu il più prodigioso evento della storia, avveratosi sulla terra, fuori dalle leggi della natura . ( Ibidem, pag 50)

   Quando la fede si annebbia, o scompare, l'uomo sente il bisogno di sostituirla con fantocci truccati o con “corone di oro” poste sulla testa dell'immagine o del Santo, che, vivente, mai desiderò un tal segno onorifico né avrebbe permesso di farlo dopo la morte. Per gli uomini fragili e vanesi, deboli nella fede, è più comodo collocare una corona sul capo di una statua, che meditare e imitare gli esempi della sua vita. (Ibidem Pagg. 52-53)

    L'amore è nucleo essenziale del Cristianesimo, ma disgiunto dalla sua sorgente, perde la qualifica di autenticità e si configura come umana filantropia, ammirevole ma estranea al cristianesimo e svuotata di valore teologico. (Ibidem, pag.78)
 

   Gesù non fece male ad alcuno, e morì vittima innocente; ma il suo sacrificio germogliò in un roseto di iniziative, impensabili prima di Lui, che mutarono il volto della terra. Egli si fece immagine di Dio “Padre”, si collocò sempre dalla parte dei poveri, insegnò che Dio atterra l'orgoglio dei superbi, umilia i potenti, rende giustizia ai perseguitati, premia gli innocenti.
(Ibidem, Pag 138)

    Sul fondale degli avvenimenti del 1929/31, l'immagine del Vescovo Peruzzo si staglia nitida e lucente, serena e ferma. Nel breve tempo trascorso in Oppido seppe ritagliarsi un ruolo specifico, inconfondibile e originale. Uomo di grandi virtù e di straordinarie capacità. Arrivò in Oppido dopo tre giorni di pioggia torrenziale, il 17 febbraio 1929. Appena giunto, il cielo volle fere festa: le nubi si diradarano, fugate dal vento dell'entusiasmo, e un solo splendente lo accolse.( “Azione Pastorale…” Pag 164)

    La Chiesa predica contro la ricchezza, biasima la prepotenza, rifiuta l'autoritarismo, ma nella pratica essa si è sempre trovata a suo agio con queste malvagie potenze. (IbidemPag 199) 
 
   Una lunga e fruttosissima esperienza pastorale che si può sintetizzare mirabilmente con le stesse parole di don Rullo in una preghiera commossa di rendimento di grazie e lode a quel Dio che egli ha amato con tutto se stesso:

     TI RINGRAZIO, SIGNORE, per me che hai scelto, mi hai corredato dell'esperienza di due tempi contraddistinti della Chiesa (quello preconciliare e quello postconciliare) e favorito del privilegio di servirti e di servire questi compagni di viaggio e fratelli di fede, per oltre cinquanta anni.

     TI RINGRAZIO, SIGNORE, per questo popolo che, per Tua Benevolenza, oggi è più attivo e più responsabile che nel passato. Vede meglio! Cammina più sicuro verso di TE! Si sente più libero e più contento nel suo procedere quotidiano.


BIBLIOGRAFIA DI DON SANTO RULLO


1 - Una Parrocchia Del Sud – San Biagio Di Scido - Gangemi Editore 1991
2 - Scido Cammino Di Una Comunità - Gangemi Editore 1993
3 - IL Seminario Di Oppido Nei Suoi Tempi - Ed. Off. Grafiche 1995
4 - Ricordo Di Mamma - De Pasquale Ed.
5 - Popolo e Devozioni Nella Piana Di Gioia Tauro - Laruffa Editore 1999
6 - Azione Pastorale Dei Vescovi - Laruffa Editore 2001
7 - Cronografia Vescovile Taurianese e Oppidese - Tauroprint Ed. 2002
8 - Piminoro Dalle Serre All'Aspromonte - Calabria Let. Ed . 2004
9 - Ti Ringrazio Signore, Scido Una Chiesa tra Sogno e Realtà - Laruffa Editore 2004
10 - Archivio Della Diocesi Di Oppido – Palmi - Nuove Ed. Barbaro 2005
11 - La Vergine Annunziata In Oppido Mamertina - Laruffa Editore 2006
12 - Fede e Liberazione - Laruffa Editore 2008
13 - Preghiere di Uomini Illustri - Nuove Ed. Barbaro 2008 

BREVE ESEMPLIFICAZIONE DEI SUOI INNUMEREVOLI  ARTICOLI

“ Storia di una Chiesa, San Rocco in Tresilico - Calabria Letteraria 1989
“ Il Bicentenario Del Seminario Di Oppido ” - Calabria Sconosciuta, n 59 - 1993
“ Delianuova Sede Vescovile e Curiale Temporanea “ - Historica 1993
“ Un personaggio liberare dell,'800: Giorgio Curcio - Cala bria Letteraria 1994
“ Intorno alle origini della Diocesi di Oppido - Historica n 30 1995
“ Oppido Mamertina nel primo ventennio del XX sec. Calabia Sconosciuta, n 72 1996
“ Un convegno storico... senza convenire - Corriere di Reggio 1997
“ Una eminente personalità ecclesiastina in Oppido Mamertina”: Vito Cina - Historica 1997
“ IL Vescovo Curcio per la Chiesa di Cosoleto - La Procellaria, n 1 1999
“ Una sfida alla secolarizzazione: in marcia una schiera di Santi”: Calabria Sconosciuta, n 104 2004