martedì 15 maggio 2018

“L’Aspromonte sarà la nostra fabbrica”: “LA MALIGREDI” E GIOACCHINO CRIACO

                                           di Maria Zappia
     Un progetto, una speranza, una sfida di Gioacchino Criaco : ricostruire attraverso i brandelli ancora vivi del parlato e della storia minima dei nostri paesi una dimensione culturale perduta alla quale aggrapparsi per ritrovare se stessi. Non è la posizione dell’intellettuale di maniera (fortunatamente ormai inesistente da queste parti se si escludono alcune scimmiottature fumettistiche) e nemmeno quella dell’intellettuale gramsciano soffocata se non altro da un diluvio di parole in libertà  che affollano i social. E’pura ricerca  condotta con mestiere invidiabile, tale da consentire a questo grande autore di non essere mai ripetitivo anche all’interno della straordinaria fecondità delle sue ormai innumerevoli pagine, come osserva Maria Zappia, a sua volta sobria e riservata, attenta e capace di vero stupore per la grandezza sacrificata e mistificata della nostra terra in questa bella e ricca  pagina che è senz'altro molto di più di una recensione. (Bruno Demasi)
      . . .
   “Sulla bocca di Papula la parola si fa padrona e ti porta su e giù fra dimensioni diverse, e poi ti molla per farti padrone a tua volta e dirigere il gioco secondo la tua fantasia, e scoprire i pesi che ognuno si porta sulle spalle fino a capire dove sta il nemico, a volte dentro, poi fuori e infine accanto, che tutto in fondo è un’andata e un ritorno, e la parola incendia la paglia che tutti abbiamo dentro un fuoco che diventa solo nostro”.
   "È una gabbia che chiude altre gabbie, e la libertà è solo quell’attimo di distrazione in cui un guardiano si scorda la porta aperta e una prigione col cancello spalancato non è più prigione. Bisogna coglierlo, l’attimo di disattenzione, perché non dura in eterno. L’Aspromonte questo è, una gabbia, come tutto il resto del mondo. Solo che da qui, insieme agli abitanti, se n’è andato anche il custode, pensando che non ci sarebbe stato più nessuno da sorvegliare. Se ne deve approfittare fino a quando non torna indietro”. “Ma l’Aspromonte è fatica, è solitudine,” gli ribatteva Antonio. “No,” rideva u zzu, “è esercizio fisico e spirituale. Per capire questo monte, il desiderio di libertà bisogna averlo dentro.” E si vede che io ce l’avevo avuto sempre dentro il desiderio di libertà, perché ci stavo bene qui, e se ci avessi potuto portare tutta" 

   “ Ma con lui non era importante comprendere, bastava seguirlo; in fondo non m’interessava avere la coscienza, come diceva spesso Papula, avevo scoperto che l’azione era la cosa più eccitante che c’è, che mi faceva davvero battere a mille il cuore, mi scioglieva il cervello, più della dolcissima rossa che mi aveva iniziato all’amore a Messina, dalla signora Pisano. Sì, l’azione era il fatto più magnifico che c’è, più del toro di san Bastiano e di don Santoro Motta. “Noi ce l’abbiamo una fabbrica grande, più grande di molte che stanno al Nord o in Germania: l’Aspromonte,” proclamò, con la voce che rimbombava anche se non aveva il microfono. Facemmo la faccia della meraviglia, e avevamo ormai capito che a lui piaceva questa espressione perché le cose che ci diceva, anche se erano molto pratiche, lui le raccontava, non le spiegava, le trasformava in cuntu come le vecchie delle rughe, solo che le favole di gnura Cata a papa servivano a farci trascorrere le lunghe sere invernali, ci passavano ciò che era già successo. Le favole di Papula invece si immaginavano il futuro, costruivano per noi un mondo in cui portarci anche il nostro passato, solo quello che secondo lui era stato il migliore. L’Aspromonte per Papula era il passato migliore che avevamo avuto, perché nonostante i tiranni, i padroni che avevano cambiato di nome col trascorrere dei secoli, le malattie, le catastrofi, il sudore e la fame, era stato l’unico a proteggerci. Eravamo qui perché lui ci aveva covato come una chioccia – anzi lei, perché Papula sosteneva che era una femmina, una grande madre che aveva concepito il popolo dei monti, che lo aveva riscaldato con l’alito caldo del suo sposo, il Libeccio, il vento che aveva portato il respiro del deserto e la sua linfa, che aveva riempito di latte le verine della montagna per sfamarci. Africo che nonostante i tanti nemici era ancora qua a gridare la sua esistenza. E se l’Aspromonte ci aveva nutrito per tanti mila anni avrebbe potuto continuare a farlo per molti mila anni ancora. “L’Aspromonte sarà la nostra fabbrica.” Le parole di Papula andarono dappertutto nella piazza, la sua faccia si trasformò, la pelle del viso si raggrinzì, diventò bianca, e gli occhi accesero un mondo antico, mi mostrarono una montagna che non avevo mai conosciuto, che avevo visto poche volte, che quasi tutti in paese vedevano almeno una volta l’anno, per il pellegrinaggio che si faceva al paese abbandonato in maggio, in onore del santo che trasformava la pece in pane, la fatica in nutrimento. Leo."
   Feltrinelli ci dona “La Maligredi”, un romanzo corale, il quinto dello scrittore Gioacchino Criaco in cui i dati reali, tutti collegati allo sradicamento forzato e malriuscito degli abitanti di un paese del Sud Italia - Africo - , vengono sapientemente trasfigurati dall’autore e costituiscono l’occasione per portare alla luce situazioni e dinamiche sociali che sono state o volutamente rimosse dalla storiografia contemporanea, nazionale e locale, ovvero raccontate diversamente, non certo ascoltando la reale voce dei protagonisti. 

   Nel romanzo, in un microcosmo lontano dal progresso e dalle contestazioni del ’68, immerso in una realtà fatta di solidarietà e di intensi legami di vicinato, si forgia la personalità di Nicola mediante l’acquisizione di valori di elevatissimo contenuto etico nel senso dell’azione piuttosto che della cupa rassegnazione I personaggi sono tantissimi e tutti ricchi di sfumature così come il registro linguistico dell’opera che va dal dialetto, al linguaggio giovanilistico, alla parlata grecanica, con sfumature liriche soprattutto nelle descrizioni dell’ambiente naturale aspromontano, patria ideale, dello scrittore.
   La narrazione si dipana sia nella descrizione della storia individuale di Nicola e sia nel tracciato di fatti storici e vicissitudini di un’intera generazione di abitanti della Calabria, ai quali il boom economico degli anni ’60 giunse a brandelli e sotto forme sbagliate. Dalla fascinazione che le parole di un giovane anarchico soprannominato “Papula”, sovvertitore di folle di giovani e donne generano nell’adolescente protagonista; che assorbe nel medesimo tempo, i racconti delle donne nei vicoli, in quanto il televisore non è proprietà di tutti, si comprende la traccia ideale dell’opera e l’orientamento dello scrittore che in maniera riduttiva, viene spesso collocato in Italia, tra gli autori di noir.
   Ritroviamo il carabiniere in pensione che funge da immagine speculare, quasi una linea di congiunzione tra lo Stato con le sue esigenze di ordine e il disordine della vita dei giovani protagonisti che sopravvivono con le madri nelle rughe, le figure dei pacieri, quelle dei pastori, l’importantissima immagine di Lidia, vedova bianca a causa dell’emigrazione e madre del protagonista Nicola. Tanti personaggi realmente vissuti nella Africo di quegli anni e tuttavia rivisitati, nel carattere e nei gesti, dall’autore al suo quinto romanzo e dunque al raggiungimento di una piena maturità espressiva. 



   Non mancano, i “malandrini” i rappresentanti della malavita locale, i perniciosi alleati della piccola borghesia terriera, che di fatto, hanno strangolato l'economia dei luoghi ferendone, in maniera irreversibile, gli assetti sociali. Nella visione dello scrittore, tuttavia, sono proprio questi personaggi, in taluni passi descritti con toni caricaturali, ad essere sminuiti: eroi deteriori, che cedono il passo ai personaggi dotati di virtù e, sia pur nel contesto narrativo, sono permeati da un desiderio di elevazione morale per sè stessi e per l'intero paese.
    E’ evidente che, in questo romanzo, più che nei precedenti, emerge l'abilità letteraria di Criaco che servendosi di Nicola e trasfigurando i dati reali (rivolte delle raccoglitrici di gelsomini e ai movimenti anarchici dell’area jonica) manifesta il proprio pensiero in relazione alle dinamiche criminali esistenti nel Meridione, ai guasti determinati dall'emigrazione forzata, all'assenza di corrette politiche di sviluppo economico individuando, al contempo, la via per risolvere le fratture esistenti. Una via che consiste nel correggere il rapporto tra sviluppo urbanistico e ambiente, nell’attribuire la giusta collocazione agli apparati statali, nel superare tanti stereotipi legati al sottosviluppo del meridione, aventi oramai puro significato folklorico e nel riscoprire, reinterpretando correttamente le parole, concetti antichi radicati nella cultura magnogreca dalla quale l’autore, che proviene dai luoghi narrati nel romanzo, si sente erede. In una parola: emancipazione da modelli deteriori mediante il recupero di un’identità culturale importante e rivisitazione, in senso propositivo e giammai nostalgico, del rapporto tra intellettuale e terra di origine.