domenica 23 ottobre 2022

I RAPPORTI POLITICI E CULTURALI TRA RHEGION E ATENE (di Felice Francesco Delfino)

    Felice Francesco Delfino , nato a Oppido Mamertina nel 1979, è storico profondissimo e puntiglioso, autore, tra l'altro, di numerosissimi studi sul passato antico della nostra terra reggina e, in particolare, sugli insediamenti ebraici in Calabria ( Si ricordi a tale proposito la sua corposa e pregevole monografia dal titolo "La presenza ebraica nella storia reggina"- Disoblio Editore). E' anche narratore di qualità e in tale chiave recentemente ha dato alle stampe il romanzo noir "Inganno d'autore".  In questo studio sui rapporti tra Rhegion e Atene, ci offre un'attenta e suggestiva  analisi divulgativa che mancava  sicuramente alla nostra storiografia locale . (Bruno Demasi).

     E’ un tema , questo, caro a molti studiosi specialmente locali, ma il limite di tanti studi e di tante pubblicazioni finora fatte è stato ed è quello di focalizzare l’attenzione su questioni particolari, piccoli episodi o medaglioni della storia più grande e complessa, spesso anche solo dettagli. Chi legge, in questi casi (che sono poi la grandissima maggioranza) non riesce a comprendere il quadro di insieme della storia di un’epoca. Per questo motivo cercheremo in questo breve appunto di ridefinire con linguaggio semplice e divulgativo contorni e contenuti di una vicenda che vede protagoniste due grandi città del Mediterraneo: Rhegion (oggi Reggio Calabria) e Atene. Rhegion è stata di certo una delle poleis magnogreche più importanti della Calabria insieme a Locri Epizeferi, anche per i suoi stretti rapporti con la Madrepatria. Tuttavia, prima di addentrarci a considerare tali rapporti, sarebbe opportuno osservare ciò che succedeva ancor prima della fondazione di Rhegion, nella penisola ellenica.

    In Grecia le poleis fioriscono dopo il periodo buio del Medioevo greco e le due poleis per antonomasia sono Sparta e Atene. La definizione di poleis ci viene data in primis da Aristotele nella sua Politica intese come pluralità e insieme di cittadini. Sparta e Atene erano le due maggiori città Stato in Grecia ed ebbero un rapporto ambivalente tra loro: prima alleate poi rivali. Sparta e Atene combatterono insieme la battaglia di Maratona del 490 a.C. o ,meglio sarebbe dovuto accadere , se non fosse successo che gli Spartani al primo scontro degli Ateniesi, appoggiati dai Platesi, contro il più forte e numeroso esercito persiano, non si fossero presentati in ritardo all’appuntamento a vittoria ateniese già conseguita.
 
    La scusa che diede prima sconcerto, ma poi fu accettata fu attribuita al fatto che una lunga festa avesse impedito agli Spartani di partire prima e in Grecia, era ben nota la religiosità di Sparta che sfiorava la superstizione. Tuttavia, il nemico persiano era tutt'altro che abbattuto e aleggiava ancora il pericolo incombente da parte degli Ateniesi di perdere lo status di uomini liberi e diventare sudditi della Persia. Difatti il re persiano Serse con la sua flotta nel 480 a.C. aveva attraversato il Bosforo ed era giunto a terra, mentre altre flotte persiane costeggiavano per dare rifornimenti alle truppe. Temistocle, organizzava la difesa greca e doveva scegliere il sito ove combattere contro il nemico. L'opzione Termopili, etimologicamente “Porte Calde" si prefigurava come quella più favorevole. L'esercito spartano guidato da Leonida al sito delle Termopili, una stretta gola di una montagna a nord di Atene e a sud della Tessaglia, entrerà nella leggenda per il valore dei suoi trecento soldati che ispirarono il film “300”. Nei primi due giorni, l'esercito persiano fu allontanato, ma il terzo giorno successe l'imprevedibile: Efialte, un pastore della zona, un traditore, prese accordi col re persiano Serse di indirizzare l'esercito attraverso un sentiero che conduceva in un preciso punto delle Termopili al fine di attaccare i Greci alle spalle. La situazione pertanto si ribalto' e l'esercito greco subì diverse perdite. La sconfitta sembrava vicina, ma Leonida, non volendo neanche considerare l'onta della resa, con i suoi trecento valorosi decise che avrebbe proseguito con coraggio la resistenza fino alla morte. E così fu sino l'ingresso nel mito. 

    La strada verso Atene per i Persiani era però ancora aperta. Gli abitanti di Atene furono condotti a Salamina dove assistettero in lontananza all'incendio dell'Acropoli di Atene. Gli Ateniesi poi non seguirono il consiglio degli alleati di recarsi nel Peloponneso e Temistocle era convinto dello scoraggiamento persiano per via della mancanza della flotta che non avrebbe permesso la vittoria e preparò l'indomani una battaglia via mare. Gemiti, urla ricoprivano le distese del mare finché non li assopì il volto oscuro della notte – scrisse il grande Tragediografo Eschilo che partecipò alla battaglia di Salamina.
    A questo proposito è importante sottolineare, come e quanto tutti e tre i grandi tragediografi greci: Eschilo, Sofocle e Euripide sono legati a Salamina: Eschilo vi combatté, Sofocle scrisse i Peana in nome di Apollo per celebrare la vittoria dei Greci, Euripide vi nacque proprio nel 480 a.C.

    Serse dunque fu sconfitto e con una piccola parte del suo esercito tornò in Persia, ma una moltitudine dei suoi uomini rimase in Grecia sotto il comando del generale Madornio che fu sconfitto a Platea in Beozia nel 479 dalle truppe alleate guidate dal reggente Pausania. Infine a Micale la flotta persiana fu definitivamente sconfitta e la guerra si concluse a favore dei Greci. Sconfitto Serse, l'alleanza tra Sparta e Atene non ebbe più ragione d'essere e le due città da alleate, dopo quello che i studiosi hanno chiamato la Pentacontia, un governo di 50 anni, diventano rivali e contendenti. Ad Atene ci sono trent’anni di sommossa, scoppia nel 431 aC la guerra del Peloponneso, che interesserà, come tra poco vedremo, anche l'antica Reggio Calabria.
   Nell'VIII secolo, cioè circa tre secoli prima di questa lunghissima guerra, si era progressivamente consolidata nel Meridione della nostra Penisola la Magna Grecia in virtù dell'espansione ellenica in Occidente e precisamente nell'ampia area geografica comprendente le attuali Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e l Sicilia. Reghion (Reggio Calabria) era stata fondata nel 713 a.C. dai Greci Calcidesi in prossimità del fiume Apsias, (Calopinace) seguendo i suggerimenti dell'oracolo di Apollo in Delfi.
    Nel V secolo Rhegion ebbe un periodo fiorente sotto il tiranno Anassila e un ruolo culturale di primissimo spessore grazie ad eccellenti figure del calibro del bronzista Pitagora, (colui che a quanto pare realizzo' uno dei Bronzi di Riace), Ibico e Learco. Dopo il periodo dei tiranni, lo scenario in riva allo Stretto tra Reghion e Messana appariva un po’ diverso. 

  A Rhegion, quando il conio viene ripreso viene riutilizzata per le monete l'effigie della testa del leone e nel verso la divinità sul trono con figure animali, quali il gatto, l'airone, il cigno, la papera, il cane e il serpente, quest'ultimo con collegamento a Giocasto, al quale a Rhegion era stato dedicato un mausoleo sul promontorio di Punta Calamizzi Pallantion. E probabilmente anche il serpente era collegato al dio greco della medicina Asclepio.

   Nel 431 a.C. in Grecia scoppia la guerra mondiale dell’antichità ellenica, vale a dire la guerra del Peloponneso e, a detta dello storiografo Tucidide, a Reghion ci fu un periodo di sommosse. Rhegion doveva difendersi dai Siracusani e dagli alleati Locresi e stipulò un ‘alleanza con l'Atene di Pericle, al fine di mantenersi libera ed autonoma dalle loro influenze. Pericle con l’alleanza con Reghion voleva impossessarsi del grano siciliano e avere saldo il controllo dello Stretto. I Reggini cercavano di contro una riscossa contro i Locresi, che dopo la morte di Anassila avevano preso il controllo di Capo Eracleo e dei suoi porti fino al Kaikinos. Per difendersi dai Siracusani, Rhegion aveva stretto alleanza con Messana, Katana e Leontinoi. Atene si alleò con tutte le città calcidesi della Magna Grecia. Tra tutti i nuovi alleati il più forte era certamente Rhegion per via della flotta navale che garantiva sicurezza nelle acque dello Stretto. E’ documentato che alla fine del IV secolo la sua flotta contava di 80 triremi tirate da 16.000 rematori. 

   Con lo scoppio della guerra del Peloponneso, Rhegion diveniva una base importante per Atene per effettuare operazioni militari lungo lo Stretto e la Sicilia orientale. Due operazioni importanti furono l’attacco verso il vecchio confine di Capo Spartivento e il tentativo di conquistare Lipari con attacchi congiunti reggini – ateniesi per mare e per terra, tutti con esito non favorevole. La guerra del Peloponneso si concluderà con la Vittoria della Lega Peloponnesiaca guidata da Sparta e la dissoluzione della Lega Delio- Atrica.
    La stretta e persistente allenza Rhegion - Atene è attestata da un reperto archeologico: una tavoletta che, posta un tempo in città , all’esterno della Banca d'Italia sul Corso Garibaldi, oggi è esposta nelle sale del Britsh Museum a Londra.

    Occorre anche ricordare che nel 446 era accaduto un altro evento importante: Eucratos, importante politico di Siracusa, aveva compreso bene i piani di Pericle che non erano quelli di favorire le città magno-greche ma solo di accaparrarsi il grano siciliano e avere un punto strategico sullo Stretto. Pertanto, il politico aveva fatto realizzare una Conferenza di Pace a Gela convincendo anche con lo slogan “La Sicilia ai Sicilioti” a tenere Atene lontana dagli affari della Sicilia e convincendo anche i Reggini a farlo. In virtù di questa conferenza, quando nel 415 arrivò a Rhegion la flotta di 200 triremi guidata da Nicia, i Reggini non li fanno transitare in Sicilia, ma li fanno sbarcare nella rada vicino al tempio di Artemide e il porto.
    Vicende tutte che dall’epos sembrano trascendere quasi nel mito, ma che hanno una loro chiarissima concretezza storica e che attestano ancora una voilta, qualora ve ne fosse bisogno, quanto grande sia stata la linea di continuità tra Atene e la città in riva allo Stretto che , persìino nel nome, indica ancora una nobiltà assoluta ormai dimenticata.

lunedì 10 ottobre 2022

La penna del Greco: PASCALI SORRIDEVA SEMPRE (di Nino Greco)


    La penna del Greco aggiunge stavolta una luce nuova, e da un’angolazione del tutto particolare, a quella tristissima vicenda che negli anni Sessanta vide protagonista Oppido Mamertina e l’Aspromonte di una tragedia strana i cui contorni non furono mai del tutto definiti. Si trattò di un avvelenamento collettivo che fece molte vittime, in particolare bambini, frutto sicuramente dell’arretratezza pasticciona e dell’arte di arrangiarsi tutt’oggi imperversanti. Dopo aver destato molto scalpore e portato a lungo ai disonori della cronaca il Centro Aspromontano, lo scandalo fu subito sommerso dalla retorica diseducativa dei media e da quella , non meno ipocrita, dei politici dell’epoca.
    Nino Greco ancora una volta in questo inedito dà una lezione di rara maestria narrativa, centellinando le parole una a una in una sintesi semplicissima ed eloquente che restituisce vita ad alcuni personaggi di questa tristissima storia: Pascali, la madre, il mondo rurale oppresso non solo dal male imperversante, ma anche dal sospetto, dalla paura, dai “si dice” mai verificati e amplificati di bocca in bocca fino al parossismo.
    Sullo sfondo il lavoro pesantissimo delle donne, la povertà incontrastata, l’azione educativa e protettiva delle suore di Sainte Jeanne Antide Thouret che tanti bambini hanno accolto , difeso e aiutato nell’ Asilo di Oppido come in tantissimi altri delle Calabrie e dell’Italia intera.
    Anche per questi ricordi, per il non scritto, ma suggerito, per il non detto, ma solo accennato, occorre accogliere con gratitudine questa pagina che fa ripensare commossi al nostro passato e fa rivivere la nostra lingua vera, nella quale l’ordito dell’Italiano colto riceve la trama di tanti nobili termini dialettali altrimenti dimenticati.   (Bruno Demasi)


PASCALI SORRIDEVA SEMPRE


    Pascali era il mio compagno di asilo con cui mi trovavo spesso a giocare. Sorrideva sempre nonostante non avesse la mia stessa agilità: quella gamba era più sottile dell’altra e portava una scarpa diversa e più grossa.
   Non gli avevo mai chiesto il perché di quella differenza: per me era Pascali il compagno preferito e, quando salivo sulla giostrina che c’era al centro del vagghju dell’asilo, lui si sedeva su una sedia accanto, si divertiva a farla girare spingendola con le mani, e rideva. Era una giostra piccola circolare con i colori in alcuni punti sopraffatti dalla ruggine ed era l’unico svago, a parte delle palline di plastica, che ci offriva l’asilo.
    Tutte le mattine le nostre mamme ci lasciavano nel piccolo ingresso in presenza di una suora e poi andavano via: molte di loro lavoravano a “giornata” per la raccolta delle olive e l’asilo era “ ’na sarbazione”, dicevano.
    La scala sbucava nel piccolo androne da cui scendeva sorridente suor Immacolata.
   Appena arrivati lì, non facevamo altro che attendere lei, giunonica e accomodante, pronta alle tenerezze che si possono riservare a bambini e bambine di cinque anni. Lei ci accoglieva con il suo abituale abbraccio e con un sorriso raggiante; tra le suore era la più dolce e la più simpatica. Poi ci prendeva per mano e ci accompagnava nella sala per la colazione e quando il tempo era clemente ci portava direttamente fuori, nel patio. 

    Dalla finestra della piccola cucina, attigua al cortile, compariva il volto severo di Pascalina; capelli neri corvini legati con le trizze che le contornavano il capo come una corona. Il suo sguardo era sempre serio e deciso. La temevamo un po’ tutti, di più chi si rifiutava di bere il bicchiere di latte tiepido e senza zucchero che lei riempiva con un mestolo, dosandone la quantità dopo averlo pescato in uno stagnato di alluminio.
   Io qualche volta mi ero rifiutato di berlo, non mi piaceva, ma il grugno di Pascalina e le parole tenere di suor Immacolata mi avevano convinto a fare quel sacrificio. Pascali invece lo beveva volentieri, non se lo faceva dire due volte: era buono e ubbidiente.
   Era l’ultimo anno di asilo, l’anno dopo ci saremmo ritrovati in grembiule nero e fiocco pronti a iniziare l’avventura scolastica tra i banchi delle Elementari.
   Non fu un’estate facile; quell’anno il paese visse uno dei momenti più drammatici della sua storia. I giorni a cavallo di Ferragosto divennero tragici e convulsi. Le auto iniziarono durante la notte, prima della festa, ad allertare, con i clacson a suono continuo, tutto il paese; il giorno dopo il via vai continuò e l’ospedale venne preso d’assalto dai continui soccorsi.
   Io, che nei vicoli dell’Ospedale ci vivevo, appena sentivo un clacson, anche in lontananza, spinto dalla curiosità correvo in direzione della porta d’ingresso dell’ospedale per andare a vedere chi e per che cosa vi fosse stato portato. Era l’abitudine di tutti i ragazzi della ‘rruga: quando sentivamo arrivare un’auto che si apriva la strada a suon di clacson non potevamo mancare e spesso arrivavamo prima dei portantini. 


   Le corse, in quei tristi giorni, furono tante. Il paese era in subbuglio; la sera prima a mio padre, tornando con l’asino dalla “Foresta” sequestrarono una cofana di pomodori e una di fagiolini. I motivi erano sconosciuti; il paese sembrava fosse vittima di un morbo oscuro che continuava a mietere vittime e la confusione regnava sovrana.
   Fu quel giorno stesso che sul sedile posteriore di una Fiat 1100 nera, dopo essere stato tra i primi curiosi a giungere davanti all’Ospedale, vidi Pascali sdraiato a pancia in giù, lo riconobbi dalla scarpa più grossa che portava al piede.
   Mentre un infermiere lo prendeva in braccio lo chiamai, non mi rispose; alzai gli occhi e in lontananza vidi arrivare sua madre a passo svelto con un pianto straziante come quello di colei che piange un figlio morto. Mi divincolai tra la folla e corsi a casa in preda a un magone, non volevo crederci, Pascali non mi aveva risposto e non era lì per colpa di quella gamba. 

   Era rimasto vittima anche lui, e non fu il solo della sua famiglia, di quel male, quell’avvelenamento collettivo, che stava ammantando di lutto le genti di tutto il paese e aveva spento il sorriso di quel bambino dal sorriso dolce che all’asilo, non potendoci salire, si divertiva a spingere la giostra mentre io ero seduto sopra.
   Pascali si divertiva anche così e sorrideva. 

   Sorrideva sempre.

mercoledì 5 ottobre 2022

GLI EBREI A OPPIDUM E NELLA VALLE DELLE SALINE IN EPOCA TARDOMEDIEVALE E MODERNA ( di Bruno Demasi)

 
Una memoria grata nella festa dello Yom Kippur 2022

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   Dalla sera di martedi, 4 ottobre alla sera di mercoledi, 5 ottobre cade quest'anno la più grande festività ebraica che ci riporta alla memoria il secolare sacrificio di tanti Ebrei anche dalle nostre parti, la loro lotta incessante per il progresso e la pace anche su queste tormentate contrade sempre contese aspramente da qualcuno.
 E' il  giorno considerato come il più sacro e solenne del calendario ebraico, giorno totalmente dedicato alla preghiera e alla penitenza e vuole l’ebreo consapevole dei propri peccati, chiedere perdono al Signore. E’ il giorno in cui secondo la tradizione Dio suggella il suo giudizio verso il singolo.
   E' anche il giorno  in cui le memorie sepolte riaffiorano urgenti e impetuose e ci fanno riandare a ritroso nei secoli per scoprire le tracce nascoste di una civiltà, quella ebraica a Oppido e in Calabria, mai sufficientemente considerata.
 

    Popolo estremamente pacifico, quello ebraico , arrivò infatti da queste parti non con la forza di eserciti agguerriti, così come avevano fatto i Longobardi, i Franchi, i Bizantini, gli Arabi, i Normanni e più tardi anche altri, e le sue vicende sono state tramandate in forma molto episodica e pochissimo adeguata a documentare con continuità e in modo congruo la complessità delle relazioni di questo popolo con i Calabresi in generale e con gli abitanti dell’ attuale Piana di Gioia Tauro, in particolare.
       Troppo spesso, infatti, i loro contributi culturali e sociali sono stati taciuti dagli storiografi coevi e, di conseguenza, ignorati dai più. Però sono presenti nella nostra tradizione popolare, ricordati, perché da sempre, in era cristiana, vengono associati al Golgota e all’odiosa usura o al pregiudizio dell’Ebreo condannato ad errare. Se è vero che la Diaspora ha inizio nel 132 d.C., dopo la totale e sanguinosissima sottomissione romana della Palestina , è anche vero che le prime piccole comunità ebraiche giungono anche nella Piana attuale solo sotto il dominio di Enrico VI e, successivamente di Federico II. Scrive in proposito Oreste Dito: “...stanziamenti ebraici erano a Nicastro, Monteleone, Tropea, Nicotera, Seminara, nelle due piane di S Eufemia e di Palmi. Nella zona montuosa dell’estremo lembo di Calabria, sono ricordati centri giudaici ad Arena, a Galatro vicino al Mètramo, e a Tritanti, frazione del comune di Maropati.” (- O. DITO, La storia calabrese e la dimora degli Ebrei in Calabria dal secolo V alla seconda metà del secolo XVI, 1979, p. 5.).
 
     Con l’espressione “Piana di Palmi” O. Dito va a indicare sommariamente un contesto geografico ed antropologico di grande spessore culturale e mercantile, nel quale pullulano le comunità ebraiche e i loro traffici. Da N verso S, con l’ausilio degli studi condotti dalla professoressa Roberta Tonnarelli dell’Università di Bologna, possiamo individuare almeno i seguenti insediamenti ebraici certi : Nicotera, Rosarno, Laureana, Galatro, Maropati e Tritanti, Melicucco, Cinquefrondi, Polistena, Gioia Tauro, San Giorgio Morgeto, Cittanova, Seminara, Santa Eufemia d’Aspromonte e Oppido che per la sua posizione strategica sulla Piana in epoca tardobizantina favorisce una posizione economicamente dominante anche per la comunità giudaica in esso ferreamente radicata.

  Si giocano su questo territorio che amministrativamente ha ancora come epicentro Oppudm (l'antica Hagia Agathè) mille storie di uomini e donne che gestiscono banchi di prestito, lavorano la seta e tinteggiano i tessuti, specie con l'indaco. Un popolo che ha dovuto far fronte ai primi problemi con gli Angioini, alla diffidenza della Chiesa, all'accusa di deicidio, ma che ha lasciato inevitabilmente tracce eloquenti della propria permanenza da queste parti.

Federico II, nel Parlamento generale di Messina, nel 1221 aveva esteso al proprio regno le disposizioni adottate nel quarto Concilio lateranense, nel corso del quale erano state stabilite le assise “contra judeos, ut in differenzia vestium et gestorum a christianis discernantur”. Tali disposizioni, volute da Innocenzo III, stabilivano il diretto intervento della Chiesa di Roma contro gli Ebrei e prescrivevano che essi portassero un segno di riconoscimento che per gli uomini era analogo a quello imposto ai giocatori d’azzardo.
Carlo I D’Angiò diede inizio a quella politica inarrestabile di decadenza del Regno, il quale interruppe il processo di sviluppo, che si era realizzato sotto il governo degli Svevi. I baroni ebbero mano libera e anche la vecchia Tourma delle Saline, la Piana, che aveva vissuto sotto l’amministrazione bizantina un’epoca decisamente felice e prospera, vessata dai baroni e da un clero, che godeva di moltissimi privilegi, andò incontro a un periodo di assoluta anarchia. “A tanto giunsero i costumi degli ecclesiastici sotto gli Angioini che furono necessari alcuni provvedimenti veramente caratteristici e che ritraggono l’ambiente morale in cui vivevano le chiese calabresi »”.( Ibidem, p 139 ) .

    Furono situazioni che determinarono sicuramente un esodo generale delle popolazioni che fuggivano sia la prepotenza baronale che l’arroganza del clero, ma gli Ebrei, che non si erano immischiati nelle varie contese, continuarono a curare i loro affari, anche perché restava di loro esclusiva pertinenza l’attività finanziaria, la quale giovava da una parte ai sovrani impegnati in estenuanti quanto inutili guerre e dall’altra ai vescovi, che sugli affari dei miscredenti riscuotevano le tasse.

E' anche significativo che nel XVI secolo mentre fuori dalla Calabria e dalla Piana le numerose Giudecche furono tramutate in ghetti, con l’obbligo per chi li abitava di non allontanarvisi, specialmente di sera o di notte, dalle nostre parti di ghetti non ne vennero creati, sebbene anche in questi paesi, nei loro quartieri (Iudeche o Mellah) gli Ebrei si reggevano con ordinamenti propri e secondo le proprie tradizioni. Costituivano, dunque, una comunità a parte, regolata da leggi differenti da quelle osservate dai Cristiani, quali, per esempio, l’osservanza dello Shabbah e la celebrazione della Pasqua. Per gli atti di culto avevano la loro sinagoga, piccolissima o grande che fosse, e per l’istruzione la propria scuola, che, spesso, coincideva con la sinagoga stessa. E comunque l’attività degli Ebrei si svolgeva soprattutto in campo economico e commerciale ed era proprio per l’impulso dato all’economia che essi non erano solo tollerati, ma anche favoriti .


    Gli Angioini non furono teneri verso gli Ebrei, ma non si può neanche dire che furono dei persecutori; si adoperarono per la loro conversione alla fede cattolica, favorendo in ogni modo chi operava questa scelta.
  
   Nel Parlamento tenuto a S. Martino, la città posta proprio ai bordi dell'antica Tourma delle Saline, il 30 maggio 1283, si decretò che agli Ebrei non fossero imposti dei gravami oltre a quelli esistenti e addirittura con l’editto del 1 maggio 1294 si concedevano particolari facilitazioni a chi di loro si fosse convertito alla fede cristiana, dando luogo a una serie infinita di conversioni coatte dei “Marrani”.
     A decretare la fine di un’epoca tutto sommato prospera per queste contrade, intervenne la cacciata degli Ebrei dal Regno, nel 1510, quando alla sostanziale tolleranza della Chiesa nei loro confronti, si oppose l’atteggiamento violento e rozzo dei sovrani spagnoli che, scacciando gli Ebrei dal Regno, non solo commisero un atto di feroce xenofobia, ma assestarono un colpo fatale all’economia dell’Italia meridionale, in generale, e della Piana di Gioia Tauro , in particolare.
Testimonianze onomastiche ebraiche nella Piana


   
Nomi legati al culto: Arone (spesso volgarizzato in Barone) è molto diffuso, e, oltre che dal nome Aronne, potrebbe derivare da Aron haKodesh Cuzzupoli (greco poulos = figlio), Cuzzilla; secondo alcuni, alla stessa categoria potrebbero appartenere cognomi come Piccolo . Appartenenza a famiglia sacerdotale potrebbero denotare cognomi come Previti, Lopresti, Del Prete, Lo Previti, Lo Prete. 
   Un ruolo molto importante avevano nelle comunità ebraiche i Dayanim (giudici), e da questi potrebbe derivare tutta una serie di cognomi: sebbene Morabito sia un cognome arabo, fu portato anche da ebrei, probabilmente studiosi e sapienti venuti da paesi arabi (marabutti). Alla sinagoga, chiamata moschea, musceta, meschita, ecc., potrebbe alludere il cognome Muscetta, Moschetta, Moschella. Allo shabbat rinviano molti cognomi, diffusi nella Piana : Sabato, Sabatino. Nomi augurali sono: B[u]ono (Tov), B[u]onanno (Shana tova), Fortugno/(B[u]ona) Fortuna/(Bona)Ventura (Mazal [tov]), Calì (dal greco = Buoni, Belli, ampiamente testimoniato come cognome di ebrei calabresi), Calò (tuttora cognome ebraico in tutta Italia, forse dal greco Kalònymos = Shem tov, buon nome).
Una categoria particolare di nomi è quella dei neofiti: Cristiano, Cristiani, (Di/De) Gesù, (Di/De) Cristo. Va ricordato anche il cognome Vitale/i, appartenente al grande cabbalista Chaim Vital Calabrese: questo cognome deriva proprio dall’ebraico chaim, che significa vita.