lunedì 10 ottobre 2022

La penna del Greco: PASCALI SORRIDEVA SEMPRE (di Nino Greco)


    La penna del Greco aggiunge stavolta una luce nuova, e da un’angolazione del tutto particolare, a quella tristissima vicenda che negli anni Sessanta vide protagonista Oppido Mamertina e l’Aspromonte di una tragedia strana i cui contorni non furono mai del tutto definiti. Si trattò di un avvelenamento collettivo che fece molte vittime, in particolare bambini, frutto sicuramente dell’arretratezza pasticciona e dell’arte di arrangiarsi tutt’oggi imperversanti. Dopo aver destato molto scalpore e portato a lungo ai disonori della cronaca il Centro Aspromontano, lo scandalo fu subito sommerso dalla retorica diseducativa dei media e da quella , non meno ipocrita, dei politici dell’epoca.
    Nino Greco ancora una volta in questo inedito dà una lezione di rara maestria narrativa, centellinando le parole una a una in una sintesi semplicissima ed eloquente che restituisce vita ad alcuni personaggi di questa tristissima storia: Pascali, la madre, il mondo rurale oppresso non solo dal male imperversante, ma anche dal sospetto, dalla paura, dai “si dice” mai verificati e amplificati di bocca in bocca fino al parossismo.
    Sullo sfondo il lavoro pesantissimo delle donne, la povertà incontrastata, l’azione educativa e protettiva delle suore di Sainte Jeanne Antide Thouret che tanti bambini hanno accolto , difeso e aiutato nell’ Asilo di Oppido come in tantissimi altri delle Calabrie e dell’Italia intera.
    Anche per questi ricordi, per il non scritto, ma suggerito, per il non detto, ma solo accennato, occorre accogliere con gratitudine questa pagina che fa ripensare commossi al nostro passato e fa rivivere la nostra lingua vera, nella quale l’ordito dell’Italiano colto riceve la trama di tanti nobili termini dialettali altrimenti dimenticati.   (Bruno Demasi)


PASCALI SORRIDEVA SEMPRE


    Pascali era il mio compagno di asilo con cui mi trovavo spesso a giocare. Sorrideva sempre nonostante non avesse la mia stessa agilità: quella gamba era più sottile dell’altra e portava una scarpa diversa e più grossa.
   Non gli avevo mai chiesto il perché di quella differenza: per me era Pascali il compagno preferito e, quando salivo sulla giostrina che c’era al centro del vagghju dell’asilo, lui si sedeva su una sedia accanto, si divertiva a farla girare spingendola con le mani, e rideva. Era una giostra piccola circolare con i colori in alcuni punti sopraffatti dalla ruggine ed era l’unico svago, a parte delle palline di plastica, che ci offriva l’asilo.
    Tutte le mattine le nostre mamme ci lasciavano nel piccolo ingresso in presenza di una suora e poi andavano via: molte di loro lavoravano a “giornata” per la raccolta delle olive e l’asilo era “ ’na sarbazione”, dicevano.
    La scala sbucava nel piccolo androne da cui scendeva sorridente suor Immacolata.
   Appena arrivati lì, non facevamo altro che attendere lei, giunonica e accomodante, pronta alle tenerezze che si possono riservare a bambini e bambine di cinque anni. Lei ci accoglieva con il suo abituale abbraccio e con un sorriso raggiante; tra le suore era la più dolce e la più simpatica. Poi ci prendeva per mano e ci accompagnava nella sala per la colazione e quando il tempo era clemente ci portava direttamente fuori, nel patio. 

    Dalla finestra della piccola cucina, attigua al cortile, compariva il volto severo di Pascalina; capelli neri corvini legati con le trizze che le contornavano il capo come una corona. Il suo sguardo era sempre serio e deciso. La temevamo un po’ tutti, di più chi si rifiutava di bere il bicchiere di latte tiepido e senza zucchero che lei riempiva con un mestolo, dosandone la quantità dopo averlo pescato in uno stagnato di alluminio.
   Io qualche volta mi ero rifiutato di berlo, non mi piaceva, ma il grugno di Pascalina e le parole tenere di suor Immacolata mi avevano convinto a fare quel sacrificio. Pascali invece lo beveva volentieri, non se lo faceva dire due volte: era buono e ubbidiente.
   Era l’ultimo anno di asilo, l’anno dopo ci saremmo ritrovati in grembiule nero e fiocco pronti a iniziare l’avventura scolastica tra i banchi delle Elementari.
   Non fu un’estate facile; quell’anno il paese visse uno dei momenti più drammatici della sua storia. I giorni a cavallo di Ferragosto divennero tragici e convulsi. Le auto iniziarono durante la notte, prima della festa, ad allertare, con i clacson a suono continuo, tutto il paese; il giorno dopo il via vai continuò e l’ospedale venne preso d’assalto dai continui soccorsi.
   Io, che nei vicoli dell’Ospedale ci vivevo, appena sentivo un clacson, anche in lontananza, spinto dalla curiosità correvo in direzione della porta d’ingresso dell’ospedale per andare a vedere chi e per che cosa vi fosse stato portato. Era l’abitudine di tutti i ragazzi della ‘rruga: quando sentivamo arrivare un’auto che si apriva la strada a suon di clacson non potevamo mancare e spesso arrivavamo prima dei portantini. 


   Le corse, in quei tristi giorni, furono tante. Il paese era in subbuglio; la sera prima a mio padre, tornando con l’asino dalla “Foresta” sequestrarono una cofana di pomodori e una di fagiolini. I motivi erano sconosciuti; il paese sembrava fosse vittima di un morbo oscuro che continuava a mietere vittime e la confusione regnava sovrana.
   Fu quel giorno stesso che sul sedile posteriore di una Fiat 1100 nera, dopo essere stato tra i primi curiosi a giungere davanti all’Ospedale, vidi Pascali sdraiato a pancia in giù, lo riconobbi dalla scarpa più grossa che portava al piede.
   Mentre un infermiere lo prendeva in braccio lo chiamai, non mi rispose; alzai gli occhi e in lontananza vidi arrivare sua madre a passo svelto con un pianto straziante come quello di colei che piange un figlio morto. Mi divincolai tra la folla e corsi a casa in preda a un magone, non volevo crederci, Pascali non mi aveva risposto e non era lì per colpa di quella gamba. 

   Era rimasto vittima anche lui, e non fu il solo della sua famiglia, di quel male, quell’avvelenamento collettivo, che stava ammantando di lutto le genti di tutto il paese e aveva spento il sorriso di quel bambino dal sorriso dolce che all’asilo, non potendoci salire, si divertiva a spingere la giostra mentre io ero seduto sopra.
   Pascali si divertiva anche così e sorrideva. 

   Sorrideva sempre.