mercoledì 20 settembre 2023

LA VERITA' SULLA COSIDDETTA "BATTAGLIA DELLO ZILLASTRO" ( di Rocco Liberti )

COME  SI E' GIUNTI A CONOSCERE E A CELEBRARE
  UNA PAGINA DI STORIA  A LUNGO DIMENTICATA
  
                      Guarda un po’, quel che non ti aspetti! Girando e rigirando per i tanti pdf che mi ritrovo sul computer, proprio a ridosso della manifestazione svoltasi per l’ennesima volta in montagna nella giornata dell’8 settembre 2023 mi sono imbattuto in questa che doveva essere la presentazione a Oppido del libro del prof. Agazio Trombetta da poco estinto e che non si è tenuta non so per quali cause. Dichiaro onestamente che non ne avevo più la minima idea. Non ricordavo proprio di averla scritta, né di averla pubblicata, ma, tant’è, è mia e non ci sono dubbi. Poiché la stessa riporta tutte le tappe che si sono susseguite dal primo timido tentativo di onorare le persone morte per una tragica fatalità, la propongo grazie all’ospitalità dell’amico Bruno Demasi, che ringrazio (Rocco Liberti).


IL FATTO D'ARMI DI ZERVO' (1943) E GLI STUDI 
DEL PROF. AGAZIO TROMBETTA

    "Ci troviamo questa sera per rievocare un episodio doloroso della seconda guerra mondiale, che ci riguarda molto da vicino. Come tanti sanno, all'alba dell'8 settembre 1943, quando ormai l'armistizio era stato concluso, anche se non ancora pubblicizzato, nella vicina montagna, venne a compiersi l'ultimo fatto d'armi nella zona, un evento che si sarebbe potuto e dovuto evitare solo che i nostri governanti avessero dato gli ordini che necessitavano a tempo opportuno. In una notte in cui Giove Pluvio la faceva da padrone e una spessa nebbia impediva la piena visibilità, si trovarono accosto gli uni agli altri un contingente italiano di paracadutisti del Reggimento Nembo e reparti dell'esercito canadese. Alle prime luci dell'alba d'un tratto da parte italiana ci si accorse del pericoloso frangente, ma invece di filarsela alla chetichella e sperdersi nella boscaglia, tra i nostri militari, i quali, malgrado tutto, si sentivano ancora onorati di difendere la Nazione, prevalse la decisione di contrastare il passo a quello ch'era ancora da considerare il nemico. S'ingaggiò perciò un furioso combattimento e sul terreno restarono 5 italiani e 12 canadesi. I reparti canadesi, i cui effettivi erano in numero preponderante, ebbero presto ragione dell'esiguo drappello italiano e in breve fecero molti prigionieri.

   A quel tempo io avevo 10 anni non compiuti e ricordo benissimo il clamore che ne seguì e i commenti non proprio benevoli sul comportamento di gente dei paesi vicini e non, che arraffarono di tutto. Si trattò di operazioni non proprio encomiabili, ma allora tutto era scusabile. Quando imperversa la fame e per vestirsi o calzarsi bisogna ricorrere a tutti gli stratagemmi possibili non ci si può mettere certo a fare la predica. In simili contingenze le parole diventano purtroppo inutili. L'amico avv. Vincenzo Vadalà, che ha più o meno la stessa mia età, mi ha riferito di un contatto avuto nell’immediatezza dal padre con persona che si era approfittata di un certo oggetto. Conoscendo la di lui attività, calzolaio, si capisce benissimo di che cosa si sia trattato.

 
  Finita la guerra e tornati alla normalità, i resti dei poveri soldati, ch'erano stati inumati provvisoriamente in una o più fosse comuni, furono traslati, prima al cimitero di Oppido, quindi avviati alla propria destinazione. Dell'episodio si parlava sempre liberamente, ma soltanto a titolo di cronaca perché nessuno si era presa la briga di valorizzare il fatto d'armi, che, pure se di portata limitata, rendeva onore all'Italia tutta. Né il commissario prefettizio, il socialista De Zerbi, né il sindaco democristiano Carbone. Ma, a sei anni di distanza, nel 1951, esponenti del Comune con in testa il sindaco Remo Frisina, che capeggiava un’amministrazione di ex-fascisti, si recarono sul posto in cui quello si era verificato e provvidero a installare un Crocefisso e una targa-ricordo. Fu silenzio fino al 1963, quando il rag. Giuseppe Muscari, ex-segretario del Fascio ormai di stanza a Gioia Tauro, venne a sollevare la questione con la rivista "Il Borghese" parlando di morti abbandonati. Allora il ministero della difesa fu costretto a intervenire e a chiedere spiegazioni al Comune. Era sindaco l'avv. Giuseppe Mittica, democristiano, che subito si mise in movimento e riuscì a chiarire che tutto era stato sistemato a suo tempo. Toccato comunque dal tragico evento, quegli pensò, onde onorare degnamente i caduti, di realizzare un monumentino e negli anni ’70 il Crocefisso della località Zillastro era cosa fatta. Il manufatto non venne collocato nel posto in cui l’episodio si era verificato, ma al di fuori della pineta, onde godere di più facile accessibilità, per cui l’antica opera in pietra restò negletta e abbandonata.

  Arrivati nell'89 i "parà" della Folgore a Scido per un loro turno e venuto a conoscenza del fatto d’armi, il loro comandante si diede con altri ufficiali a interrogare chiunque fosse in grado d'indicare il posto esatto dove esso era accaduto e a recepire memorie in merito. Scarse e comunque lacunose queste, carenti del tutto risultarono le notizie sul primo. Cionondimeno, volendo ricordare e commemorare l'epica azione, d'accordo col Comune di Scido e la Comunità Montana di Delianuova, volle solennizzare il tutto varando una cerimonia con la celebrazione di una S. Messa e la presenza delle amministrazioni di Scido e Oppido Mamertina. Al momento, disconoscendo i particolari del fatto d'armi, o avendo a mente soltanto l'essenziale, la manifestazione si tenne avanti al Crocefisso dello Zìllastro, mentre i vari oratori enfaticamente amplificarono le notizie che appena appena si tramandavano, affermando illogicamente che si trattava chi di un fatto "sconosciuto" chi di un fatto "dimenticato". Non era vero. Semmai, si potrebbe dire con linguaggio moderno, “non reclamizzato”.

   Gli ufficiali della Folgore, nonostante reiterati tentativi per venire alla scoperta del luogo dell'evento, forse sviati da indicazioni false, non erano ancora venuti a capo di nulla, quando mi compare davanti proveniente da Reggio l'oppidese rag. Andrea Muscari. Questi, tra le carte del padre, aveva rinvenuto degli articoli che si riferivano proprio al fatto d'armi del 1943. Tra i vari fogli si trovava anche una fotografia che immortalava l’operazione del 1951. Fra essi risultava ancora una pagina di giornale, forse "La Voce di Calabria", con riprodotta una lettera del sindaco che iniziava con “Diamo onorata sepoltura ai nostri eroi” e la richiesta del Muscari a "Il Borghese".

    Avuto in consegna il tutto dall'amico, ho subito imbastito un articolo, dove ho ragguagliato i lettori allegandovi persino la foto. Ottenute alcune copie del giornale, ne ho dato subito una al defunto direttore delle Poste di Scido, Giovanni Foti, il quale, al corrente delle pene in cui a proposito ancora incorrevano i militari di stanza nel paese, nel quale si trovava a operare, me ne chiese altra da consegnare al comandante. Detto fatto. Non appena l'alto graduato ebbe scorso l'articolo, subito esclamò: Ah! Finalmente, comincia a farsi un po' di luce! e in men che non si dica si precipitò al Comune di Oppido, ove chiese delucidazioni sul posto segnalato e qualcuno che ve lo accompagnasse. Ormai, era la volta buona e in breve si riuscì a localizzare la zona, dove si rinvenne la croce, che si ritrovò piuttosto malconcia, ma ancora in grado di marcare il ricordo di tanta tragedia. 
   

Dal ritrovamento in questione è partita la serie di manifestazioni annuali, che si tengono la domenica in prossimità dell'8 settembre e la costruzione in zona più accessibile, a una cinquantina di metri, di un monumentino, accanto al quale fu riposta la vecchia croce, che venne restaurata per quanto possibile. Le manifestazioni sono curate dall'Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia e precisamente dalle sezioni di Calabria e di Sicilia e dal Comune di Oppido.

   Dopo il primo raduno è partito anche l'avvìo di ricerche serie per stabilire come realmente si fossero svolti i fatti e chi n'erano stati i protagonisti. Io stesso reiterai poco dopo con altri articoli, forte anche della cosiddetta “memoria Inga” consegnatami da mons. Antonino Dimasi di Varapodio. In seguito alla  prima manifestazione del 1989 militari e giornalisti si diedero da fare al fine di ottenere notizie sul fatto d'armi e ricercarono varie fonti. In primis si fece avanti il giornalista Antonio Delfino, che riuscì a recepire alcuni nomi e qualche fondato particolare sulla vicenda. In successione fu uno degli stessi protagonisti, il cap. Paolo Lucifora, allora sottotenente, residente a Rometta in Sicilia, a fornire più esatte e circostanziate note.

   Nell'anno 2000 l'episodio viene tratteggiato da Aldo De Jaco, che, riprende da me la "memoria Inga", ma a dire una parola chiara, facendo tacere racconti fantasiosi e memorie non troppo brillanti, ha pensato buon ultimo con amore di studioso e scrupolosità di ricercatore, doti che da tempo lo contraddistinguono soprattutto in ambito reggino, il prof. Agazio Trombetta, non nuovo a studi del genere, ch'è riuscito con un'ampia gamma di documenti ad aggiungere molti e risolutivi tasselli a una vicenda che si presentava ancora alquanto nebulosa. La sua ultima opera, infatti, presentata a Reggio qualche giorno prima della manifestazione in montagna nel settembre 2005, che ha inizio con lo sganciamento delle forze italo-tedesche dalla Sicilia, copre molte delle lacune che ancora si avevano sul fatto, che dovrebbe senzaltro considerarsi eroico. Egli, forte di una corposa appendice documentaria inedita, nella quale hanno posto il diario storico-militare del comando del XXXI Corpo d'Armata, il Diario storico del Comando del 143° Reggimento Costiero, Atti e Diario del 34° Reggimento Fanteria "Livorno", relazione del Comando del 185° Reggimento "Nembo", Atti dell'Ufficio Operazioni dello Stato Maggiore del Regio Esercito, ma, servendosi anche di fonti canadesi, del diario del col. Ganzini e delle testimonianze del cap. Lucifora, del ten. Romanato, del parà Savasta e riportando anche la "memoria Inga", oltre a far il dovuto riferimento a quanto già pubblicato, non solo delinea la situazione esatta quale si presentava nello scacchiere siculo-calabro, ma offre con altrettanta precisione quanto avvenne in quella fatale mattinata dell'8 settembre 1943 sull'Aspromonte, che così riassume: La battaglia dello Zìllastro si protrasse dall'alba fin oltre le otto del mattino. Lo scontro si svolse nel faggeto di "Mastrogianni" nel comune di Oppido Mamertina, in un paesaggio naturale di straordinaria bellezza, in prossimità di una vecchia e diroccata "casa cantoniera". Nel corso della breve e sanguinosa battaglia tanti ragazzi dell'VIII battaglione immolarono la loro vita combattendo contro quasi quattromila soldati canadesi dei reggimenti Edmonton e Nuova Scozia. Fu la battaglia dell'onore, senza del quale non avrebbe avuto alcun senso combatterla, l'ultimo scontro sostenuto prima della ufficializzazione dell'armistizio, a difesa del territorio aspromontano per ritardare l'incalzante avanzata anglo-canadese. Il prof. Trombetta, ch'è riuscito a delineare il quadro ufficiali del battaglione dei paracadutisti impegnati nell'azione, riesce a darci anche il numero e il nome degli italiani caduti.

   Il giorno 11 settembre 2005, in una bella giornata di sole, la prima sicuramente da quando hanno avuto inizio le manifestazioni a ricordo dell'epico scontro e dopo aver onorato i caduti in altra sede distante un 200 metri, si è svolta la consueta cerimonia davanti al cippo che ne perpetua la memoria. Presente, tra gli altri, l'autore del libro, che di qui a poco c’intratterrà più diffusamente.

   Conosco da qualche tempo il preside Agazio Trombetta e mi onoro di essergli amico. Invero, non sono molti anni che ciò si è verificato. L’occasione è stata fornita dalla sua entrata nella famiglia della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, ma era parecchio che ne avevo cognizione, tante e tali sono state le pubblicazioni di vario genere ch’egli ha consacrato alla nostra terra e le conferenze che lo hanno visto protagonista.

    Laureatosi in Geografia economica e Scienze naturali, ha subito pubblicato nel 1964 "La coltura del gelsomino in Provincia di Reggio", quindi sono stati gli aspetti geografici a interessarlo e uno dopo l’altro sono apparsi: "L'Africa, espressione moderna di antichi aspetti", nel 1967; e l’anno dopo "Sullo stretto di Messina un ponte per l'Eurafrica"; "Aspetti geografici economici e sociali della Calabria nel secolo XVIII"; nel 1969 è stata la volta di "Aspetti della viabilità calabrese nel secolo XVIII". Dal 1976 ha inizio la sua decisa conversione all’impegno storico e per prima vede la luce "La Calabria del settecento nel giudizio dell'Europa"; "Reggio, immagini dalla storia" è del 1980 così come "Lo spirito libertario in due proteste popolari". "Reggio Calabria e gli antichi caffè del corso" arriva nel 1992. Le ultime opere in ordine di tempo trattano di eventi bellici dell’ultimo conflitto e sono due pietre miliari nel campo: si tratta di Dentro la guerra-La costa jonica reggina Condofuri 15 agosto 1943 e, appunto, quella che una volta per tutta dice una parola decisiva sull’episodio dello Zillastro. Il preside Trombetta è anche collaboratore di quotati periodici e riviste di cultura e ha al suo attivo il conseguimento di vari qualificanti Premi. "
Rocco Liberti

venerdì 15 settembre 2023

A 30 ANNI DAL SUO MARTIRIO ANCHE LA PIANA E L'ASPROM0NTE NEL SEGNO DI PINO PUGLISI? ( di Bruno Demasi)


     Esattamente il 15 settembre di trent'anni fa veniva ucciso don Pino Puglisi. Passarono venti anni prima che la Chiesa e la società civile prendessero piena coscienza del significato epocale costituito da quell'omicidio in un grande evento rappresentato dalla commovente beatificazione di questo martire a Palarmo. Una beatificazione  che rappresentò indubbiamente una pietra miliare nel cammino di affrancamento di un intero Sud ( e non solo) dal cancro della mafia e della mafiosità di cui sono ancora intrise le coscienze  di tanti, forse tantissimi nei nostri paesi e nelle città del Meridione.
     Quel giorno  a Palermo, tra centomila e oltre persone accorse da ogni dove si respirava questo impaccio di restare ancora  impastoiati in un modo di pensare e di agire apparentemente innocuo e spontaneo eppure ancora sotto molti aspetti caratterizzato per noi meridionali da tanti schemi pseudomafiosi.
   
    Ci si chiede se la Piana di Gioia Tauro  il contesto aspromontano, dove questi schemi sono ancora più che mai tenaci, dove i piccoli respirano e succhiano ancora  insieme al latte materno una strana concezione della libertà e del rispetto, sia possibile formare generazioni veramente libere, capaci di impegnarsi nel lavoro e per il lavoro, nella pace e per la pace, nell'operosità e per il bene comune.
    E' quanto andava predicando con l'esemio e con pochissime parole Pino Puglisi, è quanto dopo un giorno dalla beatificazione  ribadì con coraggio Papa Francesco all'Angelus:

“I mafiosi e le mafiose si convertano a Dio”.  “Non possono fare di noi fratelli schiavi”. “Io penso a tanti dolori di uomini e donne, anche di bambini, che sono sfruttati da tante mafie, che li sfruttano facendo fare loro un lavoro che li rende schiavi, con la prostituzione, con tante pressioni sociali. Dietro a questi sfruttamenti, dietro a queste schiavitù, ci sono mafie. Preghiamo il Signore perché converta il cuore di queste persone. Non possono fare questo. Non possono fare di noi, fratelli, schiavi! Dobbiamo pregare il Signore! Preghiamo perché questi mafiosi e queste mafiose si convertano a Dio”.


      “Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo li sottraeva alla malavita, e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà, però, è lui che ha vinto, con Cristo Risorto”.
      “Il nostro Dio non è un Dio 'spray', è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: ‘Dio è amore’. Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi”.


     E' lecito sperare, dunque,  senza un impegno serio e aperto delle istituzioni, della Scuola, della Chiesa, di tutte le coscienze libere un cambiamento  anche per la Piana di Gioia Tauro, per i paesi aspromontani, dove tutto, o quasi, sembrerebbe ormai immutabile, dove tutto in questi ultimi anni  sembra tornato agli anni di piombo e al silenzio più divisivo e opprimente?

mercoledì 13 settembre 2023

" PARI BRUTTU...! " ( di Nicola Gratteri )



   Una pagina su cui riflettere a lungo e ciclicamente nel tempo malato in cui spesso ci si vergogna dei propri genitori. Una pagina da rileggere spesso e da centellinare, non certo per piaggeria immotivata  nei confronti di Nicola Gratteri, che ne riprende spesso i contenuti in occasione delle tante premiazioni che riceve  per il suo impegno di lotta (vera) alla ndrangheta, ma per capire come e quanto l’esempio buono dei genitori incida sul costume dei figli, come e quanto la Calabria abbia da imparare , ma anche tanto da insegnare in termini di civiltà del lavoro, di giustizia sociale , di coraggio civile e di dignità.  E solo chi vive di superbia, di intrallazzo, di vanità , chi non conosce l'arte del rispetto - quello vero, non quello su cui prosperano le fortune mafiose - disprezza l' umile espressione che dà il titolo a questa pagina e che è fiorita innumerevoli volte sulle labbra dei nostri vecchi. (Bruno Demasi)
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   "Ogni volta che mi guardo allo specchio scopro di assomigliare sempre di più ai miei genitori. Le radici sono tutto. Mia madre e mio padre mi hanno fatto capire l’importanza del sacrificio, dell’onestà e dell’amore verso il prossimo. Io sono il terzo di cinque figli. Da mio padre ho preso la rettitudine, ma anche la sobrietà dei sentimenti. Ricordo che i miei erano misurati anche quando succedeva qualcosa di cui gioire. Dicevano: «Pari bruttu», sembra brutto gioire eccessivamente, faremmo un torto a chi sta peggio di noi e non ha motivo di rallegrarsi.
   Mio padre Francesco, negli anni Cinquanta, aveva comprato un piccolo camion con cui trasportava cereali e ghiaia nei paesi della Locride, in Calabria, per conto di agricoltori e imprenditori della zona. Poi rilevò un negozio di generi alimentari da suo zio e cominciò a vendere pasta, ma anche vino che produceva in proprio con l’uva acquistata a Cirò. Gli ultimi quindici anni della sua vita li ha vissuti su una sedia a rotelle, in seguito a un ictus che lo privò anche della parola.
   Era taciturno, parlava con gli occhi. Da piccolo io ero vispo, non stavo mai fermo. E bastava uno sguardo di mio padre per mettermi in riga. Spesso le prendevo. E mi ricordo ancora oggi tutte le ragioni per le quali mio padre mi dette qualche ceffone. Ma la cosa che ricordo di più è la sua generosità. Aveva un appezzamento di terreno dove coltivava di tutto. E ogni anno ammazzava due maiali, uno per la famiglia e un altro per i poveri. Era una festa, c’era il senso della comunità. Quando poi acquistò il negozio di generi alimentari, diventò ancora più triste. Odiava stare fermo dietro un bancone. A Gerace quasi tutti acquistavano con la "libretta", a credito. Pagavano una volta all’anno con i soldi ricavati dalle vendite delle bestie alla fiera della Madonna del Carmine, nella seconda metà di 

  «Poveretti, devono mangiare pure loro» diceva per giustificare i continui ritardi nei pagamenti. Mia madre era simile a mio padre, anche lei molto parca nella manifestazione dei sentimenti. Ma sapeva essere dolce, affettuosa. Era anche molto forte. Pesava le persone con lo sguardo e i suoi giudizi erano cassazione. Non si sbagliava mai sulle persone. Come mio padre, aveva studiato poco. Mi pare che avesse fatto la terza elementare.
   Ai suoi tempi, le ragazze, più che a scuola, andavano dalla sarta a imparare a cucire. Anch’io ho fatto quella trafila. E di questo sono grato ai miei genitori. Da piccolo ogni estate andavo a imparare un mestiere. Ho fatto il calzolaio con mastro Felice, ma anche il meccanico, il panettiere e il manovale.
   Ho imparato a stare e a vivere tra la gente, a capire l’importanza del lavoro e del sacrificio.
   Ho frequentato le elementari a Gerace e le medie e il liceo scientifico a Locri. A Gerace dove ho avuto insegnanti molto sensibili mi sono trovato subito a mio agio. Eravamo tutti figli di gente modesta. A Locri invece ho studiato con figli di professionisti o comunque con gente molto diversa economicamente dalla mia famiglia e dalle mie abitudini che erano molto frugali.
   Ricordo il mio compagno di banco. Era un ragazzo taciturno. Gli avevano ammazzato il padre in un agguato di mafia. Quando gli facevo qualche domanda si infastidiva. Molti anni dopo fece la fine del padre. Era entrato nello stesso giro. In classe con me c’era anche la figlia di un noto boss della ‘ndrangheta, mentre un compagno di giochi me lo sono trovato di fronte in un’aula di tribunale. Abitava vicino a mia zia Savina, la sorella di mio padre, in contrada Gabella, a Locri. Giocavamo a nascondino. Era un ragazzo molto generoso, anche lui figlio di contadini. Da grande cominciò a frequentare il clan Cataldo. Durante una perquisizione la polizia gli trovò in casa un arsenale. Come pubblico ministero chiesi e ottenni la sua condanna per associazione a delinquere di stampo mafioso, detenzione di armi e munizioni da guerra. Ci siamo guardati negli occhi e, senza parlare, ci siamo detti tante cose. Poi le nostre strade si sono nuovamente divise.
   Oltre a essere vispo, io studiavo poco. Avevo una memoria di ferro e riuscivo a ricordare tutto ciò che gli insegnanti dicevano in classe. Poi, arrivato a casa, prendevo la bicicletta e pedalavo per ore. Ogni tanto giocavo anche a calcio, ma non ero bravo. Poi comprai un ciclomotore e cominciai a provare l’ebbrezza della velocità. Correvo come un pazzo.
   Lavoravo, mi davo da fare. Nel 1974, dopo aver aiutato i miei nella pigiatura dell’uva, con il Caballero di un amico andai a fare una passeggiata a Locri. Era settembre, faceva ancora caldo. Feci incautamente una inversione a U e venni travolto da una Citroën. L’impatto fu tremendo. Sono stato in coma per dodici giorni, e tre mesi senza camminare.
   Mio padre legò il motorino a una trave del garage e fui costretto a camminare a piedi.
   L’anno dopo accadde qualcosa che cambiò la mia vita.
   Mio zio Antonino, il fratello di mia madre, si ammalò seriamente. Gli diagnosticarono un tumore al pancreas e si spense in poco tempo. Era un avvocato civilista molto apprezzato. Conosceva i classici e recitava a memoria le tragedie di Shakespeare.
   Negli ultimi mesi della sua vita dormivamo nella casa di nonna Sina, la sera mi fermavo davanti al suo letto e rimanevo incantato dai suoi ragionamenti. Capii che dovevo cambiare vita. E cominciai a studiare. Dopo la maturità scientifica, mi iscrissi alla facoltà di Legge dell’università di Catania. E lo feci per evitare Messina, dove si erano iscritti molti amici e conoscenti della Locride. Ho cominciato a studiare come un pazzo. Mi facevo la barba una volta alla settimana, di sera non uscivo quasi mai e leggevo di tutto.
   Ero ossessionato dal trascorrere del tempo. Mangiavo yogurt, pomodori e panini. Dormivo pochissimo, mi addormentavo quasi sempre con la luce accesa. Una notte, durante un temporale, un cortocircuito provocò l’incendio della termocoperta, delle lenzuola e di parte del materasso. Anche in quella circostanza, la sorte è stata dalla mia parte. Ma dormivo poco anche perché mi sentivo in colpa con i miei.

   Non volevo gravare più del dovuto sulle loro finanze. Mio fratello e mia sorella erano andati all’università prima di me, a casa c’erano altri due figli che ancora studiavano. E mio padre non stava più bene. Anche lui si stava spegnendo lentamente su quella sedia a rotelle, con gli occhi lucidi e l’orgoglio di sempre. Riuscii a laurearmi in quattro anni.
   Alla cerimonia con me c’era solo il mio compagno di stanza, Antonio Angelico, che oggi fa l’avvocato in provincia di Siracusa. Provai molta gioia, ma quando tornai a casa feci finta di nulla. Anch’io come mio padre ho imparato a centellinare le emozioni.
   Ho avuto sempre in mente di fare qualcosa per la mia terra. Ho sempre odiato i prepotenti. Dopo la laurea in Giurisprudenza, mi è subito balenata l’idea di fare il concorso in magistratura, ma me la sono tenuta per me. Ho frequentato per un po’ lo studio che era stato di mio zio. E poi ho cominciato a prepararmi. Due anni, senza tregua, inchiodato a una sedia. Nessuno sapeva che cosa stessi facendo. Mi venivano in mente le parole di mia madre ossessionata dall’idea di non fare brutta figura.
   Quante volte le ho sentito dire le stesse parole. Non bisogna fare brutta figura, perché altrimenti la gente parla. E noi non dobbiamo dare nell’occhio. Ho superato lo scritto, arrivando diciassettesimo su dodicimila candidati e poi ho superato l’orale. Anche in quell’occasione, con mio padre ci siamo parlati con gli occhi. Mia madre invece mi ha dato una pacca sulle spalle e mi ha detto: non dimenticare mai chi sei e da dove vieni. Ai miei devo molto, soprattutto ora che non ci sono più. Non finirò mai di ringraziarli.
   L’impatto con il mondo della magistratura è stato entusiasmante.
   Ho avuto dei colleghi che mi hanno aiutato a capire meglio questo mestiere. Dopo due anni da uditore a Catanzaro, dovetti prendere una decisione importante: la scelta della sede. C’erano posti vacanti a Sanremo, Venezia, Brescia e Torino, ma io scelsi di restare in Calabria, dove sono nato.
   Non è stata una scelta sofferta. Non c’è posto migliore di quello in cui sei nato e cresciuto. Ho deciso di restare, pur sapendo di andare incontro a molte privazioni. Ma l’ho fatto con la convinzione di poter contribuire a risolvere i problemi di questa terra. Io sono rimasto accanto alle mie radici per costruire il futuro, il mio e quello della mia famiglia.
   Non mi sono mai pentito di quella scelta. Anche se ci sono stati momenti difficili. Ricordo la mia prima indagine. Feci arrestare l’assessore alla Forestazione e, in seguito a quel provvedimento, la giunta regionale fu costretta a dimettersi. Cominciarono così i primi problemi. Minacce al telefono, lettere minatorie. Qualcuno esplose alcuni colpi di pistola contro l’abitazione della mia fidanzata, seguiti da una telefonata: stai per sposare un uomo morto. Il Comitato per l’ordine e la sicurezza mi assegnò una scorta. Intervenne anche l’Associazione nazionale magistrati e, alla riunione che ne seguì, un collega più anziano cercò di dare un’interpretazione diversa alle minacce, ipotizzando che a sparare fosse stato un rivale in amore. Capii che non sarebbe stato facile fare il magistrato. E che forse mia madre aveva ragione a diffidare anche della propria ombra.
   Nel 1993 ci furono altre minacce. Un collaboratore disse che stavano per preparare un attentato contro di me. C’era un’aria molto pesante attorno a me. Avevo fatto diverse indagini sui traffici di droga, nei quali erano coinvolti i clan della Locride, e il tuffo improvviso nell’universo della ’ndrangheta era stato appassionante, intenso e formativo. A Platì, per esempio, avevo scoperto come le principali famiglie di quel paese avessero strappato ai proprietari un’intera montagna che sconfinava nel comune di Varapodio. Molti avvocati mi rimproveravano di assecondare troppo il lavoro delle forze dell’ordine. Prestavo attenzione a ogni minimo segnale.
   La mia famiglia ha reagito con preoccupazione, comprendendo che non c’era alternativa. Non avrebbe avuto senso vivere da vigliacchi.
   Nel 2005 due ’ndranghetisti sono stati intercettati mentre discutevano nel carcere di Melfi di come far saltare in aria me e la mia scorta. «Perché tutto questo sangue?» chiedeva uno dei due. E l’altro: «Perché Gratteri ci ha rovinato». Qualche giorno dopo nella piana di Gioia Tauro venne scoperto un arsenale: pistole, lanciarazzi, kalashnikov, un chilo di plastico e alcune bombe a mano.
   Ho cercato di mantenere i nervi saldi e di continuare nel mio lavoro. Per fortuna non mi annoio mai. Ormai sono abituato. Con la morte bisogna convivere. Quando è morto mio padre non sono potuto andare neanche al funerale. Era un momento particolare, anche allora si parlava di attentati.
   Mi sono sempre mosso con estrema cautela, evitando sia le false complicità che gli atteggiamenti autoritari o arroganti. Non ho mai umiliato nessuno, abusando del mio potere. Ma ho sempre preteso che il mio ruolo venisse riconosciuto.

   Tra me e loro c’è sempre stato un tavolo di mezzo. Il lavoro del magistrato consiste anche nel padroneggiare una griglia interpretativa dei segni. Per un calabrese come me, rientra nell’ordine delle cose. Nella ’ndrangheta tutto è messaggio, tutto è carico di significati. A volte i silenzi valgono più di mille parole. Non esistono particolari trascurabili.
   Quella in trincea è anche una vita di rinuncia. Per i profili di sicurezza, la mia vita privata è fortemente condizionata dal lavoro che faccio. Negli ultimi vent’anni non sono mai entrato in un cinema, né ho potuto seguire una partita di calcio allo stadio o fare una passeggiata sul corso. Ma a due cose non ho mai rinunciato. La prima è coltivare la terra. La seconda è andare nelle scuole per spiegare ai giovani perché non conviene essere ’ndranghetisti. La passione per l’agricoltura l’ho ereditata da mio padre, perché a Gerace, dove vivo con mia moglie e i nostri due figli, abbiamo sempre avuto della terra e l’abbiamo sempre coltivata.
   Sono i miei momenti di libertà. Parlare con i giovani è altrettanto gratificante perché è come lavorare la terra, coltivare nella speranza di raccogliere frutti. Un mio caro amico, Antonio Nicaso, quando abbiamo scritto La Malapianta, mi ha chiesto qual è il primo pensiero quando mi sveglio. Ho risposto: «Quello di potermi guardare allo specchio, senza avere nulla da rimproverarmi.
   E l’ultimo? «Addormentarmi con la coscienza a posto». Hans Kelsen, un grande giurista, diceva che il singolo non può raggiungere mai la felicità individuale perché l’unica felicità possibile è quella collettiva. La felicità sociale si chiama giustizia, che non è qualcosa di già dato, ma qualcosa che bisogna costruire giorno per giorno. Questa tensione verso la giustizia caratterizza tutta la vicenda umana, senza questa idea di giustizia non può esistere la libertà, non può esistere la felicità, non può esistere il progresso”.
Nicola Gratteri

domenica 10 settembre 2023

ANCHE NOI EBREI E CALABRESI ERRANTI ( di Barbara Aiello e Bruno Demasi)


     E’ un vero onore, misto a gioia, per questo web blog ospitare lo scritto di una donna straordinaria, Barbara Aiello, la rabbina di Serrastretta che ha dato e  sta dando un contributo enorme alla riscoperta della cultura e dell’ascendenza ebraica nei nostri paesi. Secondo molti studi – ella afferma – prima dell’Inquisizione e delle altre persecuzioni almeno il 50% dei calabresi aveva origini ebraiche. Poi la distruzione, la paura, le catacombe, il silenzio opprimente, l’oblìo.
    Pur di sfuggire alle mille persecuzioni, di cui ultima è stata solo in ordine di tempo quella del 1938-45 , molti ebrei calabri fuggirono, altri si confusero con i cattolici, altri con gli Arabi (I Marrani), altri, irriducibili, perirono. Altri ancora, specialmente le donne, le madri, coltivarono in silenzio e in segreto le memorie e le consuetudini dei padri, come quella dello Shabbat. Sembra una storia romanzesca, ma è anche storia di appena ieri, e chi  l’ha vissuta direttamente attraverso i ricordi nebulosi , le nenie lamentose, le invocazioni nascoste di una nonna, sa che fino a ieri la linfa vitale della cultura ebraica, nutrita di pianto e di paura, ha alimentato molte delle nostre vene e della nostra cultura antica annegata nel conformismo dei nostri paesi.
   Barbara Aiello sta svolgendo una missione instancabile e incredibile, che non riguarda solo la provincia di Catanzaro, ma tutte le Calabrie. Riguarda specialmente molti territori dell'attuale provincia di Reggio Calabria, soprattutto quella che oggi viene chiamata Piana di Gioia Tauro e, in genere, quelle terre in cui gli Ebrei della Diaspora prima dell’Inquisizione avevano trovato un terreno molto fertile e libero , sia a livello economico sia a livello spirituale e religioso. Un terreno poi imbarbarito e abbrutito nel tempo dalle mille incursioni, dalle mille shoah di cui sono costellati il nostro dna e persino le memorie più lontane e vaghe, ma sempre nitide nei cuori di chi riesce a rendersene conto.
    La missione di Barbara è appunto questa: far prendere coscienza della loro grande eredità a decine di migliaia di calabresi nelle cui vene, senza che essi lo sappiano, scorre ancora qualche rivolo, sia pur piccolo, di sangue ebraico. (Bruno Demasi)

(Nelle foto, oltre all’immagine di Barbara mentre apre la Torah, quattro degli oggetti rituali della liturgia rabbinica: La Yad, la mano per leggere il rotolo della Torah senza toccarlo;  il Tallit o Talled, il mantello di preghiera con le frange; il Kippah, copricapo che nell’ebraismo ortodosso usano solo i maschi; lo Shofar, il corno d’ariete che si suona soprattutto per Rosh-Hashanah , il capodanno ebraico) 
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   Vorrei presentarmi. Mi chiamo Rav Barbara Aiello, sono nata negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale e sono la prima nella mia famiglia ad essere nata in America. I miei genitori, nonni, bis nonni, bis-bis nonni e tutti i miei antenati sono nati in Calabria (e qualcuno anche in Sicilia e Sardegna).Adesso abito in Calabria, in un piccolo paese chiamato Serrastretta. Qui abbiamo costruito nel 2006 la sinagoga “Ner Tamid del Sud” (La luce eterna del Sud Italia – la prima sinagoga in Calabria dal tempo dell’Inquisizione. Seguo la corrente moderna/liberale/pluralistica, che è la corrente ebraica più numerosa al mondo e a cui aderiscono la maggioranza delle rabbine donne….
   Vorrei spiegare il significato di ebraismo pluralistico, progressista o riformato. Nelle sinagoghe progressiste troviamo innovazioni e riforme. La prima cosa da evidenziare è la parità fra i due sessi. Nella sinagoga tradizionale è presente il matroneo o una barriera, in lingua ebraica mechitzah, un luogo dove stanno solo le donne, una separazione o una ringhiera da dove le donne possono solo assistere alle cerimonie, ma non partecipare. Invece per noi riformati, le donne e gli uomini siedono e partecipano insieme…
    Ma è importante sottolineare che oggi questa uguaglianza si estende anche agli uomini, in particolare, ai padri. Mentre nella famiglia ebraica tradizionale solo quando nasce un figlio da madre ebrea, anche se il padre appartiene a un’altra religione, il figlio/a è considerato ebreo. Per noi progressisti, invece, quando il padre è un Ebreo, ma la madre di un’altra religione, il figlio/a è considerato allo stesso modo un ebreo. Questo rappresenta uguaglianza anche3 per l’uomo. Per questa ragione troviamo nelle sinagoghe progressiste molte coppie miste o interreligiose, in questo modo offriamo l’opportuni8tà a tutti i bambini di crescere come ebrei. 
 

    Un aspetto del rituale che invece è comune fra i tradizionalisti e i progresssisti, è la cerimonia chiamata Bar Mitzavah. Bar è una parola aramaica che vuol dire “figlio di”, mentre Mitzavah significa “comandamento”. Dunque “Bar Mitzvah è un termine per indicare un evento del ciclo della vita. Quando un ragazzo raggiunge il tredicesimo anno di età, è considerato un Bar Mitzavah, un “figlio del comandamento” e può partecipare ai riti della sinagoga come un adulto. Per i progressisti anche una ragazza ha la stessa opportunità. Al compimento dei dodici anni diventa Bat Mitzavah, cioè “figlia del comandamento” e viene introdotta nel mondo degli adulti come il ragazzo. Nella sinagoga progressista, i ragazzi e le ragazze leggono la Parashah – una suddivisione ordinata in brani della Torah (Il Pentateuco ebraico) – letti durante il servizio dello Shabbat.
    Anche in campo teologico ci sono delle differenze. E’ importante, a questo punto, soffermarsi sulle mitzvòt, cioè sui comandamenti. Nella religione ebraica abbiamo 613 mitzvòt o precetti! Mentre per la religione tradizionale hanno tutti uguale importanza, nella corrente progressista c’è invece una gerarchia. I comandamenti più importanti sono quelli che riguardano la sfera dei rapporti interpersonali e la dignità della vita umana… 

    Io ho un grande rispetto per la corrente progressista, specialmente perché sono cresciuta nella sinagoga tradizionale, dove le donne non hanno avuto l’opportunità di partecipare al culto insieme agli uomini. Quando ero bambina, ho imparato molto dalla mia tradizione ebraica, ma non ho avuto il modo di servire la mia gente. Come molte altre donne, dopo la laurea all’università ho fatto molte altre cose…ma ho sempre voluto seguire il mio cuore e diventare una rabbina. Mio padre, un calabrese che è cresciuto a Serrastretta (vicino a Nicastro) e molti altri della mia famiglia italiana sono stati “ebrei in segreto…” (In inglese Crypto-Jew). Mia nonna ha insegnato qualcosa della religione ebraica al mio papà...

    Ma dopo cinquecento anni senza una sinagoga in Calabria, non le era rimasto molto della tradizione ebraica da trasmettere a suo figlio. L’inquisizione ed altre persecuzioni hanno distrutto la nostra tradizione religiosa. Per esempio per la festa dello Shabbat, che si commemora ogni venerdi sera, mia nonna celebrava il rito in segreto. Lei aveva trovato due candelabri d’argento e li aveva portati giù in cantina. E lì aveva acceso la luce dello Shabbat! In seguito, quando è arrivata negli Stati Uniti, il primo venerdi sera, ha fatto la stessa cosa! Invece mio padre le ha detto :” Mamma sta’ attenta! Questa è l’America…la terra della libertà!”. Ma la nonna ha scosso la testa: “Non ne sono sicura”. E anno dopo anno, ha continuato ad accendere le candele nella cantina! L’inquisizione, insieme ad altre persecuzioni, ha portato la paura e ha anche distrutto la nostra tradizione ebraica. Infatti gli storici ritengono che prima dell’Inquisizione il 50% dei Calabresi e dei Siciliani fossero ebrei.
     Ma nonostante queste tragedie, una cosa è rimasta: la luce nei nostri cuori, la luce della nostra religione. Per questo ho studiato molto e, quando sono diventata più grande, ho scritto questo lavoro! Oggi viviamo insieme ad altre donne e uomini appartenenti ad altre religioni, e ogni religione ha una prospettiva speciale.Ma io credo che la speranza del mondo è per noi trovare una terra comune. 

Ogni religione è diversa, ma il fatto di vivere una vita spirituale ci accomuna sulla nostra terra. Quello che voglio intendere con il concetto di “terra comune” è che esso ci dice qualcosa in relazione alla persona di ogni fede – che sia cristiana, islamica, ebrea…e anche della persona che non ha fede. Esiste, infatti, una differenza fra religione e vita spirituale: la vita spirituale c’è comunque (è la prima e fondamentale), dopo di che, le singole religioni offrono l’opportunità di celebrare la spiritualità che abbiamo nel cuore (cfr. Salmo 133, canto Hinei ma tov “Quanto è buono e piacevole che i fratelli stiano insieme…”). Questa è la nostra terra comune, su cui è possibile lavorare tutti insieme e portare il bene per il mondo.
Rav Barbara Aiello