domenica 26 novembre 2017

VERSO LA BEATIFICAZIONE DELL' APOSTOLO DI REGGIO E DELL’ASPROMONTE, MONS. FERRO.

di Bruno Demasi
     A poco più di otto anni dall’apertura (2008) della fase diocesana di beatificazione, si è svolto a Reggio Calabria sotto gli ottimi e fervidi auspici di Mons. Giuseppe Fiorini Morosini e con l’impegno dell’instancabile Mons Giovanni Latella, postulatore della causa, un convegno di grande spessore sulla figura e sull’opera di uno dei più grandi vescovi di Calabria, mons. Giovanni Ferro.
      Nato  nel 1901 a Costigliole d’Asti, morto nel 1992 nella sua amata Reggio, arcivescovo dal 1950 al 1977 della Città dello Stretto, ben a ragione è definibile anche come il Presule dell’Aspromonte non solo per essere stato dal 1950 l 1960 e successivamente, dal 1973 al 1977, vescovo di Bova , ma anche amministratore apostolico della diocesi di Gerace tra il 1951 e il 1952 e quindi dell’ originaria diocesi aspromontana di Oppido Mamertina che gli venne affidata dalla Congregazione vaticana nel gennaio del 1965 e alla quale, sul finire del 1967 egli stesso, dopo quasi tre anni di fervido governo, delegò Mons. Santo Bergamo, che consacrò personalmente vescovo agli inizi del 1970.
    La delega per la diocesi aspromontana affidata a Mons. Bergamo non costituì tuttavia il termine per le cure pastorali da parte di Mons. Ferro di questa minuscola e tormentata diocesi che Roma voleva cancellare dalla mappa delle diocesi italiane ed aggregare a Reggio Calabria – Bova. Egli infatti continuò a occuparsene con grande impegno. Tanto che anche negli undici anni che intercorrono dalla delega a Mons. Bergamo fino alla conferma e all’ampliamento dell’originaria diocesi di Oppido Mamertina, avvenuta nel 1979 col decreto apostolico “Quo aptius”, furono frequenti e incessanti le visite di Mons Ferro a Oppido e i suoi viaggi a Roma per riferire le angosciate richieste della gente oppidese che, non certo per motivi campanilistici, non voleva rinunciare alla propria antichissima sede diocesana, molto ben rappresentata dal garbo, dalla competenza e dall’alto spessore di fede di persone come il giudice Antonino Pignataro, i grandi sacerdoti don Formica, don Zappia, don Blefari, l’insegnante Mimma Sinicropi, il prof. Antonino Tripodi, i quali , senza grandi risonanze esterne, lavoravano in silenzio e nel rispetto assoluto delle prerogative vescovili. E Mons. Ferro, vero apostolo dell’Aspromonte, li assecondava con la stessa sollecitudine perchè si rendeva perfettamente conto di cosa significasse per questo territorio aspromontano perdere la sede diocesana e precipitare in una nuova barbarie. Più o meno ciò che si è verificato in passato quando si volevano chiudere a Oppido le scuole superiori o l’ospedale e si riuscì con sacrifici enormi a salvaguardarne la sussistenza e a rilanciarli, più o meno quanto si sta verificando oggi nel silenzio  della gente ormai incapace di indignarsi.

    Non è peregrino affatto pensare che una grande parte del merito per cui questa diocesi , non solo sia rimasta , ma dal 1979 in poi abbia aggregato a sé quasi tutto il territorio della Piana, sia da attribuire a Mons. Giovanni Ferro, il metropolita consapevole del proprio ruolo che non lesinò sacrifici personali enormi, ma neanche il carisma che egli esercitava sulle congregazioni romane dall’alto della sua enorme preparazione teologica e pastorale che non svendette mai in occasioni peregrine di esibizionismo fine a se stesso, ma coltivò con serietà e prudenza assolute in ogni occasione quotidiana del suo apostolato.
    La sua prima conoscenza delle variegate e depresse realtà dell’Aspromonte si esplica in buona parte durante gli anni durissimi del Dopoguerra, nei quali la mancanza quasi assoluta di strade, ospedali, scuole ( peraltro non molto dissimile da quella che stiamo vivendo oggi), l’emigrazione di massa rendevano i contesti e i contrasti sociali estremamente aspri. Il suo carisma somasco, tutta la sua persona apparentemente fredda, ma traboccante di carità, lo facevano schierare senza se e senza ma dalla parte degli ultimi e le sue visite agli ospedali, ai poveri erano frequentissime e silenziose. E come ogni sua celebrazione era improntata all’austerità asciutta e sublime di chi è consapevole del Sacrificio che sta celebrando senza indulgere mai verso scenografici abbandoni, altrettanto silenziosa e riservatissima era ogni sua forma di carità, e non solo nelle parole e nei proclami, ma nei fatti che ancora oggi parecchie centinaia se non migliaia di persone anonime potrebbero raccontare…

    Tratto distintivo della sua azione pastorale, oltre al garbo, alla parola fluente e decisa e mai ridondante, all’eleganza del portamento, connaturati al suo carattere e alla sua formazione ,che si esplicavano in modo austero e sobrio in tutte le occasioni, erano il coraggio e la chiarezza con cui era solito affrontare a viso aperto tutte le situazioni, persino quelle più difficili, senza il benchè minimo timore di urtare la suscettibilità o gli interessi di gr4uppi di potere, legale o illecito che fosse, molto arroccati al proprio tornaconto e alle proprie prerogative che non mancavano affatto nemmeno in quegli anni. E la stessa risolutezza paterna riservava ai suoi sacerdoti, specialmente a quelli più riottosi, nessuno dei quali comunque osava mai mettere in discussione la figura , il ruolo e le indicazioni del proprio Pastore. Altri tempi… 
   Credo infine non si possa trascurare un elemento che indica visivamente l’enorme apertura di questo grandissimo vescovo verso tutti: il suo modo di proporsi alla gente a braccia spalancate, il suo desiderio espresso in più occasioni che persino le chiese e tutti i luoghi di culto si aprissero anche architettonicamente verso il popolo di Dio secondo i dettami poi autorevolmente ripresi da appositi documenti del Vaticano II. Un po’ il contrario di quanto invece avviene oggi in alcune realtà locali con costosissimi fortilizi, impropriamente adibiti a chiese, significativamente privi di finestre e con le porte ridotte a feritoie…quasi a mostrare che la Chiesa in certi contesti sta indiscutibilmente subendo un pauroso processo di involuzione, forse di arroccamento in se stessa e di conseguente chiusura verso la gente e i suoi reali bisogni di aiuto e di rievangelizzazione.

sabato 11 novembre 2017

NDRANGHETA, MINORI E PEDAGOGIE MAFIOSE

di Maria Zappia
   Recentemente il Consiglio Superiore della Magistratura, riprendendo una buona prassi avviata dal Tribunale minorile di Reggio Calabria, ha sollecitato il Parlamento Italiano ( o quel che istituzionalmente ne resta) ad introdurre come pena accessoria del delitto associativo di stampo mafioso la vera e propria decadenza dalla potestà genitoriale, almeno nei casi di accertato coinvolgimento del figlio minore nelle attività mafiose del condannato.
    Ciò ha fatto stracciare le vesti a molti meridionalisti nostrani di ritorno che continuano a gridare allo scandalo senza chiedersi cosa esattamente ci sia in discussione e dimenticando che la vigente legislazione minorile già prevede il potere del Tribunale per i Minorenni di decretare la decadenza della potestà genitoriale nelle situazioni in cui, sulla base di congrui accertamenti effettuati anche da specialisti in materia psicologico-sociale, la permanenza del vincolo genitoriale risulti pregiudizievole alla crescita del minore.
    Un dibattito assolutamente sofferto, serio e importante che interessa da vicino molte situazioni nella piana di Gioia Tauro, e non solo, sul quale l’avvocatessa Maria Zappia -  che ringrazio di cuore per la sua spontanea e autorevole collaboraziopne a questo blog -  valente collaboratrice di testate giornalistiche di settore, interviene in maniera puntuale e assolutamente libera da pregiudizi riportando tutto il discorso nell’alveo della razionalità e del buonsenso al di là del polverone sollevato ad arte dai tanti che per desiderio compulsivo di pubblicità confondono immancabilmente le acque (Bruno Demasi).

“ L’affiliazione dei minori avviene con modalità diverse a seconda dei territori e delle organizzazioni operanti, così come il loro coinvolgimento nelle attività delittuose varia a seconda del contesto di riferimento: talvolta i giovani sono impiegati nello spaccio di droga o nel compimento di atti estorsivi e vandalici, in altri territori sono perfettamente coinvolti nelle dinamiche associative e impiegati anche per la commissione di omicidi. In questi casi la “cultura” di mafia, con i suoi valori e le sue gerarchie opera una forte attrazione nei confronti di giovani alla ricerca di un facile arricchimento e di un modello appagante per la realizzazione di sé. Si tratta, infatti, di ragazzi che respirano sin dalla nascita la cultura mafiosa che esercita sugli adolescenti un forte potere attrattivo, immettendoli senza il sacrificio dello studio o del rispetto delle regole in un mondo di potere, di leadership tra coetanei e di disponibilità economica; si tratta soprattutto di una cultura che distorce il rapporto con le istituzioni che sono viste come nemiche.”

    E’ quanto afferma , tra l’altro, il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, approvando recentemente una importantissima risoluzione al fine di rendere effettiva la tutela dei minori il cui percorso di crescita ed  educativo si svolge all’interno di famiglie “di mafia”. Il documento si fonda, traendone importantissime conseguenze, su una prassi virtuosa intrapresa dal Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria i cui risultati, hanno determinato il plauso sia da parte degli studiosi della materia e sia da parte di tutti gli operatori del diritto i quali, soprattutto nelle regioni colpite da fenomeni di criminalità organizzata particolarmente gravi, si sono spesso interrogati sulle misure da adottare al fine di estirpare alla radice una sottocultura che mina dall’interno il tessuto sociale rendendolo fragile ed arretrato. L’adozione della risoluzione è stata dunque l’occasione per estendere la prassi evoluta adottata dalla Corte Calabrese e definita nello stesso testo “pionieristica” in tutto il territorio nazionale e per dettare i principi metodologici utili la pratica applicazione della tutela.

   L’idea sostanziale, il substrato ideologico dell’interno documento, è veramente idoneo a capovolgere un intero sistema di valori sui quali le strutture mafiose fondano il consenso e cioè il ritenere la famiglia mafiosa una famiglia abusante, quindi pericolosa e nociva per il sereno sviluppo della personalità del minore. Partendo dal presupposto che la famiglia mafiosa sia da parificare, quanto alla nocività, alla famiglia nella quale vi siano soggetti alcolisti o drogati, ed accertato poi in concreto e caso per caso, il pregiudizio per il minore, il magistrato minorile, procederà all’adozione di un provvedimento che limiterà la potestà dei genitori o di quel genitore che, con scellerate scelte di vita imposte o subite, hanno impedito al minore una crescita libera e dignitosa.

    Il documento è particolarmente esaustivo circa gli strumenti di intervento, modulati, lo si ribadisce, caso per caso e mirati anche al recupero della genitorialità ove vi sia una reale dissociazione dai metodi criminali. Non si tratta infatti  di provvedimenti aventi carattere punitivo nei riguardi di chicchessia, ma ispirati alla tutela dei minore, volti a preservarne la crescita, non ad arrestarne lo sviluppo. Non si applicano le norme del codice penale bensì i rimedi civilistici previsti nei casi in cui lo sviluppo della personalità del minore è messa in pericolo. In ogni momento è garantito l’ascolto del minore anche per il tramite di psicologi e viene reso possibile anche un “recupero” della genitorialità nei casi di effettiva dissociazione.

    Se attuati nei termini auspicati dalla risoluzione e con i giusti raccordi tra le varie autorità, gli interventi diventano scelte da apprezzare perché provenienti da magistrati sensibili che colgono le istanze provenienti da ambiti territoriali degradati e senza attendere interventi legislativi, di propria iniziativa, si sono coordinati al fine di incidere energicamente e demolire l’origine del fenomeno delinquenziale, l’area nella quale opera la trasmissione dei valori: la famiglia. Da questo punto di vista, proprio per la concezione puerocentrica che ispira il provvedimento il Tribunale per i Minorenni, va considerato un organo - avanposto per la “cura del minore” per l’elevazione spirituale e la crescita, una sorta di pronto soccorso di prima linea che accoglie le ferite di una società in via di trasformazione ma con degli aspetti purulenti che vanno adeguatamente sanati.

   E’ questa la vera identità della Corte di Reggio Calabria che negli anni, silenziosamente, senza ribalte mediatiche, nell’ambito di una ristretta cerchia di addetti ai lavori composta perlopiù da giuristi, ha interpretato il proprio ruolo istituzionale, in maniera esemplare giungendo a farsi portavoce di un orientamento giurisprudenziale audace e innovativo. Appare pertanto superficiale e del tutto slegata dalla reale percezione del fenomeno l’affermazione di alcuni che lo Stato operi d’imperio, che violi il sacrosanto diritto dei genitori di educare i propri figli. Per contro la scelta dei magistrati reggini è finalizzata ad arrestare il perpetuarsi di modelli culturali erronei ed antisociali intervenendo nella giusta prospettiva temporale proprio durante gli anni formativi della personalità allorquando il soggetto, privo di capacità critiche imita modelli di comportamento che trova in famiglia e ripudia quelli più corretti che provengono dalla realtà esterna.

sabato 4 novembre 2017

LA RINOMATA VACCA CALABRA

di Bruno Demasi

   E' bene riprendere, sia pure in  sintesi essenziale, il discorso  sulla rinomata e celebre vacca calabra che sicuramente non potrà mai definire completamente la grande varietà di questa razza sopraffina a torto ignorata dai più, ma potrà almeno individuare  le più importanti sottorazze che allietano il paesaggio calabro, in particolare quello subaspromontano,  e lo riempiono di meravigliosi effluvi:

                                                                                                               LA VACCA FANFANIANA


    E’ discendente nobile in linea diretta dalle vacche che negli anni Cinquanta del secolo scorso venivano continuamente spostate da un luogo all’altro al passaggio dell’allora presidente del Consiglio Amintore Fanfani in modo che lo statista, grande di fama e di gloria, ma assai minuscolo di statura, saltellando su apposite scalette di legno, anch’esse riciclabili, vedesse tangibilmente negli occhi o nelle code i frutti della zootecnia meridionale.
     La vacca fanfaniana oggi insieme con le sue consorelle è stanziale solo a bordo di appositi camion attrezzati a stalle che le scorrazzano in continuazione da una fattoria all’altra finanziate con fondi europei o da una scuola all’altra, anch’esse finanziate con fondi europei, di modo che il loro latte, aggiunto all’abbondante produzione delle ginocchia del contribuente calabrese venga raccolto e trasformato in prodotti   gustosamente acidi che – si dice – il mercato europeo stenta ad assorbire. 

LA VACCA ASPROMONTANA

     La vacca aspromontana, dalle carni sode e pare anche ricchissime di sostanze proteiche, specie particolarmente protetta dalle prefetture particolarmente sensibili alla zootecnica locale , è adusa a continui esercizi ginnici quotidiani e , specialmente nelle stagioni autunnale e invernale , a spericolate corse sui tornanti delle strade di montagna attraverso le quali raggiunge a branchi gli uliveti di pianura appositamente addobbati al suo nobile passaggio con tappeti di reti distese per la raccolta delle olive. Essa ama infatti esibirsi in lunghe e pesanti danze su tali tappeti fino a ridurli allo stato di vere e proprie stringhe da scarpe con grande gioia degli agricoltori che manifestano il loro plauso imbracciando pali e forconi correndo invano  come pazzi e lanciando disumane urla e vocalizzi senza senso per farle girare al largo dai loro poderi.
     La vacca aspromontana è la creatura prediletta degli ambientalisti che pare vogliano effigiarla sulle loro magliette e sui loro stendardi con cui sovente manifestano davanti alle prefetture al fine di difendere da ogni possibile attacco umano questo grazioso animale.


LA VACCA ELETTORALE

     E’ una sottorazza indotta da quella tosco-chianina.. Le contrade calabre ne vengono continuamente ripopolate in periodi di competizione elettorale a livello nazionale durante le quali le effigi di questa specie che viene a candidarsi in Calabria vengono adoperate per abbellire i manifesti elettorali insieme a quelle di alcuni ronzini di minore importanza, ma tuttavia funzionali coi loro ragli al controcanto dei muggiti di cui abbonda la terra bruzia.A tal uopo la nuova legge elettorale, testè graziosamente firmata da un presidente della Repubblica molto attento ai vagiti e ai muggiti di tante creature politiche, consentirà il proliferare delle vacche elettorali e la prosperosa industria calabra del letame ormai superbamente decollata.

LA VACCA RELIGIOSA O QUARANTANA 

   Si aggira instancabile e asessuata per sacrestie, chiese, sagrati e luoghi sacri in silenzio e umiltà totale, ruminando in continuazione incomprensibili giaculatorie a mo' di sospiro e inseguendo una per una le innumerevoli occasioni di tripudio e di incontro sottolineate sempre ora da peti pirotecnici di rara bellezza ora da peti e basta.
   E' sicuramente la sottorazza più intelligente fra tutte e spesso qualche esemplare si rifugia nelle borgate di campagna nei cui pascoli avvelenati dai diserbanti non alza mai lo sguardo dall’erba di cui è ghiotta e che , in perfetto equilibrio naturale, malgrado lo spegnersi di molti riflettori, provvede ancora a concimare le valli del Marro con le sue abbondantissime deiezioni che da queste parti qualcuno definisce “bracierate”.

     In ogni caso questa sua mancata attitudine ad alzare lo sguardo, unita alla sua grande umiltà, le impedisce di avere visioni di sorta e richiama senz'altro alla memoria l’asin bigio di carducciana memoria allorquando essa ...
….rosicchiando un cardo
 rosso e turchino, non si scomodò.
Tutto quel chiasso non degnò d’un guardo
 e a brucar seria e lenta seguitò…