sabato 18 luglio 2020

RITORNANDO DENTRO IL MISTERO DELLA “ VALLE DELLE SALINE” (II parte) .

di Bruno Demasi
   Dopo aver dato un’occhiata  a questo eden dimenticato con un salto a ritroso di secoli (L’INCREDIBILE VALLE DELL’EDEN (O DELLE SALINE) E LA διοίκησις DI OPPIDO) , occorre adesso cercare  di scoprirne l’esatta collocazione e la delimitazione geografica che le varie fonti documentarie , per la verità un po’ contrastanti, ristrette e sbiadite, continuano a riportarci. Il primo quesito in assoluto che ci si pone riaccostandoci dopo almeno un migliaio di anni a questo lembo di terra di Calabria tanto importante per il ruolo che esso ha ricoperto nella civilizzazione e nell’evangelizzazione delle intere Calabrie è quello riguardante la dislocazione geotopografica delle saline propriamente dette, che , trattandosi di territorio prevalentemente montano, si immaginano a tutta prima come depositi di salgemma veri e propri, siti estrattivi di cui s’è persa ogni traccia . In merito abbiamo solo la notizia, peraltro scarna e sibillina, riportata da André Guillou in “ La Theotokos de Hagia Agathé (Oppido) “– (L.E.V. 1972, pag.139) , che a proposito della donazione n.33 al vescovo di Oppido così presenta il documento “ Anna,vedova del prete Kataspitès, e suo figlio Basilio donano alla chiesa di Oppido un mulino e la metà delle saline di Myrosmas” ed aggiunge che le saline oggetti della donazione sono presumibilmente “in corso di sfruttamento” agli albori del secondo Millennio.    
 
    Che il sale costituisse a metà dell’XI secolo, come in precedenza, e fin dalla preistoria, una merce preziosa non ci sono assolutamente dubbi. Che lo stesso fungesse all’epoca, ma anche in tempi remoti, addirittura come moneta di scambio è anche acclarato. Che la Valle delle Saline per la sua conformazione orografica e viaria , sulla quale ci sarà qualche novità da considerare, fosse luogo privilegiato per la creazione di uno o più grandi empori di sale sulla costa taurianense o metaurianense è un’osservazione oltremodo facile, dalla quale nasce un corollario: l’estrazione e il commercio del prezioso elemento richiamava in quella che in epoca bizantina era definita “Tourma delle Saline” vere e proprie compagini di addetti ai lavori e alla commercializzazione, primo fra tutti l’elemento ebraico, come osserva Vera von Falkrnhausen (Gli Ebrei nella Calabbria medioevale- Studi in memoria di Cesare Colafemmina, Rubbettino 2013), di cui si dirà in una riflessione a parte.
  Resta da capire se si trattasse di vere e proprie miniere di cui s’è persa con i secoli irrimediabilmente ogni traccia, oppure di generici, quanto provvisori e superficiali, depositi di sale marino derivanti dalla conformazione lagunare che aveva all’epoca il bacino del Petrace, specialmente nella parte più prossima al suo ampio delta, o comunque meno lontana da esso. 

    La donazione della vedova del prete Kataspités, se ben analizzata, ci dice che che il lascito si riferisce “alla metà” di una salina. Dunque non ad un generico e provvisorio deposito superficiale di sale marino più o meno sporco e grezzo, quanto a una vera e propria industria estrattiva propriamente strutturata e presumibilmente di buona resa, se è vero che anche la metà della stessa poteva costituire un bene importante che insieme a un mulino andava a costituire un dono di grande valore donato al vescovo da una persona importante, addirittura un dignitario della chiesa locale, per avere la salvazione della propria anima. Una donazione, in altri termini, di inusuale spessore e di non banale importanza. A maggior ragione se si osserva, come immagina anche il Guillou, che tale industria estrattiva era ancora pienamente funzionante e costituisse già di per sé una fonte di ricchezza di non scarso o transitorio rilievo. 

    Dove si trovasse ubicata tale salina è molto aleatorio stabilirlo: “ Myrosmas” non è un toponimo che sia rimasto in uso , neanche in parte. Potrebbe essersi trattato di località ricoperta o interessata da una vegetazione erbacea particolare richiamante nel suo profumo quello della Mirra, nome dal quale sembra mutuato quello del toponimo stesso. L’erba “Mirosma” era stata descritta da Linneo probabilmente come succedanea della Mirra che è ben più preziosa, secrezione gommosa di un arbusto rarissimo che prosperava e cresce attualmente soltanto in Oriente. Di certo era (ed è) una monocotiledone esteticamente ricca con andamento quasi arbustivo, di cui evidentemente abbondava la località in cui aveva sede la Salina (o per meglio dire, il gruppo delle saline) oggetto della donazione. Un tipo di vegetazione oggi probabilmente scomparso o comunque rarefatto nel bacino del Petrace.
    Circa poi la questione generale della presenza e della dislocazione delle saline nell’alveo del Petrace, due altri indizi non letterari e molto scarni potrebbero sovvenirci: il soprannume (sempre uguale, tramandato per secoli) attribuito ai tradizionali agricoltori aventi appezzamenti di terreno di una certa consistenza nell’attuale zona della Foresta Pulpà ( in agro di Oppido-Varapodio -San Martino ed al centro del fondovalle alluvionale che costituisce oggi l’alveo più orientale del Petrace) spesso fino a qualche anno fa designati a Oppido, come altrove, come “i Salinari”; il toponimo “Pietra Saligna” che indica a monte di Oppido e immediatamente a valle della frazione montana di Piminoro una balza abbastanza estesa e scoscesa di conglomerato lapideo e di marne miste a sedimenti cristallini di cloruro di sodio. 

    Non esistono altre notizie e quelle esistenti nella tradizione letteraria erano e sono a loro volta molto episodiche, indirette e scarne.. E’ forse questo il motivo per cui il termine “Saline” a livello letterario ha dato luogo a tanti fraintendimenti che per decenni hanno creato dibattiti fittizi e inconcludenti fra gli addetti ai lavori, come l’artificiosa distinzione fra “Saline” e “Aulinae” , toponimo inesistente, scaturito semplicemente da un gossolano errore di lettura dei codici, attribuito a lungo al monte Sant’Elia di Palmi, variamente ripreso e dibattutto da tanti studiosi adusi a scimmiottarsi l’un l’altro o, più sovente, l’uno contro l’altro. Per dirimere la falsa questione ci volle uno studio risolutivo di Giuseppe Rossi Taibbi, che in sede di pubblicazione di una poderosa biografia di Sant’Elia il Giovane, chiarì e dimostrò facilmente che i due toponimi riguardavano la stessa località: la Tourma , appunto, delle Saline, come nel 1972 iniziò apertamente a definirla Andrè Guillou in sede di pubblicazione di alcune decine di atti di donazione al vescovo di Hagia Agathe (Oppido) risalenti alla metà dell’XI secolo (A. Guillou, ibidem).
    Il vezzo è antico, quello di concentrarsi , e a volte anche scontrarsi, sul dito piuttosto che sulla luna: dopo la pubblicazione degli atti, Guillou ,seguito autorevolmente da Filippo Bulgarella, andò a parlare di Turma delle Saline, mentre molti studiosi, capitanati da Jean Marie Martin controbatterono apertamente, anche in lunghe prolusioni di vari convegni, che non era il caso di parlare di “tourma” bensì di “eparchia” delle Saline. In effetti tra le due denominazioni non esiste alcuna differenza e ne siamo convinti tutti. La tourma o eparchia era un’importante porzione di territorio, una sezione amministrativa costituente una frazione dei più grandi “temi” in cui erano strutturati i domini bizantini. 

    Una prima conclusione ci indurrebbe dunque a propendere per l’esistenza di saline geologicamente “giovani” dislocate nel tratto orientale o più basso dell’ampio alveo del Metauro-Marro-Petrace all’epoca circoscritto da un’amplissima zona lacunare, oggi ormai inesistente. Una zona dunque di grandi fermenti economici catalizzati intorno all’attività estrattiva del sale, alla sua purificazione con mezzi ed espedienti rudimentali e soprattutto alla sua commercializzazione, attraverso il fiorente porto di Tauriana, non solo nelle Calabrie, ma probabilmente anche in altri contesti geografici viciniori.
   Per l’esercizio di questo grande lavorìo commerciale che dal sale si estendeva a tutto un indotto di cui era ricco questo territorio: conservazione di derrate alimentari, lavorazione di cesti, di tessuti di canapa, ginestra, lana, seta ( vastissime le coltivazioni di gelsi), produzione di pregiato materiale ceramico e fittile (Vd i perfetti mattoni con la scritta Tayryanoin), di cui rimane ancora oggi una pallida reminiscenza in quel di Seminara la chiave di volta era un sistema viario di tutto rispetto che sembra essere stato dimenticato. In effetti invece sulla valle disegnata dal Metauro-Marro Petrace, quella più esattamente ascrivibile alla denominazione “Valle delle Saline” abbiamo invece notizie di prima mano che possiamo attingere in un recente lavoro di ricerca condotto da Vincenzo Spanò, passim) (V. Spanò: La via Annia Popilia in Calabria - Rilievo e ricostruzione – Reggio Calabria 2009, pp 85 -89)

    Secondo questo scrupoloso ricercatore , il sistema viario che interessava l’intera “Valle” era perfettamente integrato in un sistema viario ben collegato alla Via Popilia sulla quale si innestava un’efficacissima strada di collegamento tra l’entroterra e Tauriana. Essa “dopo aver attraversato l’uliveto di contrada Pace, superava la Provinciale che collega il centro di S.Anna a quello di Seminara lambendo la recinzione occidentale del cimitero del paese ed un terreno arato dal quale oggi affiorano pezzi di tegoloni e frammenti di ceramica romani. Procedendo lungo la naturale linea di displuvio, la Reggio Capua oltrepassava il fosso Carrà e i ruderi della “Macchina Scala” e, dopo aver attraversato la strada Seminara – Castellace, si ricongiungeva nelle immediate adiacenze di contrada Bizzola ( 191 m) alla S.P. 26 il cui tracciato percorreva lungo contrada Margherita e Tallaria sin poco oltre l’incrocio con la rotabile proveniente dal paese di S.Anna. Lasciata la Provinciale appena oltre detto incrocio seguiva la pista in terra battuta che, appoggiandosi al crinale e rasentando Casa San Giovanni, scende speditamente al Ponte Vecchio sul fiume Petrace.Il guado del Ponte Vecchio deve aver costituito fin dall’antichità un importante punto di sosta lungo la strada romana e un fondamentale snodo delle vie trasversali e longitudinali che solcavano il territorio della piana di Gioia Tauro; queste vie collegavano le aree interne della piana di Gioia Tauro a Palmi ed a Gioia Tauro, univano attraverso lo Zomaro direttamente Locri Epizefiri sullo Jonio e Tauriana sul Tirreno e raccoglievano nella bassa valle del Petrace sentieri e mulattiere discendenti dai displuvi del versante meridionale del bacino dello stesso Petrace, come dimostra ancora oggi la doppia forcella stradale formata da quelle strade che si è consolidata in corrispondenza delle opposte sponde del fiume. Oltre il fiume la via Annia puntava verso case Angimieri e contrada San Leo, dove è ancora visibile un breve suo tratto all’interno di un agrumeto privato (F° I.G.M. 1:25000 di Palmi 589 I, quadrato reticolare 81-82/49-50). Superava alcune case rurali degli anni Trenta e la statale 111 tra il chilometro 6 e il chilometro 7 per raggiungere lungo la provinciale 38 l’abitato di Drosi. Da questo che fu anche punto di divergenzqa di un diverticolo rivolto al porto Emporion di Medma posto presso l’attuale abitato di Mariina di Nicotera, la via Annia, rasentando il latop sinistro della chiesa di San martino, passava davanti agli edifici scolastici del paese e scendeva lungo via “La Petrara”, dove è ancora visibile un suo breve tratto selciato ancorchè invaso da terra, rovi e canne…( si recava infine attraverso la “Drosiana” al Pian delle Vigne)…” 
    E’ appena il caso di aggiungere che i contesti viari sui territori disegnati dal Metauro-Marro a monte di Tauriana e dal Mesima a monte di Medma erano ovviamente a sé stanti, e non solo in senso orografico, ma anche economico, politico e nel prosieguo anche religioso. In ogni caso, eliminando subito ogni stratificazione di notizie affastellate da una tradizione letteraria non sempre corretta e acuta, è necessario tornare sull’unico lavoro riguardante nello specifico la “Valle”o “Turma” delle Saline, quello condotto dal compianto Domenico Minuto nei suoi “Studi interdisciplinari sul mondo antico”, 2006, che accenna all’unica fonte letteraria corretta esistente in materia, vale a dire alla cronaca di Goffredo Malaterra “De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius”. Certo Malaterra, come lo era già stato Tito Livio per i Romani, è storico di parte, preoccupato di incensare ed esaltare la dominazione normanna nell’Italia Meridionale più che narrare con rigore storico e precisione geografica, tuttavia dai suoi quattro accenni alla questione , sebbene a volte tra loro contraddittori, è possibile ricavare notizie non aleatorie e soprattutto non scritte per sentito dire.
    La prima volta in assoluto in cui si parla esplicitamente della “Vallis Salinarum” è quella in cui Malaterra racconta dell’arrivo di Ruggero il Guiscardo dalla Puglia in Calabria per la conquista di quest’ultima e si accampa intorno ad Hipponion suscitando il terrore in tutti i castelli e in tutte le fortezze, ma soprattutto nella “ Valle delle Saline”. Nella medesima cronaca dell’arrivo di Ruggero, il Malaterra racconta anche che i due fratelli, dopo aver preparato le truppe, “scendono” verso la Valle delle Saline diretti verso Reggio e proprio nella stessa valle vengono informati che Reggio è pronta a resistere all’assedio e si dividono: Ruggero con un poderoso manipolo di soldati, piega verso Est dirigendosi verso Gerace. La terza menzione della “ Vallis Salinarum” risale a qualche anno dopo le vicende legate alle prime due. Nel 1059 lo steso Ruggero è ancora alle prese con i bizantini di cui cerca di bloccare le continue avanzate verso nord. Mentre sta cingendo d’assedio Oppido viene informato che un grosso esercito bizantino alla guida del vescovo di Cassano e di un alto dignitario geracese si sta dirigendo verso San Martino nella Vallis Salinarum. Abbandona quindi l’assedio di Oppido e si volge verso il contingente bizantino sbaragliandolo. Infine la denominazione gografica riappare nel racconto del matrimonio di Ruggero con la sorella di Robert de Grandsmenil che il Guiscardo incontra proprio nella Vallis Salinarum, il fidanzamento viene celebrato a San Martino e subito dopo il matrimonio nella cattedrale di Mileto. 

    Occorre notare che nel primo accenno del Malaterra la Vallis Salinarum sembra indicare un contesto geografico assai ampio, comprendente varie città e castelli non meglio identificabili. Nel secondo accenno invece conferma che tale territorio era attraversato dalla via Popilia e soprattutto dalla strada che, valicando l’Aspromonte giungeva a Gerace, confermando così l’esistenza fin dall’antichità di un percorso viario ben definito che dalle sponde dell’attuale Petrace, quindi da Tauriana,, risaliva tutto il bacino del Metauro-Marro in direzione montana nel cuore dell’avamposto reggino bizantino che, per tale , nel VI secolo d.C. aveva edificato una grande fortezza i cui ruderi affiorano ancora sopra Oppido, precisamente a Serro di Tavola.
    Il terzo e il quarto accenno del Malaterra alla Vallis Salinarum indicano invece un contesto geografico e toponomastico assai più ristetto rispetto ai precedenti: in linea di massima si tratta del territorio prossimo a San Martino, anzi, per essere più precisi, della conca del Marro-Petrace sulla quale si affacciava l’antico abitato di San Martino.
    La discrepanza territoriale tra le quattro diverse indicazioni e contestualizzazione usate dal Malaterra a proposito del toponimo latino Vallis Salinarum può spiegarsi ,si, con la preoccupazione del cronachista di incensare i Guiscardi piuttosto che indicare perfettamente i luoghi delle loro gesta, ma si spiega anche con la rapidissima destrutturazione politica del territorio operata dai dominatori normanni in quella che attualmente viene chiamata “Piana” di Gioia Tauro. Non avendo un’organizzazione geografico-amministrativa propriamente detta, ma una quasi casuale distribuzione dei loro domini in “città e castelli”, i Normanni, come sembra osservare il Malaterra, fanno erronamente coincidere in qualche modo l’ attuale Piana di Gioia Tauro (che si estende fino al Poro) con la Valle delle Saline nel propriamente detta. Una destrutturazione comunque molto indicativa che vede, prima fra tutte, la cancellazione del vescovato di Taureana appena due decenni dopo l’arrivo di Ruggero in Calabria , il conseguente accorpamento delle sue pertinenze e di quelle dell’abbandonata diocesi di Vibo nella nuova, grandissima realtà territoriale della diocesi normanna di Mileto. 
Taureana infatti, come è stato accertato da numerosi studi, non aveva affatto subito le distruzioni e le incursioni che per lunghissimo tempo sono state ritenute le cause del suo crollo. Cristina Rognoni in un suo recente sudio (Les actes privèes grecs de l’Archive ducal de Tolede, Parigi 2002,pp.183-184) addirittura dimostra che la cattedrale di Taureana funzionava regolarmente nel 1112-1113, quando la bizantina diocesi de Hagia Agathe (Oppido) era già nel pieno del suo vigore amministrativo e religioso. Molto probabilmente Taureana, dopo la rimozione del vescovo ad opera del Guiscardo, continuò comunque ad esercitare un ruolo di primo piano nella strategia difensiva costiera e in quella commerciale, ma sempre nella sfera di dominazione normanna, tanto è vero che la fidanzata di Ruggero e Ruggero stesso, venendo entrambi da Nord, sbarcano entrambi nell’unico porto evidentemente fruibile che era quello di Taureana, si incontrano e fidanzano nella Valle delle Saline dominata a sud dai bizantini e sul pianoro di San Martino in Mano ai Normanni e soltanto dopo si recano via terra a Mileto per le nozze.
    E non è una favola, anche se molto suggestiva.





martedì 7 luglio 2020

PEPPE VALARIOTI E GIANNINO LO SARDO: DA 40 ANNI DUE VITTIME DI NDRANGHETA SENZA COLPEVOLI

                                                                            di Bruno Demasi

    Le uccisioni di questi due giovanissimi protagonisti della vita politica calabrese negli anni Ottanta costituiscono indubbiamente due episodi chiave per capire le trasformazioni della ndrangheta in Calabria nella seconda metà del secolo scorso e nei primi decenni di questo secolo.
   Vi torna con rigore storico Enzo Ciconte (“Alle origini della nuova ndrangheta. II 1980.” Rubbettino, Soveria Mannelli, 2020) che data convenzionalmente proprio all’anno in cui avvennero gli omicidi di Peppe Valarioti e Giannino Lo Sardo l’inizio di quel sanguinario salto di qualità che porta la ndrangheta da fenomeno eminentemente sociale e politico a fatto per così dire imprenditoriale che travalica addirittura i ristretti confini regionali per diventare problema nazionale e addirittura internazionale.
   Parliamo di due vite straordinarie, due omicidi che ancora 40 anni dopo sono senza colpevoli da cui Ciconte parte per ricostruire una storia che ha al centro la ndrangheta conducendo un’analisi che propone spunti nuovi per giudicare l’evoluzione del fatto mafioso in Calabria, da fenomeno originariamente agropastorale a interlocutore della vita politica, specialmente negli anni della Democrazia Cristiana e poi del Centro sinistra , quando frange sempre più deviate degli stessi partiti cominciarono a servirsi del canale ndranghetistico per costituirsi serbatoi di voti, dando il via a un cancro che è lontano dall’essere debellato ai giorni nostri.
   A differenza di tanti comunisti parolai e all’acqua di rose presenti in varie sezioni calabresi, Lo Sardo e Valarioti appartenevano a quella militanza silenziosa e non salottiera, a quella gioventù realmente impegnata sul fronte sociale e politico che non aveva paura di compromettersi nei confronti di quelle consorterie mafiose locali che proprio negli anni Ottanta si presentavano sullo scenario nazionale già come diramazioni di un’ organizzazione criminale modernamente concepita ormai operante sia dentro che fuori i confini della Regione.

   Ha ragione Ciconte: tutte le analisi che la rappresentavano negli ultimi decenni del secolo scorso o addirittura la rappresentano ancora come come un’organizzazione agro-pastorale rintanata tra l’Aspromonte e lo Zomaro vanno buttate . Negli anni Ottanta la Ndrangheta è un’organizzazione in forte mutamento, ma quella trasformazione non la coglie nessuno. Nella regione piu povera d’Italia i sequestri di persona avevano lo scopo di “accumulazione primaria del capitale mafioso”. Erano anche gli anni del “Pacchetto Colombo” una sorta di “risarcimento” dopo la rivolta di Reggio di dieci anni prima, e i boss erano presenti con le loro imprese e con i loro interessi.
   In quell’anno – dice Ciconte - la ndrangheta è già “Santa”, ha un livello di élite che le consente di intreccciare rapporti solidissimi con politica, massoneria e Stato. I boss piazzano i loro uomini alla Regione, contribuiscono all’elezione di deputati e amministratori locali. A Rosarno come a Cetraro eleggono loro rappresentanti al comune.Si tratta dei due paesi dove muoiono uccisi Valarioti e Losardo. Peppe è un giovane professore di Rosarno, figlio di contadini e segretario della sezione del Pci. La sua presenza vigile e non parolaia dava fastidio, aveva una visione moderna e chiarissima della lotta alla mafia, ai boss voleva strappare potere e consensi. Lo ammazzarono l’11 giugno 1980. (“AIUTO, COMPAGNI , MI SPARARU ! “)


    Giannino Losardo,funzionario della Procura di Paola, era divenuto molto presto esponente in prima linea del Pci di Cetraro, il paese del clan Muto, il re del pesce. I boss locali lo consideravano apertamente un nemico. Fu ucciso 11 giorni dopo Valarioti.
    Losardo e Valarioti, scrive Ciconte “ non sono eroi solitari…ma espressione di una battaglia corale….muoiono perché sono percepiti e sono diventati un ostacolo…per gli affari mafiosi”., una battaglia corale mai fatta né dai partiti, né dai sindacati, né tantomeno dalla gente che ha dimenticato presto questi eroi e continua a delegare i governi degli enti locali a chi urla e sparla di più indipendentemente dal colore cui appartengono le sue false bandiere.