domenica 9 aprile 2017

…MA LEI COM’E’ STATO ELETTO SINDACO...?

di Domenico Luppino

    In assoluto una delle pagine più  eloquenti di lucidità sociologica e politica e di autogiornalismo d’autore scritta oggi da Domenico Luppino (già sindaco di Sinopoli) su ZoomSud, da cui la traggo integralmente . Vale più di cento saggi senza capo né coda, più di mille  manifestazioni di Educazione alla legalità coperte da zucchero vanigliato. Leggerla e ponderarla è - direi - quasi un dovere per tutti, nessuno escluso! (Bruno Demasi)
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   "Eletto sindaco di Sinopoli diventai oggetto fin dall’inizio di attenzioni intimidatorie da parte della locale criminalità. Non scrivo ‘ndrangheta, come forse dovrei, non per sminuire l’importanza della organizzazione criminale del mio territorio, ma per non darmi io stesso importanza. Ritenersi e proclamarsi vittima di ‘ndrangheta, non è sempre visto in modo benevolo.
   Dopo il secondo o il terzo avvertimento intimidatorio venni convocato presso la Prefettura di Reggio per essere ascoltato dal Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica. Il Comitato, per chi non lo sapesse, è formato dalle massime cariche Istituzionali della provincia (Ordine Giudiziario compreso).
   Entrato nel grande salone, mi chiesero: “Ma lei, come è stato eletto Sindaco di Sinopoli?”.
   Dirò più avanti cosa risposi. Voglio dire adesso, invece, quante volte quella domanda mi è risuonata in testa. E quante modeste riflessioni mi ha portato a compiere in questi dodici anni, tanti ne sono trascorsi.
  Fu allora che mi accorsi della consapevolezza, per altro motivata, che c’era nelle Istituzioni: impossibile essere eletti sindaco di un paesino come Sinopoli, senza avere goduto anche o soprattutto di un certo tipo di sostegno. Capii subito che quelle persone che mi stavano innanzi, sospettassero che la causa prima delle azioni intimidatorie di cui ero stato vittima, fossi io stesso. Forse non avevo rispettato qualche patto assunto prima della mia elezione. Non me la presi, anche se entrando in quella stanza mi sarei aspettato di entrare a far parte di una squadra. Invece, la mia sedia era quella del presunto colpevole. 

   Immaginiamo, per un attimo, l’eletto sindaco di un piccolo Comune del reggino che sa, in linea di massima, chi sono stati i suoi elettori. Immaginiamo che da eletto, pur temendo che da qualcuno dei suoi possibili elettori potessero arrivare delle richieste poco ortodosse, si fosse determinato, semplicemente per etica personale, a opporre un netto rifiuto. Ipotizziamo pure, che il nostro, pur sospettando che altri componenti della lista elettorale che lo sosteneva avessero potuto farlo, non fosse mai andato e non avesse mai avuto contezza di accordi con nessun personaggio di malaffare. Meno che mai con appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta. Ipotizziamo, anche, che sempre il nostro candidato abbia per mesi, nel corso delle campagna elettorale, rimarcato fino allo sfinimento che non dovevano e non potevano esserci spazi di sorta per legami poco chiari e conseguenti favoritismi verso alcuno. Da ultimo, supponiamo che il nostro si sia voluto illudere che la strada del cambiamento per la sua terra, passasse necessariamente dalla acquisizione, da parte di ognuno di quelli che lo affiancavano e supportavano e dunque della gente tutta, dalla consapevolezza che dovesse nascere un nuovo modello comportamentale di occuparsi della Cosa Pubblica. Anche partendo o, forse proprio, da realtà così difficili.
   Se solo per un attimo immaginassimo tutte queste ipotesi quella domanda non sarebbe stata posta a quel modo. Magari, si sarebbe usato un po’ più di tatto. Facendo forse un lungo giro di parole e discorsi per arrivare alla stessa intenzione. Ma così non è stato.
   Ho sempre pensato, ma non posso averne controprova, che a tradire fu proprio l’inconscia convinzione che nessuna della ipotesi suddette potesse essere vera. Avevano ragione loro, nella misura in cui pregiudizialmente hanno negato la minima fondatezza delle ipotesi suddette nella convinzione che esistesse una sola ed unica verità possibile: la loro. Poco male! 

   L’estrema semplicità della spiegazione che mi sono dato nulla toglie alla sua drammaticità. Che, se ci si pensa bene, va ben oltre il caso particolare. Travalica e sopravvive alla mia vicenda di allora. E non solo risulta attualissima, ma riveste una importanza di principio rilevantissima in senso generale.
   Innanzi tutto, perché in quella domanda c’era già la più terribile delle risposte. Ancora più tremenda, perché ad asserirla erano, appunto, i massimi rappresentanti dello Stato. Essi, nel preciso momento in cui formulano il quesito, ammettono l’impossibilità che chiunque, non ero più io il loro interlocutore, potesse diventare sindaco di un piccolo comune in provincia di Reggio, senza avere assunto accordi ed impegni con le forze che notoriamente detengono la possibilità e la capacità di orientare il consenso elettorale. E vanno oltre i confini del piccolo comune del caso. Se così non fosse, avrebbero negato la presenza di un ”locale” di ‘ndrangheta in ognuno dei Comuni della provincia di Reggio, Capoluogo compreso. Ed, allo stesso tempo, avrebbero negato la capacità della ‘ndrangheta di indirizzare e dirigere il voto.
   In pratica, ponendomi quella domanda, le Istituzioni dello Stato, se certo non stavano proclamando una resa incondizionata, di fatto avallavano l’inconsistenza della Stato stesso. La sensazione che ebbi allora e che, purtroppo, continuai ad avere dopo, fu quella di una grande solitudine. Non già per me e per il territorio che in quel momento rappresentavo, ma per l’intera regione in cui ero nato. Avrei potuto rispondere che mi avevano votato i cittadini onesti lasciando intendere che gli altri avevano votato il mio avversario. Non risposi a questo modo, perché avrei mentito. Feci io una domanda alla quale mi premurai di dare risposta: “Mi state chiedendo se ho avuto voti dalla ‘ndrangheta? Immagino di sì, come credo tutti i candidati a sindaco di ogni comune di questa provincia dovrebbero tenere da conto. So di non essere andato da nessun uomo di ‘ndrangheta a chiedere voti ed appoggio. Ma chi non immagina o non mette in conto che possa esserci questa possibilità, nel contesto sociale delle nostre realtà, mente sapendo di mentire o, peggio ancora, non conosce o finge di non conoscere la realtà in cui vive. 
   La ‘ndrangheta, punta su di un candidato, piuttosto che sull’altro, talora solo per misurare le proprie forze e la propria capacità di generare consenso. E non è detto che il candidato debba essere investito “dell’onore “di essere preventivamente informato. Caso mai accade il contrario: è il candidato che informa e chiede, ancor prima del consenso, il permesso di candidarsi. La ‘ndrangheta è consapevole di tutto ciò. Sa, che allorquando busserà alla porta dell’eletto, troverà qualcuno disposto ad accoglierla”. Avrei voluto aggiungere per concludere, ma non lo feci per non sembrare troppo irriverente: “Cercate di immaginare, dunque, quale potrebbe essere la mia colpa?”