domenica 21 maggio 2023

Mémoires 5: TRA BARACCOPOLI E BARACCATI... ( di Rocco Liberti)




     A Oppido Mamertina, e in genere in tutto il contesto preaspromontano, se si escludono le belle pagine scritte da Fortunato Seminara per Maropati, le baracche e le baraccopoli non sono più neanche un ricordo, specialmente per le nuove generazioni. Eppure si trattava – e, per i pochissimi brandelli che ne restano, si tratta ancora oggi - di testimoni muti e drammatici di un’epoca in cui alle povertà ataviche dei luoghi si erano repentinamente sovrapposte quelle del terremoto e delle guerre in un territorio che conosceva e conosce bene tutte le miserie, ma anche la voglia sovrumana di ricominciare.

     Proprio di questa situazione antica con cui dobbiamo ancora fare i conti, di questa voglia di ripartire da zero che ha sempre distinto la nostra gente ci è garante Rocco Liberti, che in questa nuova e ricca pagina di Mémoirers inedite ci riporta nel vivo di una situazione umana e sociale insospettata e tutta da riscoprire.

     Il racconto si dipana con l’abituale rigore, ma con grande simpatia per un passato doloroso, sebbene , a modo suo, non privo di spunti di allegria e il ricordo diretto ci ripropone personaggi ( si pensi tra tutti alla "Tabacchinera" o al valoroso e compianto Canonico Armino) e situazioni che vale veramente la pena far rivivere: un motivo in più per rinnovare la nostra gratitudine, e non solo di Oppidesi, all’Autore , alla sua maestria di ricercatore e storico, ma anche di testimone di un'umanità davvero perduta. (Bruno Demasi)

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 Fino agli anni '30 il nucleo centrale di Oppido era interessato da estesi raggruppamenti di abitazioni legnamate, in particolare l’odierno corso Luigi Razza, ch’era stato appositamente aperto con l’obiettivo di raggiungere più agevolmente Tresilico. Conosciuto già come Rettifilo o ‘a strata nova (la strada nuova; imperativa, a causa dei mezzi in percorrenza, la raccomandazione delle mamme ai figli piccoli: non cridu ca’ vai nd’a strata nova!), per portarvisi in antecedenza bisognava andare su altro percorso e varcare il Piliere. A siffatto scopo c’era stato perciò bisogno di allestire un ponte che collegasse direttamente, opera occlusa ad ovest in occasione della sopraelevazione della strada oggi intitolata a Geppo Tedeschi e ad est parecchi anni appresso con la realizzazione della casa Sofo. Tuttora per indicare un’area nelle vicinanze si dice: dopo il ponte di Tresilico o prima. In progressione era logico che di due paesi se ne costituisse uno. Peraltro Tresilico, in passato casale di Oppido, era stato elevato a Comune dall’amministrazione francese appena durante il noto Decennio. Nel 1927 il più piccolo agglomerato alla fine ha chiuso come entità comunale. Raggiuntasi la conurbazione non aveva più ragion d’essere. Già in una delibera del consiglio comunale di Oppido del 27 maggio 1907 si dichiarava espressamente: «Ponte Nozzenti, che è il limite tra il territorio di questo Comune e quello di Tresilico, a causa dei nuovi fabbricati già costruiti e che si vanno costruendo lungo il percorso del tratto medesimo lo rendono strada interna dello abitato…».

    Il ponte era così detto dal nome della contrada. Comunque, per diverso tempo tra Oppidesi e Tresilicesi c’è stata una certa rivalità e ricorrenti gruppi, incrociandosi, non esitavano a sfottersi apostrofandosi di volta in volta Oppitisi o Trisilicoti e scambiandosi i blasoni popolari tramandatisi da chissà quale generazione: Trisilicoti mancanti mancanti, omini e fìmmini tutti briganti oppure A Oppitu od anche a Trisilicu tri campani omini e fìmmini tutti p.... od anche A Trisilicu o a Oppitu tri cannistri omani e fìmmini tutti maistri e avanti di questo passo. In alcune occasioni si arrivava perfino alle mani. L’offesa andava lavata! 


   Ma veniamo alle baracche. Oltre a una lunga fila di edificazioni in gran parte conosciute come viennesi sulla via tra Oppido e Tresilico, altre di diversa provenienza se ne trovavano al rione Tuba, al rione Caciagna, alle spalle della chiesa di San Giuseppe, nei pressi della via Marconi, posteriormente al Municipio, negli slarghi divenuti poi piazza Mamerto oggi Albano e Concesso Barca.

 Il blocco che ha resistito maggiormente è stato quello sulla via Piliere a partire dalla chiesa del Calvario. Allorché nel 1954 il vescovo Maurizio Raspini ha compiuto l’ingresso ufficiale nel capoluogo della diocesi, con un pensiero rivolto alla precarietà della gente che vi dimorava ha chiesto espressamente di transitare dalla località dove insistevano le baracche. Non sono trascorse molte lune e il caseggiato ha raggiunto del pari una logica conclusione. Vicino vi sono stati costruiti in sostituzione alloggiamenti in muratura. Sono fra le ultime case così dette popolari dopo i complessi nati al rione Tuba, al rione Caciagna, in vicinanza della chiesa di San Giuseppe, ai lati del corso Razza e a Tresilico. I muri di alcuni abituri in una fase non sospetta sono stati ricoperti da sottili pareti in calcestruzzo che alla vista hanno celato la loro origine. Bene! In certi periodi, leggi miracolo, vi sono sorte stabili dimore. Qualche casotto ligneo è dato osservarlo tutt’oggi. Uno si può scorgere in prossimità del corso Razza, ma in territorio dell’ex comune di Tresilico, vicino a una fontana che da tempo non emette più acqua. Mi è capitato quand’ero ragazzo di entrare nelle baracche, ma ne ho una vaga reminiscenza. In una di esse operava una farmacia, la farmacia Macrì (il dr. Macrì era un varapodiese) successivamente Scarfone. Era ubicata esattamente all’inizio della via Ugo Foscolo, tra il bar Dolce Via e la panetteria Le Gioie del Pane. Ho bazzicato frequentemente presso una baracca piuttosto complessa e di tipo signorile con corridoio e vani a lato ch’era dei Longo, ma in fitto al maestro pseudo avvocato Buda. Usufruiva di due giardinetti, uno davanti altro dietro. Trovandosi a pochi passi da casa mia sul tratto che scorre tra l’ufficio postale e la residenza dei Feis, ma al tempo dei Lentini, ci mettevo poco ad appressarmici.

 

   Negli ultimi tempi a fare le spese dei monelli erano le baracche lungo via Piliere. Avendo il tetto di lamiera, era quasi un invito a nozze dare il via a una sassaiola. A subire maggiormente era la prima della serie pressoché attaccata al sagrato della chiesa del Calvario, che ospitava una numerosa famiglia. Ad ogni azione il capo di essa, un canestraio, usciva a perdifiato imprecando e cercando di acciuffare qualcuno della masnada, ma, marameo, quelle birbe si dileguavano in un battibaleno. Allora se ne avvertivano di ragazzacci in giro e anche di ciottoli, che apparivano seminati in tutte le strade! Questi ultimi erano belli e pronti e a iosa. Di norma lungo le strade principali si allestivano blocchi di pietre sminuzzate che poi i cantonieri provvedevano a spargere lungo l’asse viario dove necessario. La vita nelle bidonvilles, ce n’erano ovunque nei paesi terremotati, è stata magistralmente proposta, tra altri, da due narratori calabresi, d. Luca Asprea in relazione a Oppido (Il Previtocciolo) e Fortunato Seminara per quanto riguarda Maròpati (Le baracche).

    Non solo le famiglie usufruivano di ricoveri lignei. Anche i riti religiosi si celebravano in chiese baracche. La cattedrale detta appunto la cattedrale baracca si rinveniva su quella che oggi è la via Mamerto proprio di fronte all’asilo oggi sede di uffici dipendenti dalla diocesi. A seguito della costruzione del nuovo duomo completato nel 1935 è stata negletta e in essa, forse già alquanto ridotta, l’arciprete De Marte ci conduceva per assistere a proiezioni cinematografiche. Aveva preso il posto della chiesetta del Buon Consiglio di patronato della famiglia Grillo incorsa nel terremoto del 1908 e quindi demolita. In sua vece c’è oggi la casa canonica. Anche l’altra parrocchia cittadina, l’Abazia, aveva a disposizione una chiesa di legno come pure quelle agenti a Tresilico e Zurgonadi. 


    Le baracche hanno sopperito a lungo alla mancanza di case. Erano solide e mantenevano abbastanza tiepido l’ambiente, ma che succedeva? Per cucinare, riscaldarsi nell’inverno e compiere altre operazioni ci si doveva servire necessariamente del fuoco e la disattenzione di qualcuno poteva portare a effetti catastrofici. Non di rado perciò c’era il rischio di rimanere del tutto sinistrati. Si racconta di vari incendi scoppiati nei quartieri, ma non me ne rammento di particolari. In ogni occorrenza era la campana più grande della chiesa di San Giuseppe a chiamare a stormo la popolazione. Emetteva un suono così fragoroso e lugubre che atterriva. Oggi non si nota tanto anche perché la torre campanaria è stata schermata. Diceva mia madre che quando sentiva rintoccare da quella parte si metteva subito grande paura. Ricordo invece che in una baracca venivano di tanto in tanto tolte tavole, ch’erano accese a fine di mitigare il rigore del freddo. Ebbene, togli oggi togli domani, in una nottata particolarmente ventosa la baracca si è rotta in mille pezzi che il vento ha sparpagliato di qua e di là. Allora il vento dominava sovrano. Era in carico a Dovardo (Edoardo M.) padre di numerosa famiglia e si trovava sull’odierna via Sturzo dove ora sorge una casa popolare. Ne sono stato testimone il giorno dopo in quanto posizionata a poche decine di metri da casa mia.

    Sono stato presente a disastro completato in occasione di un vasto incendio sviluppatosi credo sul finire degli a. 40. Era una giornata in cui imperversava un fortissimo levante quando il fuoco, partito dalla casa di Marafioti, proprio a ridosso della caserma dei carabinieri, si è subito propagato ad altre due sulla stessa fila. Quella propriamente a lato abitata dalla tabacchinera e da sua figlia se non tutte e due era una baracca. La tabacchinera, com’era chiamata, era reggina e gestiva una rivendita di sali e tabacchi sul corso proprio avanti al municipio. Nonostante l’intervento massiccio della popolazione ogni cosa purtroppo è finita arsa al gran completo. Non è rimasto alcunchè di utilizzabile. Al loro posto sono sorte le case del dr. Giovanni Sposato e oggi appartenenti ad altri proprietari. Ricordo bene che a darsi da fare con gran foga fino all’ultimo dominava l’onnipresente canonico Armino, rivelatosi proprio l’anima della situazione. In mezzo a quei tizzoni ancora ardenti e col fumo che non faceva respirare aveva tutta la veste talare bruciacchiata e lui in volto appariva nero come un africano.  
Rocco Liberti

martedì 16 maggio 2023

DBE DI OPPIDO MAMERTINA AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO (di Bruno Demasi)

     Sarà presentato il 18 maggio al Salone del Libro di Torino il lavoro a quattro mani di Donatella Pau Lewis e Remo Barbaro “Aspromonte e Supramonte – Codice d’onore e Codice Barbaricino – Due codici a confronto” edito dalla rinata casa editrice DBE che, in ossequio alle proprie origini, mantiene la propria sede a Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria. 

     Indubbiamente una conquista per la stessa editrice , che conferma il suo stile inconfondibile e la sua qualità, e per la città aspromontana che le ha dato i natali , che la ospita orgogliosamente e che per una volta non darà materia a cronache negative, ma farà udire la propria voce in una cornice tanto prestigiosa e cosmopolita come il Salone del Libro di Torino. Indubbiamente un traguardo per i due autori che si sono cimentati in un lavoro non facile, ma avvincente: un’analisi accurata del codice d’onore, che ancora permea tanta antropologia dell’Aspromonte, e dello speculare codice della Barbagia: due facce solari della stessa medaglia mediterranea, due passionali riscontri di una medesima civiltà antichissima e sempre viva malgrado le cronache e la pubblicistica imperanti la vogliano da tanto tempo ormai sepolta. 

    E’ uno studio accurato , proposto garbatamente sotto forma di conversazione quasi domestica, che con coraggio mette in discussione per una volta tanta retorica che ancora oggi permea di sé la letteratura, la saggistica e il giornalismo sedicenti meridionalisti che continuano a bollare queste due terre, l’Aspromonte e la Barbagia, inzuppate dallo stesso mare e dalla stessa storia, come produttrici cieche di Banditismo e di Mafia , di amore ancestrale per il sangue e la paura, di passione esasperata per per il dominio o il predominio familistico.

    Come mi son permesso di scrivere nella postfazione a questo bel libro, tre, in particolare, mi sembrano le innovazioni “rivoluzionarie” con cui fare i conti dopo questa pubblicazione: una di metodo, le altre due di merito. 

   La prima riguarda un modo nuovo di fare saggistica, elaborato con cura dai due autori che riescono a coniugare critica storica, sociale, antropologia e abilità narrativa in un unico codice comunicativo semplificato al massimo, esponendo con naturalezza punti di vista e dimostrandone il valore in forma discorsiva e non accademica .

    La seconda apre uno squarcio su un valore che molti, anzi troppi, finora hanno trascurato: le culture e le società mediterranee non sono soltanto simili, ma posseggono qualcosa di più, un DNA che le accomuna in modo drammatico e sconvolgente . In questo caso l’Aspromonte e il Supramonte, l’enclave calabro e quello sardo ( ma verosimilmente anche i contesti di vita di altre regioni in passato lambite o impregnate dalle stesse civiltà e ridotte nei secoli a terre di rapina) malgrado le differenze sottili, elaboravano e praticano ancora gli stessi codici di comportamento, le stesse forme di accettazione e di reazione dinanzi alla fenomenologia spesso drammatica della vita sociale giocata in contesti naturali a loro volta dannatamente belli e struggenti. 

   La terza innovazione è poi esplosiva perché questo studio del tutto inedito ed accurato, con decisione e chiarezza, spazza via tanta retorica filoborbonica che negli ultimi tempi sta invadendo persino i manuali scolastici, sulla scia di un’esaltazione molto opinabile di una presunta età dell’oro per il Sud preunitario di fatto mai esistita, almeno nei termini in cui oggi la si vorrebbe fare apparire.

    A dimostrare ampiamente questo assunto bastino le pagine chiarissime in cui Brigantaggio e Banditismo vengono analizzati nella rispettiva esatta dimensione di reazione popolare alla situazione subumana in cui la gente era costretta a vivere anche nel periodo preunitario oltre che come forma di resistenza alla progressiva distruzione del mondo pastorale ad opera delle baronìe , delle guardianìe e dell’oppressiva economia latifondista i cui effetti ancora oggi non sono del tutto scomparsi. 
    Le chiavi di lettura che accomunano le analisi effettuate sul mondo aspromontano e su quello sardo sono tutte micidiali se davvero vogliamo fermarci un attimo a riflettere anche noi su quanto avvenuto ieri e su quanto accade ancora oggi in questo contesto mediterraneo a cui siamo tutti inesorabilmente aggrappati.

    Come trascurare, appunto, la sfiducia latente e conclamata nello Stato e specialmente nel sistema giudiziario; il valore e i disvalori della vendetta e la disamina tra ruoli, similitudini e differenze tra le società mafiose più conosciute; la missione e l’atteggiamento della donna nelle società matriarcali ancora oggi vigenti; la tormentosa e tormentata storia ufficiale e quella ufficiosa dei sequestri di persona a scopo estorsivo; i codici d’onore e il loro peso enorme sulla qualità della nostra vita persino nel secolo in cui stiamo vivendo?    
      A volte fa bene gettare un sassolino nella palude del conformismo, ma questo saggio stavolta mi sembra scateni la forza d’urto di un macigno, rimettendo in discussione tutti i luoghi comuni che per molti decenni sono stati e sono la dannazione del nostro Sud.

                                                                                                                                           Bruno Demasi

mercoledì 10 maggio 2023

Mèmoires 4: OPERETTE E SCUOLE MAMERTINE ( di Rocco Liberti)


     Questa  quarta parte di memorie mamertine del prof.Rocco Liberti, da lui battezzate ben a ragione "Mémoires" in quanto non sono soltanto ricordi slegati tra loro, ma perfettamente inseriti in contesti paesani vissuti e riletti attraverso la storia ufficiale, è particolarmente ricca. Stavolta, da uomo di scuola oltre che da storico, egli traccia un excursus avvincente e vivo sulla vita e sulle strutture scolastiche mamertine in anni pedagogicamente e socialmente difficili. E, attraverso la storia delle situazioni e delle figure che contrassegnarono di sè la scuola mamertina, lo sguardo va poi oltre, delineando con commozione il grande fervore artistico e culturale che in quegli anni diede vita alle pendici dell'Aspromonte a un'inedita fioritura di teatro musicale con l'allestimento di varie operette che ebbero grande fortuna, la più celebre delle quali, "La voce del cuore", spopolò non solo a Oppido, ma anche al Politeama Siracusa di Reggio Calabria e altrove. Uno spaccato inedito di iniziative e strutture socioculturali rimediate alla meglio, ma anche della voglia della gente di superare la povertà diffusa attraverso i mezzi e i veicoli culturali di cui si disponeva  con grande entusiasmo e  forza di volontà .

    Come di consueto, accanto al tema generale fioriscono molte digressioni piacevoli e curiose con  uno sguardo indulgente su un'umanità in gran parte ingenua, ma desiderosa di imparare e di migliorarsi  e con abbondanza di notizie  che , se non fossero state raccolte e custodite con cura dal prof.Liberti, nessuno potrebbe ormai reperire e che , ancora una volta, possiamo  leggere e rileggere tutti con vivo interesse e sincera gratitudine. (Bruno Demasi)
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   Non ero ancora nato, ma negli a. '30, essendo di moda, l’operetta era in cima agli spettacoli che la GIL organizzava col coinvolgimento delle scuole, all’epoca solo quelle elementari. Si è configurato allora un periodo se non altro spensierato. Tutti n’erano interessati, insegnanti e alunni. Anche l’istituzione scolastica, è naturale, risultava fascistizzata. A ottenere un vistoso successo è stata “La voce del cuore”, che poi abbiamo ripreso negli a. '70 nell’auditorium della moderna scuola elementare. Di concerto, negli anni ’90, si è riproposta a Taurianova e quindi a Oppido dalle rispettive Scuole Medie su iniziativa del preside oppidese Bruno Demasi, sollecitato da Andrea Muscari, figlio del compositore delle splendide musiche e l’allestimento della scuola media oppidese ricevette il primo premio al festival del Teatro Scolastico Calabrese. 

   Ritornando agli anni ’30, a capo di tutto c’era il ragioniere Muscari, segretario politico del Fascio, persona simpaticissima che amava la musica e si era votato a comporre le melodie su testi dell’avvocato Rocco Mileto. A questi era dovuta l’intera parte recitata. Lo spettacolo, rappresentato inizialmente in Oppido, verrà successivamente portato in giro per la Provincia. A detta di tanti alla preparazione concorreva l’intero paese.Ognuno collaborava secondo le attitudini. L’inno “O dolce terra di Calabria mia”, che pervade tutta la composizione, è stato a lungo cantato dagli Oppidesi e in particolari occasioni viene ancora oggi a essere rinverdito. 
 
   Quando, sul finire della seconda guerra mondiale, si è vociferato che il rag. Muscari, crollata la Repubblica di Salò, era rientrato a Oppido, la mattina dopo ad attendere che si facesse vivo dalla casa del cognato avv. Pastore, dove aveva trascorso la notte, si era dato convegno una vera folla. Ero tra i presenti. Richiamato alle armi pochissimi giorni avanti la dichiarazione dell’armistizio, tutti gli consigliavano di non muoversi perché la partita era ormai persa, ma ha preferito adempiere al suo obbligo e, finito in Alta Italia, vi ha svolto perfino l’impegno di Commissario Prefettizio. 

    Non ho memoria che siano avvenute a scuola manifestazioni di sorta durante la mia frequenza, d’altronde all’epoca il conflitto tra le nazioni era già in atto e l’illuminazione si offriva assai scarsa. Di sera le lampadine nelle case venivano coperte da un drappo nero onde non far filtrare la luce all’esterno o ci si serviva di lumarej, lumicini che emanavano un chiarore fioco da un pezzo di tela impregnata d’olio. Solo i più abbienti avevano il loro bravo lume a petrolio con la cazettina, che illuminava bruciando lentamente dentro un contenitore di vetro. Tale azione si diceva oscuramento e le case restavano sotto controllo. Se si notava filtrare fuori del bagliore, i richiami, con le esagerazioni del caso, non mancavano da parte di chi si trovava a passare di ronda. Ricordo a proposito un avviso esperito a voce alta alla porta di casa mia dal fascista Giuseppe Garreffa perito poi in Russia, ma l’intervento era sproporzionato e fuori luogo. In verità, non si vedeva a un palmo dal naso nemmeno dentro! Ma a quei tempi ognuno voleva essere più realista del re. Era l’andazzo! 

    Le scuole erano sistemate in un caratteristico baraccato sorto dopo il terremoto del 1908. C’era un ampio spiazzo al centro e attorno si dispiegavano le aule, a ognuna delle quali si perveniva salendo per una scala. Se dalla destra verso nord l’accesso si rendeva agevole, a sinistra era il contrario datosi che occorreva quasi inerpicarsi. Al vuoto non si frapponevano parapetti e più d’uno ha finito col rompersi qualche arto. Le classi erano numerose e distinte per maschi e femmine e i maestri si qualificavano in genere uomini, ma le donne non mancavano. Alcune erano oriunde da fuori regione, dalla Sicilia Catanese e Condorelli, dalla Basilicata Laviani. 
 
    Le aule a volte ospitavano almeno 40-50 alunni se non più e il maestro Francescantonio Meligrana proprio nel 1942 ha ottenuto di avvicendare due turni, uno antimeridiano e l’altro pomeridiano. Io e Lentini, ai quali piaceva andare a scuola sia per fare i compiti che per ascoltare il fatterello raccontato alla fine, per gentile concessione frequentavamo in entrambi i tempi. Le letture del maestro Meligrana, un maestro di eccezione! Ci leggeva egli favole, quelle di Capuana, una modernità allora e fuori dal comune, ma anche i libri della scala d’oro dell’UTET, la leggenda di Troia, il viaggio di Ulisse, il capitan Fracassa, Tartarino, Candullino e chi più ne ha più ne metta. La narrazione preferita era però in diretta e quando ci chiedeva quale racconto avremmo desiderato la reazione era immediata e unanime: chiju di’ centu lepri. Con la sua verve il maestro a un bel momento ci faceva rivivere quasi fosse realtà un gruppone di cento lepri in marcia, un’immagine che ci entusiasmava non poco. Nel cortile c’era una fontanina e nell’aula posta all’entrata agiva il maestro fiduciario M., che per tenere a freno la scolaresca al ritorno da ogni sortita si vedeva costretto a esprimersi con voce alta.
 
  Per tale comportamento era stato definito ‘u canazzu ‘i Ripepi. Il macellaio Ripepi teneva fuori la sua bottega un cane orrendo che urlava continuamente spaventando chi si avventurasse da quelle parti. È necessario comunque affermare che la presenza scarseggiava e che di conseguenza le bocciature risultavano di rito. Per cui venivi a stare a fianco di gente che aveva superato i limiti di età da tempo. Immaginarsi i comportamenti dei grandi verso i piccoli! Nei miei ricordi c’è un “nonno Gianni” (Giovanni L.), persona buona che chiamavamo così per una lettura, in cui il protagonista portava tal nome, ma anche perché, avendo frequentato la prima non so quante volte, in quarta si ritrovava a distanza notevole dagli altri in ogni senso. Aveva il compito principale di aprire e chiudere la porta ad ogni necessità. Non sono andato in quinta datosi che ci hanno indotto a fare, come si diceva, il salto alla scuola media. 

   Di estremamente brutto ricordo i siti dei bagni, chiamiamoli bagni, ma erano delle latrine vere e proprie. Ce n’erano due distinti per sesso e collocati alle ali della costruzione. Quello frequentato dai maschi era cosa che non mi azzardo a commentare. Di bidelli se ne vedeva a malapena uno e in età avanzata, mastru Cicciu Carbone, nel contempo ciabattino e suonatore di tamburo con la banda locale, che si faceva aiutare dalla moglie, ‘onna Marantonia, un tipo sempre su di giri, davvero nu focu randi. In appresso i locali si sono deteriorati talmente che la scuola ha dovuto spezzettarsi in fabbricati presi in affitto e distanti l’uno dall’altro. Due classi sono state addirittura ospitate nella sacrestia della cattedrale. Nell’abbandonata struttura si sono allogati nuclei familiari cui la casa in qualche modo difettava, ma negli a. 70 è stato tutto abbattuto e vi si sono elevati immobili consegnati a famiglie di vario ceto, ma idonee a pagare il canone spettante. 

    Le classi quinte, unitamente al corso di “Avviamento agrario” agivano in un grande baraccone legnamato, detto appunto ‘u barraccùni. In principio, subito dopo il sisma del 1908 in altro consimile era stato albergato il Municipio, ma in successione col materiale ricavato si è costruito detto sistemandolo vicino al plesso delle scuole elementari. Negli a. 50 vi ho sostituito più di una volta i maestri D. e F., che, detta alla calabrese, di tanto in tanto foriàvanu. Per l’addietro i bagni nelle case come li conosciamo oggi erano davvero un miraggio e spesso la necessaria mèta per piccoli e grandi era costituita dal terreno accosto alla parte posteriore dello stesso. La parola d’ordine era a ogni piè sospinto: jmu arretu ‘o barraccùni. Poveri i netturbini che vi dovevano passare e ripassare con le loro non proprio adeguate carriole di legno.
 
 Quasi sempre le liti che si accendevano in piazzetta si concludevano in bene o in male dietro il baraccone. Il passo era breve. Ma più giù c’era pure ‘u fossu, una strettoia che correva accanto a una baraccopoli in cui albergavano diverse famiglie. Si dipartiva dalla chiesa del calvario. Questa era ed è così conosciuta per via di un’edicola sita sul lato destro per chi guarda il prospetto dell’edificio. Ai miei tempi ne emergeva appena la parte superiore e ci mettevamo sopra. Verosimilmente era finita in malora dopo l’edificazione della chiesa e si rivelava come altre sulla vecchia strada che da Tresilico menava a Oppido. In definitiva dire “jmu o’ barraccùni o jmu o’ fossu” era la stessa cosa. I due termini sono logicamente scomparsi dal gergo popolare con l’abbattimento delle baracche e l’incendio doloso del baraccone. In un primo tentativo quest’ultimo era stato salvato da mia madre, che, affacciatasi dietro casa, si era accorta del misfatto perpetrato e aveva urlato facendo accorrere gente. Forse lo si voleva eliminare senza sottostare a fastidiosi obblighi di natura burocratica! Mah! 

   Restando sul tema scuole, soccorrono dei particolari circa altre strutture che accoglievano i piccoli Oppidesi onde istruirli o far loro trascorrere delle ore in sana armonia. Nel locale che poi accoglierà la scuola media, due case popolari unite tra loro da una struttura in cemento, oggi occupate da una sede dipendente dell’ASL e dalla famiglia Freno, sulla quale campeggiava il nome di Italo Balbo, in periodo scolastico nel pomeriggio si alternavano i Balilla per effettuare esercizi ginnici. Spesso, scendendo inverso Tresilico, osservavamo il maestro Meligrana in atto di ordinare i classici attenti e riposo, avanti march o dietrofront. 
 
   In estate invece si dava vita alla colonia estiva, ch’era guidata da maestre, come indicate in fotografia. Un accorsato Asilo-Nido per i figli delle raccoglitrici di olive con l’egida dell’Unione di Reggio Cal. Conf. Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura aveva invece modo di essere a Tresilico e veniva guidato dalle suore di carità. Per i campi estivi si era addirittura creata sui prossimi monti in una specie di villaggetto, cui si era dato nome Mamertinia, accosto a quel Sanatorio Antitubercolare, che alla fine si è rivelato un vero e proprio fallimento, una colonia estiva intitolata al sottotenente Rocco Mammone caduto nel 1937 durante la guerra di Spagna. Pur essendomi recato spesso in montagna, non ho mai avuto riscontro diretto di dove si trovasse esattamente  ubicata, anche se si sa che sorgeva, internata di alcune centinaia di metri, a destra della strada che dallo Zillastro  porta a Zervò, più o meno  all'altezza degli attuali ruderi di quella che fu l'Azienda Zootecnica.

Rocco Liberti