mercoledì 10 maggio 2023

Mèmoires 4: OPERETTE E SCUOLE MAMERTINE ( di Rocco Liberti)


     Questa  quarta parte di memorie mamertine del prof.Rocco Liberti, da lui battezzate ben a ragione "Mémoires" in quanto non sono soltanto ricordi slegati tra loro, ma perfettamente inseriti in contesti paesani vissuti e riletti attraverso la storia ufficiale, è particolarmente ricca. Stavolta, da uomo di scuola oltre che da storico, egli traccia un excursus avvincente e vivo sulla vita e sulle strutture scolastiche mamertine in anni pedagogicamente e socialmente difficili. E, attraverso la storia delle situazioni e delle figure che contrassegnarono di sè la scuola mamertina, lo sguardo va poi oltre, delineando con commozione il grande fervore artistico e culturale che in quegli anni diede vita alle pendici dell'Aspromonte a un'inedita fioritura di teatro musicale con l'allestimento di varie operette che ebbero grande fortuna, la più celebre delle quali, "La voce del cuore", spopolò non solo a Oppido, ma anche al Politeama Siracusa di Reggio Calabria e altrove. Uno spaccato inedito di iniziative e strutture socioculturali rimediate alla meglio, ma anche della voglia della gente di superare la povertà diffusa attraverso i mezzi e i veicoli culturali di cui si disponeva  con grande entusiasmo e  forza di volontà .

    Come di consueto, accanto al tema generale fioriscono molte digressioni piacevoli e curiose con  uno sguardo indulgente su un'umanità in gran parte ingenua, ma desiderosa di imparare e di migliorarsi  e con abbondanza di notizie  che , se non fossero state raccolte e custodite con cura dal prof.Liberti, nessuno potrebbe ormai reperire e che , ancora una volta, possiamo  leggere e rileggere tutti con vivo interesse e sincera gratitudine. (Bruno Demasi)
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   Non ero ancora nato, ma negli a. '30, essendo di moda, l’operetta era in cima agli spettacoli che la GIL organizzava col coinvolgimento delle scuole, all’epoca solo quelle elementari. Si è configurato allora un periodo se non altro spensierato. Tutti n’erano interessati, insegnanti e alunni. Anche l’istituzione scolastica, è naturale, risultava fascistizzata. A ottenere un vistoso successo è stata “La voce del cuore”, che poi abbiamo ripreso negli a. '70 nell’auditorium della moderna scuola elementare. Di concerto, negli anni ’90, si è riproposta a Taurianova e quindi a Oppido dalle rispettive Scuole Medie su iniziativa del preside oppidese Bruno Demasi, sollecitato da Andrea Muscari, figlio del compositore delle splendide musiche e l’allestimento della scuola media oppidese ricevette il primo premio al festival del Teatro Scolastico Calabrese. 

   Ritornando agli anni ’30, a capo di tutto c’era il ragioniere Muscari, segretario politico del Fascio, persona simpaticissima che amava la musica e si era votato a comporre le melodie su testi dell’avvocato Rocco Mileto. A questi era dovuta l’intera parte recitata. Lo spettacolo, rappresentato inizialmente in Oppido, verrà successivamente portato in giro per la Provincia. A detta di tanti alla preparazione concorreva l’intero paese.Ognuno collaborava secondo le attitudini. L’inno “O dolce terra di Calabria mia”, che pervade tutta la composizione, è stato a lungo cantato dagli Oppidesi e in particolari occasioni viene ancora oggi a essere rinverdito. 
 
   Quando, sul finire della seconda guerra mondiale, si è vociferato che il rag. Muscari, crollata la Repubblica di Salò, era rientrato a Oppido, la mattina dopo ad attendere che si facesse vivo dalla casa del cognato avv. Pastore, dove aveva trascorso la notte, si era dato convegno una vera folla. Ero tra i presenti. Richiamato alle armi pochissimi giorni avanti la dichiarazione dell’armistizio, tutti gli consigliavano di non muoversi perché la partita era ormai persa, ma ha preferito adempiere al suo obbligo e, finito in Alta Italia, vi ha svolto perfino l’impegno di Commissario Prefettizio. 

    Non ho memoria che siano avvenute a scuola manifestazioni di sorta durante la mia frequenza, d’altronde all’epoca il conflitto tra le nazioni era già in atto e l’illuminazione si offriva assai scarsa. Di sera le lampadine nelle case venivano coperte da un drappo nero onde non far filtrare la luce all’esterno o ci si serviva di lumarej, lumicini che emanavano un chiarore fioco da un pezzo di tela impregnata d’olio. Solo i più abbienti avevano il loro bravo lume a petrolio con la cazettina, che illuminava bruciando lentamente dentro un contenitore di vetro. Tale azione si diceva oscuramento e le case restavano sotto controllo. Se si notava filtrare fuori del bagliore, i richiami, con le esagerazioni del caso, non mancavano da parte di chi si trovava a passare di ronda. Ricordo a proposito un avviso esperito a voce alta alla porta di casa mia dal fascista Giuseppe Garreffa perito poi in Russia, ma l’intervento era sproporzionato e fuori luogo. In verità, non si vedeva a un palmo dal naso nemmeno dentro! Ma a quei tempi ognuno voleva essere più realista del re. Era l’andazzo! 

    Le scuole erano sistemate in un caratteristico baraccato sorto dopo il terremoto del 1908. C’era un ampio spiazzo al centro e attorno si dispiegavano le aule, a ognuna delle quali si perveniva salendo per una scala. Se dalla destra verso nord l’accesso si rendeva agevole, a sinistra era il contrario datosi che occorreva quasi inerpicarsi. Al vuoto non si frapponevano parapetti e più d’uno ha finito col rompersi qualche arto. Le classi erano numerose e distinte per maschi e femmine e i maestri si qualificavano in genere uomini, ma le donne non mancavano. Alcune erano oriunde da fuori regione, dalla Sicilia Catanese e Condorelli, dalla Basilicata Laviani. 
 
    Le aule a volte ospitavano almeno 40-50 alunni se non più e il maestro Francescantonio Meligrana proprio nel 1942 ha ottenuto di avvicendare due turni, uno antimeridiano e l’altro pomeridiano. Io e Lentini, ai quali piaceva andare a scuola sia per fare i compiti che per ascoltare il fatterello raccontato alla fine, per gentile concessione frequentavamo in entrambi i tempi. Le letture del maestro Meligrana, un maestro di eccezione! Ci leggeva egli favole, quelle di Capuana, una modernità allora e fuori dal comune, ma anche i libri della scala d’oro dell’UTET, la leggenda di Troia, il viaggio di Ulisse, il capitan Fracassa, Tartarino, Candullino e chi più ne ha più ne metta. La narrazione preferita era però in diretta e quando ci chiedeva quale racconto avremmo desiderato la reazione era immediata e unanime: chiju di’ centu lepri. Con la sua verve il maestro a un bel momento ci faceva rivivere quasi fosse realtà un gruppone di cento lepri in marcia, un’immagine che ci entusiasmava non poco. Nel cortile c’era una fontanina e nell’aula posta all’entrata agiva il maestro fiduciario M., che per tenere a freno la scolaresca al ritorno da ogni sortita si vedeva costretto a esprimersi con voce alta.
 
  Per tale comportamento era stato definito ‘u canazzu ‘i Ripepi. Il macellaio Ripepi teneva fuori la sua bottega un cane orrendo che urlava continuamente spaventando chi si avventurasse da quelle parti. È necessario comunque affermare che la presenza scarseggiava e che di conseguenza le bocciature risultavano di rito. Per cui venivi a stare a fianco di gente che aveva superato i limiti di età da tempo. Immaginarsi i comportamenti dei grandi verso i piccoli! Nei miei ricordi c’è un “nonno Gianni” (Giovanni L.), persona buona che chiamavamo così per una lettura, in cui il protagonista portava tal nome, ma anche perché, avendo frequentato la prima non so quante volte, in quarta si ritrovava a distanza notevole dagli altri in ogni senso. Aveva il compito principale di aprire e chiudere la porta ad ogni necessità. Non sono andato in quinta datosi che ci hanno indotto a fare, come si diceva, il salto alla scuola media. 

   Di estremamente brutto ricordo i siti dei bagni, chiamiamoli bagni, ma erano delle latrine vere e proprie. Ce n’erano due distinti per sesso e collocati alle ali della costruzione. Quello frequentato dai maschi era cosa che non mi azzardo a commentare. Di bidelli se ne vedeva a malapena uno e in età avanzata, mastru Cicciu Carbone, nel contempo ciabattino e suonatore di tamburo con la banda locale, che si faceva aiutare dalla moglie, ‘onna Marantonia, un tipo sempre su di giri, davvero nu focu randi. In appresso i locali si sono deteriorati talmente che la scuola ha dovuto spezzettarsi in fabbricati presi in affitto e distanti l’uno dall’altro. Due classi sono state addirittura ospitate nella sacrestia della cattedrale. Nell’abbandonata struttura si sono allogati nuclei familiari cui la casa in qualche modo difettava, ma negli a. 70 è stato tutto abbattuto e vi si sono elevati immobili consegnati a famiglie di vario ceto, ma idonee a pagare il canone spettante. 

    Le classi quinte, unitamente al corso di “Avviamento agrario” agivano in un grande baraccone legnamato, detto appunto ‘u barraccùni. In principio, subito dopo il sisma del 1908 in altro consimile era stato albergato il Municipio, ma in successione col materiale ricavato si è costruito detto sistemandolo vicino al plesso delle scuole elementari. Negli a. 50 vi ho sostituito più di una volta i maestri D. e F., che, detta alla calabrese, di tanto in tanto foriàvanu. Per l’addietro i bagni nelle case come li conosciamo oggi erano davvero un miraggio e spesso la necessaria mèta per piccoli e grandi era costituita dal terreno accosto alla parte posteriore dello stesso. La parola d’ordine era a ogni piè sospinto: jmu arretu ‘o barraccùni. Poveri i netturbini che vi dovevano passare e ripassare con le loro non proprio adeguate carriole di legno.
 
 Quasi sempre le liti che si accendevano in piazzetta si concludevano in bene o in male dietro il baraccone. Il passo era breve. Ma più giù c’era pure ‘u fossu, una strettoia che correva accanto a una baraccopoli in cui albergavano diverse famiglie. Si dipartiva dalla chiesa del calvario. Questa era ed è così conosciuta per via di un’edicola sita sul lato destro per chi guarda il prospetto dell’edificio. Ai miei tempi ne emergeva appena la parte superiore e ci mettevamo sopra. Verosimilmente era finita in malora dopo l’edificazione della chiesa e si rivelava come altre sulla vecchia strada che da Tresilico menava a Oppido. In definitiva dire “jmu o’ barraccùni o jmu o’ fossu” era la stessa cosa. I due termini sono logicamente scomparsi dal gergo popolare con l’abbattimento delle baracche e l’incendio doloso del baraccone. In un primo tentativo quest’ultimo era stato salvato da mia madre, che, affacciatasi dietro casa, si era accorta del misfatto perpetrato e aveva urlato facendo accorrere gente. Forse lo si voleva eliminare senza sottostare a fastidiosi obblighi di natura burocratica! Mah! 

   Restando sul tema scuole, soccorrono dei particolari circa altre strutture che accoglievano i piccoli Oppidesi onde istruirli o far loro trascorrere delle ore in sana armonia. Nel locale che poi accoglierà la scuola media, due case popolari unite tra loro da una struttura in cemento, oggi occupate da una sede dipendente dell’ASL e dalla famiglia Freno, sulla quale campeggiava il nome di Italo Balbo, in periodo scolastico nel pomeriggio si alternavano i Balilla per effettuare esercizi ginnici. Spesso, scendendo inverso Tresilico, osservavamo il maestro Meligrana in atto di ordinare i classici attenti e riposo, avanti march o dietrofront. 
 
   In estate invece si dava vita alla colonia estiva, ch’era guidata da maestre, come indicate in fotografia. Un accorsato Asilo-Nido per i figli delle raccoglitrici di olive con l’egida dell’Unione di Reggio Cal. Conf. Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura aveva invece modo di essere a Tresilico e veniva guidato dalle suore di carità. Per i campi estivi si era addirittura creata sui prossimi monti in una specie di villaggetto, cui si era dato nome Mamertinia, accosto a quel Sanatorio Antitubercolare, che alla fine si è rivelato un vero e proprio fallimento, una colonia estiva intitolata al sottotenente Rocco Mammone caduto nel 1937 durante la guerra di Spagna. Pur essendomi recato spesso in montagna, non ho mai avuto riscontro diretto di dove si trovasse esattamente  ubicata, anche se si sa che sorgeva, internata di alcune centinaia di metri, a destra della strada che dallo Zillastro  porta a Zervò, più o meno  all'altezza degli attuali ruderi di quella che fu l'Azienda Zootecnica.

Rocco Liberti