sabato 24 dicembre 2022

LA NOVENA DEL NATALE IN OPPIDO MAMERTINA ( di Don Letterio Festa )

      Sulla tradizione forse  più sentita dovunque, ma in particolare nel mondo aspromontano, la novena di Natale, tanto si è scritto rievocandone sensazioni, suggestioni e immagini e sicuramente tanto  rimane da scrivere non solo per riscoprirne lati inediti, origini e folklore, ma soprattutto per studiarne significati vecchi e nuovi in un contesto di fede e di religiosità spesso indissolubilmente intrecciati.
    A questo proposito appare validissimo lo studio meticoloso e  a tutto tondo condotto da Don Letterio Festa sulla tradizione presente in Oppido Mamertina, culla di mille melodie pastorali e, in particolare, di quel prezioso capolavoro di suoni e di versi composto dall'avvocato Filippo Grillo, col titolo "Suonano mille campane" che ancora oggi dà tono, voce e sentimento a questa bella tradizione.
    La  rievocazione dei fasti antichi e moderni  di questa eredità antica sul filo delle (poche) memorie e delle (tante) sovrapposizioni pseudoculturali che nel tempo hanno tentato di sommergere la novena natalizia, con la sua struggente magia di canti e suoni e di pathos sempre fresco  è , a sua volta, un piccolo capolavoro di Don Letterio Festa che  ne fa con grande scrupolo storiografico e pedagogico occasione felice di riflessione sulla nostra identità popolare, ma specialmente sulla nostra identità cristiana, senza la quale ogni tradizione rischia di annacquarsi o di smarrirsi (Bruno Demasi)
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Introduzione


    Il“Direttorio su Pietà popolare e Liturgia”, preparato dalla Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti, afferma che: «la Novena del Natale ha svolto una funzione salutare e può continuare ancora a svolgerla»[1]. Essa riguarda il periodo che va dal 16 al 24 dicembre, sentito e vissuto del Popolo cristiano come un tempo di grazia, nel tempo di grazia dell’Avvento, per la preparazione spirituale dei fedeli alla Solennità del Natale del Signore.
    Già nella struttura della Liturgia “ufficiale” della Chiesa, esiste una particolare attenzione ai giorni dal 17 al 23 dicembre, caratterizzati dalla introduzione, nella Liturgia dei Vespri, delle così dette Antifone «O», così chiamate perché iniziano sempre con la particella «O»: «O Sapienza…, O Signore…, O Germoglio…, O Chiave di Davide…». Esse si fanno risalire, tradizionalmente, al Papa Gregorio Magno ma già nel IV secolo, in Gallia ed in Spagna, si celebrava un primitivo Avvento che cominciava proprio il 17 dicembre per culminare nella più antica festa natalizia dell’Epifania, a sua volta di origine orientale, il 6 gennaio.
     Le Antifone «O» esprimono, più che un’invocazione, l’ammirazione dei credenti davanti alla Grotta di Betlemme - «Admirantis est potius, quam vocantis» (Amalario di Metz) – e il loro testo è ispirato ai “sospiri” dei Profeti dell’Antico Testamento che desideravano ardentemente la venuta del Redentore. Tale ispirazione biblica si trasmetterà, poi, anche ai testi di origine popolare usati in ogni dove durante la Novena del Natale. Tra i diversi formulari prodotti per solennizzare questi giorni santi, ebbe particolare fortuna quello nato in ambito benedettino, redatto sui testi latini e cantato con melodia gregoriana, successivamente tradotto in italiano dai Benedettini di Subiaco negli anni Sessanta dello scorso secolo. 


Il Natale in Oppido Mamertina

   Come in tutti le Città ed i Paesi di Calabria, il Natale è da sempre, ad Oppido Mamertina, una delle festività dell’anno tra le più amate e attese. Un proverbio, diffuso in tutta la Piana, esprime la forza dell’attesa vissuta in preparazione alla festa e ricorda le tappe salienti che la precedono:

«Sant’Andria porta la nova
ca lu 6 è di Nicola,
a l’8 è di Maria,
a lu 13 è di Lucia,
a lu 25 di lu veru Missia!». 


   Il tempo festivo si apre, infatti, con la Novena dell’Immacolata di cui si venera, nella Cattedrale, un prezioso simulacro ligneo, custodito nell’omonima cappella posta alla sinistra dell’Altare maggiore. Quindi il 6 dicembre, nella popolare e vetusta chiesa dell’Abbazia, si celebra San Nicola, antico Patrono della Città, a cui erano dedicate, già nella vecchia Oppido, le due Parrocchie cittadine, per poi passare nella chiesa di San Giuseppe dove si conserva una bella immagine di Santa Lucia, la Vergine e Martire siracusana la cui memoria liturgica ricorre il 13 dicembre. 
 
   Il culmine delle festività natalizie si ha nella sera della Vigilia, vissuta come una festa di famiglia e conclusa con il solenne pontificale del Vescovo in Cattedrale. «Come nei tempi andati ancor oggi ad Oppido il Natale è la festa della famiglia: e dai paesi più lontani e perfino dalle Americhe, molti si recano in seno alla propria famiglia per la fausta ricorrenza. E spesso non v’è altro scopo del lungo viaggio, che quello di rivedere i congiunti e di sedere insieme a tavola la sera della Vigilia, fra la dolce commozione degli affetti famigliari. Nella Vigilia si mangia di magro ed il Cenone o il pranzo succulento di diciotto pietanze, in tutte le famiglie, viene imbandito di sera: zeppole e frittelle di ogni specie, pesce fritto e quanto di meglio offre la stagione e la borsa. Invece del tradizionale capitone, qui si fa molto uso del baccalà che si prepara in diverse maniere. In tutte le famiglie agiate si prepara il tradizionale cappone e si fa grande uso di torrone, di dolci, di vini e di liquori. Si gioca alle carte il “sette e mezzo” o alla tombola o alle nocciuole. E quando nella mezzanotte squilla la campana per la Messa, il popolo, conforme alle vecchie consuetudini, accorre numeroso in chiesa»[2]. Qui, ancora oggi come un tempo, il Vescovo «porta in processione il Santo Bambino fra canti, suoni, luci, spari, fiori e squilli di campane e di campanelli, per deporlo poi nella grotta del presepio»[3]. L’immagine del Bambinello, venerata nella Cattedrale oppidese, fu un dono di Mons. Giovanbattista Peruzzo, che resse la nostra Diocesi dal 1928 al 1932, e che lo fece giungere, «in fasce e in soffici trine»[4], da Castiglione dello Stiviere, il paese d’origine di San Luigi Gonzaga, nel Natale del 1929. La Messa di Natale era, inoltre, caratterizzata in Oppido, fino agli anni Trenta dello scorso secolo, da un altro caratteristico particolare: «Finito il Vangelo un piccolo alunno del nostro Venerabile Seminario ascendeva il pergamo, e con gli accesi ardori d’un vergine cuore, inneggiava all’infinito amore ed all’umiltà di un Dio che nasce Bambino»[5].

Il Natale in Oppido e la Musica

   La particolarità più originale del Natale oppidese è comunque il ruolo di primissimo piano che in esso ha da sempre avuto la Musica. Nell’Ottocento, i Canonici del Capitolo intonavano il «Dormi, dormi benigne Iesu»[6], accompagnati dalle voci argentine dei giovani Seminaristi. Altri canti avevano le parole del celebre Abate Giovanni Conia e la musica del Canonico Giuseppe Annunziato Muratore, compagno di studi di Bellini e Mercadante. 

   Ispirato dal dolce suono delle nenie natalizie del suo Paese, scriveva l’Abate Bruno Palaia, «vanto e decoro del Clero oppidese»[7], contemplando la mistica scena della Natività: «la Vergine fu rapita e volò incontro all’oggetto dei propri amori che avea vagheggiato da tutta l’eternità e l’abbracciò nell’estasi. “Madre”: “Figlio”. Due poemi; due amori; due dolcezze; due gaudii indicibili; due sinfonie; due gorgheggi. E il Padre guardava estasiato e lo Spirito agitava l’ali distese come colomba che volteggi e tubi sul nido e gli angeli suonarono e cantarono l’Alleluia del loro cuore vibrante»[8].
  Le stesse espressioni musicali risuonavano per bocca dell’allora giovane Canonico Giuseppe Pignataro: 

«La melodia vagò lenta ne l’aria
quale nube d’incenso:
splendeva la capanna solitaria
sotto l’azzurro immenso»[9]

   Mentre nella Cattedrale, per le solenni celebrazioni delle festività natalizie, la Schola cantorum e l’Orchestra eseguivano la «Pontificalis secunda» del Perosi e la «Pastorale» del Bost[10].
   Ma la più popolare ed amata espressione della festa è offerta, ieri come oggi, dalle chitarre, gli strumenti a fiato e le fisarmoniche del gruppo di Musicisti che anima il Natale in Oppido Mamertina e che ha la sua più caratteristica e bella manifestazione nei giorni della Novena.

Il testo della Novena 


   Questa pia pratica si svolge, da tempo immemorabile, nella chiesa Abbazia. La chiesa di San Nicola superiore o di San Nicola “extra moenia”, popolarmente detta “dell’Abbazia”, ha le sue origini nella vecchia Città di Oppido. Di questa chiesa e della Parrocchia annessa, abbiamo notizie documentate a partire dal tardo XVI secolo[11].
   Già il Vescovo Giuseppe Maria Perrimezzi aveva pubblicato, nel 1728, un imponente testo di preghiere e meditazioni di oltre 250 pagine, dal titolo «Sentimenti di divozione al Bambino Giesù»[12] ma per diversi decenni si seguì come testo di riferimento per la Novena di Natale quello edito da Mons. Antonio Maria Curcio nel 1893. Questa Novena, secondo il gusto del tempo, era costituita da cinque «affetti», alternati da cinque strofe in canto, e conclusa con un «santo proponimento»[13]. Negli anni Cinquanta dello scorso secolo, la Novena aveva inizio con la messa alle ore 5 del mattino. Dopo la Messa «celebrata in canto» con l’accompagnamento dell’Orchestrina, si esponeva il Santissimo Sacramento, si recitava la Preghiera a Gesù Bambino, si cantavano le Antifone maggiori e il “Magnificat” e si concludeva con la Benedizione eucaristica[14].
   Dopo il Concilio Vaticano II, l’Abate, Mons. Francesco Zappia, Parroco della Parrocchia di San Nicola, diede alla Novena l’impostazione attuale. A lui si deve, oltre che il riordino delle preghiere e dei canti, anche la rinascita della caratteristica ensmble di strumenti che, pur richiamandosi alla tradizione precedente, ha però aggiunto un tocco di novità negli arrangiamenti musicali e nell’atteggiamento dei musicisti, rinnovando positivamente il volto della caratteristica orchestrina. Ad essa, per questo motivo, è stato dato il simpatico nome di «The Bati’s Band».
   Ai nostri giorni, la Novena del Natale ha inizio, in Oppido, alle prime luci del mattino. Un grande fuoco viene acceso accanto ad un altrettanto grande ed artistico presepio, costruito lungo la facciata laterale esterna della chiesa, mentre il suono festoso delle campane accoglie i fedeli che numerosi si avviano per la celebrazione. Nel frattempo, già da un’ora prima, l’Orchestrina che animerà la messa ha percorso le vie del centro abitato, suonando le nenie e i canti tradizionali natalizi per invitare alla preghiera. Questa si apre con una monizione del Celebrante che introduce i fedeli nel tempo festivo e li esorta alla preghiera fervente. Seguono le strofe del canto «Vieni, o Signor, la terra in pianto geme» - di autore anonimo - diffuso in diverse Parrocchie d’Italia, al quale succedono tre strofe, tratte dagli «affetti» della Novena di Mons. Curcio, alternate dal canto «Abbiate pietà, Signore», anch’esso di autore ignoto allo stato attuale delle ricerche.

Le pastorali ed i canti del Natale oppidese 



   Per il resto, la celebrazione è allietata dall’alternarsi delle pastorali e dei canti tradizionali del Natale oppidese.
   In antico, le pastorali erano proprie del luogo e del tutto originali, spesso composte da anonimi autori locali. Alcuni canti furono composti dal Canonico Giuseppe Annunziato Muratore per quanto riguarda l’arrangiamento musicale, mentre le parole erano dell’Abate Giovanni Conia[15]. Successivamente, celebri furono le pastorali del Maestro Achille Longo (1832-1919)[16].
   Tra i tanti canti e le pastorali del Natale oppidese, sono presenti in questa nostra raccolta musicale, quelli più popolari ed ancora in uso. La pastorale «Piva all’antica» è del Maestro milanese Paolo Mauri (1885-1963), autore di numerosi brani di ispirazione sacra, mentre «Cornamusa popolare» è stata composta dal lodigiano Leandro Passagni, pseudonimo del Maestro Alessandro Pigna (1857-1928). Tra le composizioni più recenti, troviamo il canto «Suonano mille campane-Ninna nanna» dell’Avvocato oppidese Filippo Grillo (1911-1996). A Mons. Gaetano Cosentino (1924-2008), Rettore per diversi lustri del Seminario vescovile della nostra Città, si deve la pastorale «Campane di Natale» mentre il popolarissimo canto «Campane a festa» è stato composto da un varapodiese che a Oppido è stato per parecchi anni Maestro della banda locale, il Prof. Raffaele Monteleone (1911-1980). Le parole della nenia di Natale «Ceramejaru» sono di Don Silvio Albanese (1929-1976), parroco della Parrocchia oppidese del Calvario, mentre a Giacomo Tedeschi, nonno del più famoso Poeta tresilicese Geppo, si deve il canto «Dormi Bambino»[17] ed al seminarese Vincenzo Nostro, Maestro, nel 1907, di una delle tante Bande oppidesi, è dovuta un’armoniosa «Pastorale». Infine, è stata composta dal Maestro Stefano Scicchitano, pure lui oppidese e per diversi decenni direttore della Banda cittadina, la pastorale «Momento lieto».
   Allo stato attuale delle ricerche, non è stato possibile dare una paternità sicura ai brani «Motivo tradizionale» e «Notte di Natale». 
 

     I testi di questi brani musicali, redatti alcuni nel dialetto oppidese ed altri in lingua italiana, riprendono e sviluppano i temi cari alla devozione popolare del periodo natalizio, armonizzati e arrangiati con alcune caratteristiche del tutto originali e di grande impatto.
   Le così dette “pastorali” sono dei canti realizzati appositamente da autori con una certa esperienza musicale e che intendono trasmettere dei messaggi e dei contenuti teologici ben precisi e seguono lo schema musicale del 6/8 mentre il canto popolare fa uso di strumenti e ritmi tipici della cultura musicale calabrese, ottenuti con l’uso di organetto, zampogna, pipita e triangolo.
   La particolarità più evidente nella Novena oppidese è proprio quella degli strumenti musicali utilizzati per l’esecuzione dei brani al fine di armonizzare e arrangiare nel migliore dei modi questi brani. La caratteristica vera e propria è, infatti, data dal largo uso di strumenti a fiato quali i clarinetti; il sax tenore e contralto; il corno e la tromba, accompagnati dalle chitarre e dalle fisarmoniche.
  
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[1] Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, Direttorio su Pietà Popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 103.
[2] V. Frascà, Oppido Mamertina. Riassunto cronistorico, Tipografia “Dopolavoro”, Cittanova 1930, 205-206.
[3] Ivi.
[4] «Cronaca diocesana», in Bollettino ecclesiastico. Ufficiale per gli Atti vescovili della Diocesi di Oppido Mamertina, II (1930) 1, 15.
[5] «Oppido Mamertina. Le funzioni del natale», in La Calabria Cattolica, I (1883) 4, 11.
[6] Cfr. ivi.
[7] G. Marzano, Scrittori calabresi, Edizioni MIT, Corigliano Calabro 1960, 119.
[8] «Il Natale», in Albori. Rassegna quindicinale di vita e cultura calabrese, III (1927) 22-23, 1.
[9] Ivi, 2.
[10] Cfr. «Cronaca diocesana», in Bollettino ecclesiastico, 15.
[11] Cfr. R. Liberti, «L’Abbazia, seconda chiesa parrocchiale di Oppido», in Calabria sconosciuta, VIII (1985) 3, 91-94.
[12] Cfr. G. M. Perrimezzi, Sentimenti di devozione al Bambino Giesù, Regia Stamperia Fernandez-Maffei, Messina 1728.
[13] Cfr. A. M. Curcio, Preghiere ed atti di religione proposti alle chiese della sua Diocesi dal Vescovo di Oppido Monsignor Antonio Maria Curcio l’anno del Giubileo episcopale di S. S. Leone XIII, Stabilimento tipografico del Cav. A. Morano dell’Istituto Casanova, Napoli 1893.
[14] Archivio della Parrocchia di San Nicola Superiore in Oppido Mamertina, «Liber cronicon parrocchiale 1956-1959», 36.
[15] G. Pignataro, «Il Musicista Giuseppe Nunziato Muratori e i suoi parolieri e Giovanni Conia. Nova et vetera», in Historica, VI (1979) 3.
[16] Frascà, Oppido Mamertina, 206.
[17] Una canzone natalizia con lo stesso titolo si può trovare su Internet cantata dal tenore oppidese Pasquale Feis insieme ad una versione di “Tu scendi dalle stelle”, registrate per la Columbia a New York nel 1917 (Cfr. http://www.dailymotion.com/video/x3j7tjf “Dormi Bambino” e su https://www.youtube.com/watch?v=TKPckU3qGPs “Tu scendi dalle stelle”; ulteriori notizie in R. Liberti, «La musica a Oppido Mamertina vecchia e nuova», in Calabria sconosciuta, XXXIV (1011) 132.

domenica 18 dicembre 2022

LA FESTA EBRAICA DI HANNUKAH OGGI E NELL’ANTICA OPPIDO ( di Bruno Demasi)

   Inizia al tramonto di oggi , 18 dicembre, per il mondo ebraico, la festa irrinunciabile di Hannukah, detta anche Festa delle Luci, dell’anno 5783 ( 2022/2023 per il mondo e per la datazione cristiani). Una festa antichissima di sicuro celebrata anche nell’antica Oppidum o, per meglio dire nel suo mellah, dove, tra l’altro, viene documentata con ragionevole sicurezza la presenza di una giudecca ( plausibilmente con la propria sinagoga) (Cfr. : Rocco Liberti “Gli Ebrei nella piana di Terranova” in “L’alba della Piana”, settembre 2017, pp.24-26). 


   Hanukkah è una festività della durata di otto giorni che commemora la consacrazione di un altare nel Tempio di Gerusalemme dopo la ricostruzione  avvenuta in seguito alla vittoria del popolo ebraico, sui Seleucidi guidati dal re Antioco III , che aveva costretto gi Ebrei ad abiurare alla loro fede ed aveva profanato il sacro edificio destinandone una parte  ai riti di nuovi culti pagani. Dopo la riconquista, per purificare il luogo sacro, fu comandato di ripristinare l’Arca dell’Alleanza e di accendere per otto giorni di fila le luci della Menorah ( il candelabro a 7 bracci, simbolo di Israele) e per alimentarlo si cercò olio d’oliva puro. Secondo la tradizione però, la quantità di olio reperita non sarebbe bastata neanche per un giorno, ma, come per miracolo essa durò per tutti gli otto giorni previsti per i festeggiamenti, per i quali dunque si inaugurò un apposito nuovo candelabro ( La Channukiah) a 9 bracci (uno per ognuno degli otto giorni di festa, più uno centrale di servizio per l’accensione di tutti gli altri) . 
 
    La festività di Hanukkah, dopo quella che commemora il dono della Torah, è ritenuta unanimemente la più importante per la religione ebraica. Essa inizia il 25 del mese di Kislev e prosegue per 8 giorni concludendosi nel mese di Tevet (il 2 o 3 a seconda che Kislev duri 29 o 30 giorni). E’ dunque una festa mobile come per la Pasqua cristiana, cioè non ricorre ogni anno nei medesimi giorni, ma ricade, secondo il calendario ebraico luni-solare, in un giorno da calcolare tra la fine del nostro mese di novembre e quella di dicembre (coincidenti infatti grosso modo con i mesi di Kislev e Tevet).

   Una festa che anche nell’antico mellah -  il nome di derivazione araba dato alle giudecche poste rigorosamente al di fuori dei centri abitati più importanti -  di Oppidum e del circondario cui detta città faceva capo a partire dall’epoca tardo bizantina ( all’incirca la cosiddetta “Tourma” delle Saline) veniva celebrata dal mondo ebraico in maniera riservata, quasi familiare, con la puntualità e la precisione nell’osservanza dei precetti tipica da sempre del mondo ebraico, mentre nelle stesse settimane e a poche centinaia di metri più a monte, a S-E dallo stesso mellah, si celebravano gli splendori del Santo Natale nella cattedrale cattolica di Oppidum. 

   Ci si chiede come mai , al di là delle residue testimonioanze epigrafiche e onomastiche di cui parla il Liberti (Art. cit.) e di poche altre, non esistano  fonti documentarie più precise che ci riportino a un passato decisamente importante per queste balze aspromontane sulle quali il mondo ebraico ha intessuto con intelligenza le proprie attività innovative a livello artigianale, economico, medico e scientifico. Una domanda  quasi angosciosa alla quale potrebbe dare risposta in parte il decreto del luglio 1510  di Ferdinando II d’Aragona che, come aveva già fatto per la Sicilia 18 anni prima, espelleva brutalmente dalle Calabrie e da tutto il Regno gli Ebrei, molti dei quali, per sfuggire alle poersecuzioni, anche a Oppidum furono costretti ad abiurare alla loro fede e a convertirsi in modo coatto al Cattolicesimo, assumendo la denominazione più o meno spregiativa di “Marrani”. Tuttavia tale espulsione, sia pure violenta e burrascosa, non avrebbe cancellato completamente le tracce lasciate sicuramente dagli Ebrei nel loro fiorente mellah se non fossero intervenuti nei secoli successivi, e a più riprese, terremoti di consistente potenza che hanno via via squassato il territorio oscurando le vestigia non soltanto dei culti e delle attività ebraiche, ma anche delle precedenti civiltà che avevano lasciato sicure tracce in quello stesso luogo.

   Sic transit gloria mundi! Ma anche la memoria più povera e scarna può restituirci  rinnovati motivi di orgoglio  e di commozione.

domenica 11 dicembre 2022

DBE: UNA CASA EDITRICE ANTICA E NUOVA PER L’ASPROMONTE E IL MEDITERRANEO (di Bruno Demasi)


   Risale al 1977 la fondazione della Casa Editrice Barbaro a Oppido Mamertina, nel cuore di un Aspromonte molto misero ed esposto più che mai alle cronache nazionali e anche internazionali quale presunto  ricettacolo di estorsori e di sequestratori di persone. Un marchio doloroso, forse indelebile, sicuramente ingiusto, come ingiusta è ogni generalizzazione , nel Bene e ne Male. 

   Che tale etichetta negativa, più che prendere atto di una situazione complessa di assenza (spesso voluta) dello Stato, servisse soltanto a tenere il calcagno della Penisola sulla testa (comunque durissima) degli abitanti dell’Aspromonte riuscirono a dimostrarlo indirettamente una manciata di piccoli o piccolissimi imprenditori che, malgrado tutto, malgrado le ristrettezze dei tempi (specialmernte a livello economico, morale e di legalità) si lanciarono con coraggio in avventure aziendali che con alterne fortune diedero, per la loro parte, lustro a questo territorio.

    Tra tutti mi piace ricordare Domenico Barbaro, Gioiese di nascita, Oppidese di adozione che covava dentro di sé il sogno dell’emancipazione di questa terra - dipendente, allora come oggi, in tutto e per tutto dai beni e dai servizi forniti dal Nord - attraverso un nuovo ed inedito slancio produttivo che non solo avrebbe potuto affrancarci dal giogo economico imposto dalle aziende settentrionali, ma anche dalla lievitazione quotidiana dei prezzi che a quell’epoca – imperante una lira debolissima e stracciata – continuava a creare solo povertà dopo un fantomatico boom economico registrato ad arte dalle cronache del ventennio precedente  e che  non si era sognato neanche di sfiorare queste contrade abbandonate a sé stesse.

   Domenico Barbaro aveva creato proprio in quegli anni in quel di Gioia Tauro, ancora emporio ed epicentro commerciale di tutta la Piana omonima, un’azienda tipografica modernamente concepita non solo per l’uso di tecnologie di avanguardia che consentivano un abbattimento dei prezzi di produzione, ma anche la creazione di un ricco catalogo di stampati ad uso della pubblica amministrazione da sempre dipendente, per questa come per altre materie, da alcune grosse e rinomate società tipografiche del Nord che fagocitavano ingenti risorse del nostro territorio. L’impresa funzionava bene, ma non soddisfaceva in pieno le mire più lungimiranti di Domernico Barbaro che, dopo una serie di discussioni e valutazioni con alcuni amici di cui si fidava, si buttò anima e corpo, in concomitanza con la conclusione di un preesistente suo rapporto di lavoro dipendente, con quella che divenne subito la sua nuova ragione di vita: un’impresa nell’impresa: una casa editrice mamertina, tutta aspromontana, tutta calabrese. 
 

   Nacquero così le Edizioni Barbaro e con esse rividero la luce molte opere di autori calabrersi ormai gravemente dimenticate che, insieme ad alcuni studi storici inediti sul Mezzogiorno e sulla “Questione Meridionale”, iniziarono una rapida opera di divulgaziione di cui – credo – possano ancora oggi essere tesimoni decine e decine di biblioteche scolastiche, e non solo della Piana di Gioia Tauro, che facevano a gara per dotarsi di un materale editoriale divenuto presto prezioso e introvabile anche per le tirature forzatamente limitate. Il catalogo editoriale divenne presto ricercato e selettivo e vari scrittori e studiosi di sicuro spessore cominciarono a collaborare e aa garantirne la qualità , la versatilità, il taglio meridionalistico.

  Piace ricordare a questo proposito (cito quasi a memoria) Pasquino Crupi, autore di una pietra miliare nello studio dell’emigrazione calabrese (“La Tonnellata umana”); Rocco Liberti, autore di “Cina chiama Calabria” ( uno studio che fece conoscere molto da vicino la figura egregia del missionario oppidese Filippo Antonio Grillo, esempio insuperato di abnegazione nella Cina del XIX secolo);  Ettore Capialbi e Francesco Pititto, curatori dell’ancora oggi fondamentale collana bimestrale dell’ “Archivio storico per la Calabria”; Carlo Carlino, curatore della fortunatissima piccola antologia di cose di Calabria dal titolo “Re, poeti e contadini”; Beniamino Giovanni Mustica che diede alle stampe un’intrigante e inedita ricerca dal taglio ironicamente antiunitario “Chi fermò il treno di Ferdinando?”; Carlo Guarna Logoteta, autore di una poderosa Storia di Reggio Calabria; Nicola De Meo; Attilio Piccolo, Isabella Lo Schiavo e tantissimi altri che illustrarono con sincera passione storica lo stato degli studi calabresi in quello scorcio problematico eppure vivissimo che era l’ultimo quarto del secolo scorso.

   Domenico Barbaro non riuscì a cogliere i frutti di una semina così abbondante e intelligente a causa di un’incipiente malattia che lo avrebbbe portato prematuramente alla fine e che lo costrinse presto a cedere, suo malgrado, la sua avviatissima attività editoriale alla deliese Caterina Di Pietro, la quale, coadiuvata dal marito Raffaele Leuzzi, appassionato di storia e storie locali, continuò l’attività editoriale di Domenico Barbaro per oltre due decenni con merito e sacrificio.

   E’ tuttavia di oggi la commovente novità che vede ritornare alla famiglia Barbaro, sotto i migliori auspici possibili, l’attività editoriale, ripresa con rinnovata passione dal figlio Remo, sapiente estimatore dell’arte editoriale e continuatore per vocazione dell’ambiziosa missione paterna. Con il nuovo marchio “DBE”( Domenico Barbaro Editore) egli infatti non solo esprime un atto di omaggio alla figura del fondatore, ma vuole anche fare riferimento a un serio e moderno progetto di rivisitazione e di rilancio non solo della cultura aspromontana , ma di quella calabrese nel suo insieme, proiettata verso un orizzonte decisamente mediterraneo


   I primi titoli che nella nuova gestione la casa editrice ha messo in catalogo sono infatti molto eloquenti: si va dalla ristampa anastatica di “Antonello capobrigante calabrese”, il dramma con cui Vincenzo Padula , sullo sfondo della spedizione garibaldina, tratteggia in modo monumentale i caratteri storici e culturali di una Calabria già irta di contraddizioni, per arrivare all’”Abbate Gioacchino” di Felice Tocco, una pietra miliare poco conosciuta negli studi su Gioacchino da Fiore nonchè sulle idee e i movimenti ereticali nella cui impietosa e profonda vivisezione l’autore è un’indiscussa autorità. Ad essi si affianca la struggente raccolta delle "Leggende del mare" di Maria Savi Lopez e il non meno raro "Del furore d'aver libri" di Gaetano Volpi.
 
 
   Scelte editoriali emblematiche, non facili, ma proprio per questo eloquenti, pagine irrinunciabili che mancano sicuramente in tantissime biblioteche e che coniugano in modo chiaro l’antico e rinascente amore per la terra di Calabria con lo sguardo proiettato verso un contesto meridionalistico più ampio attraverso due studi riproposti quasi subito, e non a caso, dalla rinnovata casa editrice: uno sulle tradizioni sarde (Stanis Manca: “Sardegna leggendaria”- 1910) e un Dizionario Sintetico aggiornato sulla “Simbologia medioevale”, curato meticolosamente da Gonario Rauc. Ad essi si affianca imperiosamente la pubblicazione di un intrigante quanto inedito ritratto della complessa figura di “Eleonora d’Arborea – Regina guerriera, giurista illuminata e donna…” tracciato sapientemente da Donatella Pau Lewis su binari di analisi poco conformistici che ne rendono le pagine avvincenti e dense di sorprese: ne scaturisce la figura di una donna del passato antesignana di mille battaglie politiche che hanno come teatro proprio il mondo mediterraneo con tutte le sue aspre contraddizioni.

    La storia delle Edizioni Barbaro, oggi DBE, che inorgoglisce l’originario contesto aspromontano in cui ha visto la luce ormai quasi mezzo secolo fa, è dunque ripartita come meglio non avrebbe potuto e, se queste sono le premesse, sicuramente farà ancora parlare molto e per molto tempo di sé. 

giovedì 10 novembre 2022

FRANCESCO EPIFANIO CANTORE E CULTORE DELLA LINGUA CALABRESE (di Bruno Demasi)


     In un tempo in cui le parole vengono usate sempre più in modo approssimativo, parlare della poesia e dell’impegno artistico di Francesco Epifanio ci fa tornare all’antica diatriba tra lingua popolare e lingua colta, già cantata ironicamente dall’Abate Conìa ,in occasione della pubblicazione della prima silloge poetica di questo versatile autore e cantore, che esce nelle librerie in questi giorni:

Francesco Epifanio: 

“PAROLI CALABRISI”
Poetica edizioni, Rende, 

novembre 2022

   E’ una raccolta di sessantatre composizioni , tutte imprevedibili e godibilissime, che confermano ancora una volta che Francesco Epifanio è un o dei pochi esempi di chi non si accontenta di considerare la lingua calabrese soltanto dialetto nell’accezione comune del termine, ma padroneggia l’idioma dei padri senza tentennamenti proprio secondo il valore che Benedetto Croce attribuiva al dialetto stesso e sul quale ha lasciato parole da scolpire.

“Che cosa significa contestare i diritti della poesia dialettale? Come si può impedire di comporre e poetare in dialetto? Molta parte dell’anima nostra è d i a l e t t o come un’altra è fatta di greco, latino, tedesco, francese, o di antico linguaggio italiano. Il dialetto non è una veste, perché la lingua non è veste: suono e immagine si compenetrano continuamente. Sopravviene il grammatico, e pei suoi fini, e in modo del tutto arbitrario e convenzionale, stacca le categorie di queste e quelle lingue e di lingue e dialetti. Ma siffatte teorie grammaticali non sono giudizi d’arte, e non possono servire di fondamento a esclusioni o a delimitazioni estetiche. Quando un artista sente in dialetto (ossia concepisce quelle immagini foniche che i grammatici poi classificano con tal nome), egli deve esprimersi con quei suoni. E, secondo la necessità della sua visione, si esprimerà in dialetto, in dialetto misto di lingua, in una lingua di sua particolare formazione” (B.Croce, “La letteratura della Nuova Italia”)

     Da un’altra angolazione culturale e politica , in tempi più recenti, Don Lorenzo Milani affermava: “… . le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all'infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo a scuola”.

    Il dialetto dunque è lo “ statu nascenti” della lingua creata dai poveri e chi , come l’Autore, all’amore per la cultura popolare associa da sempre il credo socialista (quello vero), ne diventa spontaneamente il cantore, l’inventore fertilissimo, il cultore appassionato.

    Direi allora , senza amor di polemica, che la poesia in lingua calabra non ha nulla da spartire con la colsiddetta poesia dialettale, quella improvvisata da moltissimi, per intenderci, il più delle volte composta sulle regole dell’Italiano di maniera usato malamente da coloro i quali continuano ad arricciare il naso davanti all’idioma aspromontano.

   Sgombrato dunque il campo dall’errora di considerare poesia “ vernacola” quella miriade di composizioni dialettali di cui sovrabbondano oggi i social, possiamo accostarci con deferenza a a un esempio di vera poesia calabra. Si tratta dell’arte di Francesco Epifanio, uno dei pochissimi che abbia saputo e sappia ancora coniugare i ritmi e le melodie della musica popolare con il verso. Poesia nata dal canto con cui quasi vive in simbiosi riproponendo in modo stupefacente il pathos, ma anche gli scherzi e i ritmi della Magna Grecia.

    Le poesie che animano in modo scoppiettante, nostalgico e commosso questo libro sono raccolte semplicemente in ordine alfabetico per l’impossibilità di classificarle in categorie che soffocherebbero la grande spontaneità dell’Autore, che spazia in maniera incredibile da un tema all’altro salvaguardando sempre il comune denominatore della fluidità del verso che non ha nulla di artefatto, ma esprime sempre l’animo popolare senza forzature. C’è però anche la maestria di chi è consapevole della grandezza della nostra lingua calabra, capace persino di rimodulare in maniera impressionante un capolavoro come " L’Infinito" di Leopardi:


Sempri ricriju st’errimu puntuni
mi dezzi comu puru ‘sta sipala,
chi pe’ bonu pezzu ‘i javìa la vista cela.
Ma jà ssettatu e jendu ngrijandu,
nu celu randi chi no’ spiccia mai
e suprani silenziji e quetelata paci;
jeu cu penzeru volu e mi fingiu
aundi pe’ pocu u cori non si scafuna...


    Riproporre questa lirica in linguia calabra è un’impresa audace e l’Autore ci riesce con spontaneità ed umiltà dimostrando ancora una volta quanto sia versatile e ricco l’idioma delle nostre contrade. Quella stessa umiltà con cui riesce senza fatica a riprendere e riprodurre metri e suggestioni della grande poesia popolare di Giovanni Conìa in una delle sue composizioni più grandi: “E’ cchiù facili mu diventu papa ca abati(Conìa)":

Cantandu cu lu verzu
Dill’abati Conìa
Mi vinni ‘a fantasia
Mu pojetiju.

Ca chiju poetuni
Scrivia cu lu pinneju
E nno cu marrabejiu
Comu a mia.

Dill’arti soi divina
Mi bastava ‘na nticchia
Ma mancu ‘i na ppenicchja
Su patruni,

E ddunca mi ritiru
Ca cuda ammenz’e cosci
Ca li verzi mei su flosci
E dissapiti.

Mi cogghju i carti o’ pettu
E minu a rigettari
Ca non si po’ pattari
Cu Conia.

E mò ntornu ‘na vuci
Jeu sentu chi mi nqueta:
pe’ essiri poeta
no’ bbasta ncunu versu.


   Per essere poeti – è vero - non basta qualche verso : la poesia non si improvvisa e non vive solo di artifici verbali improbabili. La poesia è mestiere difficile sembra dirci l’Autore, e non sopravvive al tempo se non è vissuta e partorita con fatica ed amore per la lingua avìta che si reinventa giorno per giorno senza trascurare mai di cantare i sacrifici e i problemi antichi e nuovi della propria gente:

E mmentri iju zzappava
A pani cu sputazza
Lu baruni gruttiava
Jinchendu la panzazza

Lu povuru Micuzzu
Scazuni e sdijunutu
Guardava a coju muzzu
Lu nobili futtutu… (Micuzzu e 'u Baruni)


    E’ un’arte composita, ma lineare come poche, quella che riscopriamo in queste composizioni, che sa coniugare musica, ritmo, ironia con i valori e i sentimenti più puri della tradizione e dell’humanitas vera vissuta sulle balze di un Aspromonte tanto più umiliato dalla storia quanto più emblema di un universo sociale e culturale che pochi possono vantare.

     Mi auguro che questa raccolta di Francesco Epifanio entri prestissimo  in tutte le case e vi rimanga come emblema di un passato da non dimenticare, ma anche di un presente tortuoso da illuminare con l’ironia e la suggesatione di versi ricchissimi nella loro rara perfezione formale e nel loro spirito più genuino, di cui è esempio molto eloquente questo piccolo capolavoro nel capolavoro  che qui voglio riportare integralmente.

 In esso  l'abilità consumata dell'Autore, che  padroneggia e piega i versi in Italiano e in Calabrese di queste scoppiettanti sestine  in un duetto imprevedibile e  di rara maestria poetica,  è visibile nella sua interezza :

 

‘A DIAGNUSI
(Errare humanum est)

Ddu’ grandi professuri ‘i medicina,
nda pausa di ‘nu medicu congressu,
o’ ritrovu d’Irrera nda Merssina,
seduti si gustavunu n’espressu.
E già cu lòa sorlazza mpiccicata
si tiravunu di fumu ‘na uccata.

Lu suli chi sprendiva marzulinu
facia la matinata assai gradita
e appressu du cafè, a lu tavulinu,
misuru manu puru a ‘na granita.
La brizza chi hjuhjjava di lu Strittu
bomprudu nci faciva mprim’acchittu.

Si stavanu jizandu a malavogghia
di lu ricriamentu cunchiudutu,
quandu,comu pigghiatu di ‘na dogghia,
passava n’omu chi parìa storciutu.
Cu culu vasciu e li gambi a nnocca
Brambitijava chi paria ‘na hjocca.

“Caro collega di si invalidante
morbo si disquisiva stamattina
e il qui presente prova è lampante
di paralisi dovuta a scarlattina”.
Cusì dicia lu primu scenziatu
All’amicu luminari misu a latu.

“Anche se la tua tesi è interessante,
trovo le deduzioni alquanto ardite
le cause di si fatto deformante
vanno imputate alla poliomelite”.
Così l’atru dutturi rispundìa
e ognunu ‘a so’ ragiuni si facìa.

Videndu ca non si veniva o’ quagghiu
e la dispida jia votandu a rissa
si decidiru, pe’ no’ fari sbagghiu,
mu fannu pa’ diagnusi scummissa.
Cus’ jiru e ‘rrivaru a chij’amaru
e a causa di lu morbu nci spiaru:

“Scusateci buon uomo l’invadenza
Che spinge noi a fare si indefessa
domanda ma, essendo noi di scienza
dottori, abbiamo fatto una scommessa.
Il mio collega ed io non siam d’accordo
Sulle cause scatenanti il vostro morbo.

L’illustre dotto amico dice polio,
io invece sono certo scarlattina.
Vorremmo indi per placar l’orgoglio
che voi ci illuminaste stamattina.
Ci dite dunque voi per cortesia
chi di noi due è sulla giusta via?”

L’omu guardau di sghinciu li scienziati
poi si votau e rispundiu accussì:
“Se nd’aju a ddiri ‘a santa veritati
stavota ndi sbagghiammu tutti i tri:
ca nci su voti chi unu li cugghiuni
li scangia e li pigghia pe’ lampiuni:

ndo mentri chi faciva stu passeggiu
mi ntisi ‘a panza comu mbarazzata
e mi parzi ca, jettandu ‘nu scurreggiu,
pigghiava abbentu, ma fici ‘na jojata!
Ca chiju sparamentu malasorta
Non era fetu ma n’attaccu ‘i sciorta”.

domenica 23 ottobre 2022

I RAPPORTI POLITICI E CULTURALI TRA RHEGION E ATENE (di Felice Francesco Delfino)

    Felice Francesco Delfino , nato a Oppido Mamertina nel 1979, è storico profondissimo e puntiglioso, autore, tra l'altro, di numerosissimi studi sul passato antico della nostra terra reggina e, in particolare, sugli insediamenti ebraici in Calabria ( Si ricordi a tale proposito la sua corposa e pregevole monografia dal titolo "La presenza ebraica nella storia reggina"- Disoblio Editore). E' anche narratore di qualità e in tale chiave recentemente ha dato alle stampe il romanzo noir "Inganno d'autore".  In questo studio sui rapporti tra Rhegion e Atene, ci offre un'attenta e suggestiva  analisi divulgativa che mancava  sicuramente alla nostra storiografia locale . (Bruno Demasi).

     E’ un tema , questo, caro a molti studiosi specialmente locali, ma il limite di tanti studi e di tante pubblicazioni finora fatte è stato ed è quello di focalizzare l’attenzione su questioni particolari, piccoli episodi o medaglioni della storia più grande e complessa, spesso anche solo dettagli. Chi legge, in questi casi (che sono poi la grandissima maggioranza) non riesce a comprendere il quadro di insieme della storia di un’epoca. Per questo motivo cercheremo in questo breve appunto di ridefinire con linguaggio semplice e divulgativo contorni e contenuti di una vicenda che vede protagoniste due grandi città del Mediterraneo: Rhegion (oggi Reggio Calabria) e Atene. Rhegion è stata di certo una delle poleis magnogreche più importanti della Calabria insieme a Locri Epizeferi, anche per i suoi stretti rapporti con la Madrepatria. Tuttavia, prima di addentrarci a considerare tali rapporti, sarebbe opportuno osservare ciò che succedeva ancor prima della fondazione di Rhegion, nella penisola ellenica.

    In Grecia le poleis fioriscono dopo il periodo buio del Medioevo greco e le due poleis per antonomasia sono Sparta e Atene. La definizione di poleis ci viene data in primis da Aristotele nella sua Politica intese come pluralità e insieme di cittadini. Sparta e Atene erano le due maggiori città Stato in Grecia ed ebbero un rapporto ambivalente tra loro: prima alleate poi rivali. Sparta e Atene combatterono insieme la battaglia di Maratona del 490 a.C. o ,meglio sarebbe dovuto accadere , se non fosse successo che gli Spartani al primo scontro degli Ateniesi, appoggiati dai Platesi, contro il più forte e numeroso esercito persiano, non si fossero presentati in ritardo all’appuntamento a vittoria ateniese già conseguita.
 
    La scusa che diede prima sconcerto, ma poi fu accettata fu attribuita al fatto che una lunga festa avesse impedito agli Spartani di partire prima e in Grecia, era ben nota la religiosità di Sparta che sfiorava la superstizione. Tuttavia, il nemico persiano era tutt'altro che abbattuto e aleggiava ancora il pericolo incombente da parte degli Ateniesi di perdere lo status di uomini liberi e diventare sudditi della Persia. Difatti il re persiano Serse con la sua flotta nel 480 a.C. aveva attraversato il Bosforo ed era giunto a terra, mentre altre flotte persiane costeggiavano per dare rifornimenti alle truppe. Temistocle, organizzava la difesa greca e doveva scegliere il sito ove combattere contro il nemico. L'opzione Termopili, etimologicamente “Porte Calde" si prefigurava come quella più favorevole. L'esercito spartano guidato da Leonida al sito delle Termopili, una stretta gola di una montagna a nord di Atene e a sud della Tessaglia, entrerà nella leggenda per il valore dei suoi trecento soldati che ispirarono il film “300”. Nei primi due giorni, l'esercito persiano fu allontanato, ma il terzo giorno successe l'imprevedibile: Efialte, un pastore della zona, un traditore, prese accordi col re persiano Serse di indirizzare l'esercito attraverso un sentiero che conduceva in un preciso punto delle Termopili al fine di attaccare i Greci alle spalle. La situazione pertanto si ribalto' e l'esercito greco subì diverse perdite. La sconfitta sembrava vicina, ma Leonida, non volendo neanche considerare l'onta della resa, con i suoi trecento valorosi decise che avrebbe proseguito con coraggio la resistenza fino alla morte. E così fu sino l'ingresso nel mito. 

    La strada verso Atene per i Persiani era però ancora aperta. Gli abitanti di Atene furono condotti a Salamina dove assistettero in lontananza all'incendio dell'Acropoli di Atene. Gli Ateniesi poi non seguirono il consiglio degli alleati di recarsi nel Peloponneso e Temistocle era convinto dello scoraggiamento persiano per via della mancanza della flotta che non avrebbe permesso la vittoria e preparò l'indomani una battaglia via mare. Gemiti, urla ricoprivano le distese del mare finché non li assopì il volto oscuro della notte – scrisse il grande Tragediografo Eschilo che partecipò alla battaglia di Salamina.
    A questo proposito è importante sottolineare, come e quanto tutti e tre i grandi tragediografi greci: Eschilo, Sofocle e Euripide sono legati a Salamina: Eschilo vi combatté, Sofocle scrisse i Peana in nome di Apollo per celebrare la vittoria dei Greci, Euripide vi nacque proprio nel 480 a.C.

    Serse dunque fu sconfitto e con una piccola parte del suo esercito tornò in Persia, ma una moltitudine dei suoi uomini rimase in Grecia sotto il comando del generale Madornio che fu sconfitto a Platea in Beozia nel 479 dalle truppe alleate guidate dal reggente Pausania. Infine a Micale la flotta persiana fu definitivamente sconfitta e la guerra si concluse a favore dei Greci. Sconfitto Serse, l'alleanza tra Sparta e Atene non ebbe più ragione d'essere e le due città da alleate, dopo quello che i studiosi hanno chiamato la Pentacontia, un governo di 50 anni, diventano rivali e contendenti. Ad Atene ci sono trent’anni di sommossa, scoppia nel 431 aC la guerra del Peloponneso, che interesserà, come tra poco vedremo, anche l'antica Reggio Calabria.
   Nell'VIII secolo, cioè circa tre secoli prima di questa lunghissima guerra, si era progressivamente consolidata nel Meridione della nostra Penisola la Magna Grecia in virtù dell'espansione ellenica in Occidente e precisamente nell'ampia area geografica comprendente le attuali Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e l Sicilia. Reghion (Reggio Calabria) era stata fondata nel 713 a.C. dai Greci Calcidesi in prossimità del fiume Apsias, (Calopinace) seguendo i suggerimenti dell'oracolo di Apollo in Delfi.
    Nel V secolo Rhegion ebbe un periodo fiorente sotto il tiranno Anassila e un ruolo culturale di primissimo spessore grazie ad eccellenti figure del calibro del bronzista Pitagora, (colui che a quanto pare realizzo' uno dei Bronzi di Riace), Ibico e Learco. Dopo il periodo dei tiranni, lo scenario in riva allo Stretto tra Reghion e Messana appariva un po’ diverso. 

  A Rhegion, quando il conio viene ripreso viene riutilizzata per le monete l'effigie della testa del leone e nel verso la divinità sul trono con figure animali, quali il gatto, l'airone, il cigno, la papera, il cane e il serpente, quest'ultimo con collegamento a Giocasto, al quale a Rhegion era stato dedicato un mausoleo sul promontorio di Punta Calamizzi Pallantion. E probabilmente anche il serpente era collegato al dio greco della medicina Asclepio.

   Nel 431 a.C. in Grecia scoppia la guerra mondiale dell’antichità ellenica, vale a dire la guerra del Peloponneso e, a detta dello storiografo Tucidide, a Reghion ci fu un periodo di sommosse. Rhegion doveva difendersi dai Siracusani e dagli alleati Locresi e stipulò un ‘alleanza con l'Atene di Pericle, al fine di mantenersi libera ed autonoma dalle loro influenze. Pericle con l’alleanza con Reghion voleva impossessarsi del grano siciliano e avere saldo il controllo dello Stretto. I Reggini cercavano di contro una riscossa contro i Locresi, che dopo la morte di Anassila avevano preso il controllo di Capo Eracleo e dei suoi porti fino al Kaikinos. Per difendersi dai Siracusani, Rhegion aveva stretto alleanza con Messana, Katana e Leontinoi. Atene si alleò con tutte le città calcidesi della Magna Grecia. Tra tutti i nuovi alleati il più forte era certamente Rhegion per via della flotta navale che garantiva sicurezza nelle acque dello Stretto. E’ documentato che alla fine del IV secolo la sua flotta contava di 80 triremi tirate da 16.000 rematori. 

   Con lo scoppio della guerra del Peloponneso, Rhegion diveniva una base importante per Atene per effettuare operazioni militari lungo lo Stretto e la Sicilia orientale. Due operazioni importanti furono l’attacco verso il vecchio confine di Capo Spartivento e il tentativo di conquistare Lipari con attacchi congiunti reggini – ateniesi per mare e per terra, tutti con esito non favorevole. La guerra del Peloponneso si concluderà con la Vittoria della Lega Peloponnesiaca guidata da Sparta e la dissoluzione della Lega Delio- Atrica.
    La stretta e persistente allenza Rhegion - Atene è attestata da un reperto archeologico: una tavoletta che, posta un tempo in città , all’esterno della Banca d'Italia sul Corso Garibaldi, oggi è esposta nelle sale del Britsh Museum a Londra.

    Occorre anche ricordare che nel 446 era accaduto un altro evento importante: Eucratos, importante politico di Siracusa, aveva compreso bene i piani di Pericle che non erano quelli di favorire le città magno-greche ma solo di accaparrarsi il grano siciliano e avere un punto strategico sullo Stretto. Pertanto, il politico aveva fatto realizzare una Conferenza di Pace a Gela convincendo anche con lo slogan “La Sicilia ai Sicilioti” a tenere Atene lontana dagli affari della Sicilia e convincendo anche i Reggini a farlo. In virtù di questa conferenza, quando nel 415 arrivò a Rhegion la flotta di 200 triremi guidata da Nicia, i Reggini non li fanno transitare in Sicilia, ma li fanno sbarcare nella rada vicino al tempio di Artemide e il porto.
    Vicende tutte che dall’epos sembrano trascendere quasi nel mito, ma che hanno una loro chiarissima concretezza storica e che attestano ancora una voilta, qualora ve ne fosse bisogno, quanto grande sia stata la linea di continuità tra Atene e la città in riva allo Stretto che , persìino nel nome, indica ancora una nobiltà assoluta ormai dimenticata.

lunedì 10 ottobre 2022

La penna del Greco: PASCALI SORRIDEVA SEMPRE (di Nino Greco)


    La penna del Greco aggiunge stavolta una luce nuova, e da un’angolazione del tutto particolare, a quella tristissima vicenda che negli anni Sessanta vide protagonista Oppido Mamertina e l’Aspromonte di una tragedia strana i cui contorni non furono mai del tutto definiti. Si trattò di un avvelenamento collettivo che fece molte vittime, in particolare bambini, frutto sicuramente dell’arretratezza pasticciona e dell’arte di arrangiarsi tutt’oggi imperversanti. Dopo aver destato molto scalpore e portato a lungo ai disonori della cronaca il Centro Aspromontano, lo scandalo fu subito sommerso dalla retorica diseducativa dei media e da quella , non meno ipocrita, dei politici dell’epoca.
    Nino Greco ancora una volta in questo inedito dà una lezione di rara maestria narrativa, centellinando le parole una a una in una sintesi semplicissima ed eloquente che restituisce vita ad alcuni personaggi di questa tristissima storia: Pascali, la madre, il mondo rurale oppresso non solo dal male imperversante, ma anche dal sospetto, dalla paura, dai “si dice” mai verificati e amplificati di bocca in bocca fino al parossismo.
    Sullo sfondo il lavoro pesantissimo delle donne, la povertà incontrastata, l’azione educativa e protettiva delle suore di Sainte Jeanne Antide Thouret che tanti bambini hanno accolto , difeso e aiutato nell’ Asilo di Oppido come in tantissimi altri delle Calabrie e dell’Italia intera.
    Anche per questi ricordi, per il non scritto, ma suggerito, per il non detto, ma solo accennato, occorre accogliere con gratitudine questa pagina che fa ripensare commossi al nostro passato e fa rivivere la nostra lingua vera, nella quale l’ordito dell’Italiano colto riceve la trama di tanti nobili termini dialettali altrimenti dimenticati.   (Bruno Demasi)


PASCALI SORRIDEVA SEMPRE


    Pascali era il mio compagno di asilo con cui mi trovavo spesso a giocare. Sorrideva sempre nonostante non avesse la mia stessa agilità: quella gamba era più sottile dell’altra e portava una scarpa diversa e più grossa.
   Non gli avevo mai chiesto il perché di quella differenza: per me era Pascali il compagno preferito e, quando salivo sulla giostrina che c’era al centro del vagghju dell’asilo, lui si sedeva su una sedia accanto, si divertiva a farla girare spingendola con le mani, e rideva. Era una giostra piccola circolare con i colori in alcuni punti sopraffatti dalla ruggine ed era l’unico svago, a parte delle palline di plastica, che ci offriva l’asilo.
    Tutte le mattine le nostre mamme ci lasciavano nel piccolo ingresso in presenza di una suora e poi andavano via: molte di loro lavoravano a “giornata” per la raccolta delle olive e l’asilo era “ ’na sarbazione”, dicevano.
    La scala sbucava nel piccolo androne da cui scendeva sorridente suor Immacolata.
   Appena arrivati lì, non facevamo altro che attendere lei, giunonica e accomodante, pronta alle tenerezze che si possono riservare a bambini e bambine di cinque anni. Lei ci accoglieva con il suo abituale abbraccio e con un sorriso raggiante; tra le suore era la più dolce e la più simpatica. Poi ci prendeva per mano e ci accompagnava nella sala per la colazione e quando il tempo era clemente ci portava direttamente fuori, nel patio. 

    Dalla finestra della piccola cucina, attigua al cortile, compariva il volto severo di Pascalina; capelli neri corvini legati con le trizze che le contornavano il capo come una corona. Il suo sguardo era sempre serio e deciso. La temevamo un po’ tutti, di più chi si rifiutava di bere il bicchiere di latte tiepido e senza zucchero che lei riempiva con un mestolo, dosandone la quantità dopo averlo pescato in uno stagnato di alluminio.
   Io qualche volta mi ero rifiutato di berlo, non mi piaceva, ma il grugno di Pascalina e le parole tenere di suor Immacolata mi avevano convinto a fare quel sacrificio. Pascali invece lo beveva volentieri, non se lo faceva dire due volte: era buono e ubbidiente.
   Era l’ultimo anno di asilo, l’anno dopo ci saremmo ritrovati in grembiule nero e fiocco pronti a iniziare l’avventura scolastica tra i banchi delle Elementari.
   Non fu un’estate facile; quell’anno il paese visse uno dei momenti più drammatici della sua storia. I giorni a cavallo di Ferragosto divennero tragici e convulsi. Le auto iniziarono durante la notte, prima della festa, ad allertare, con i clacson a suono continuo, tutto il paese; il giorno dopo il via vai continuò e l’ospedale venne preso d’assalto dai continui soccorsi.
   Io, che nei vicoli dell’Ospedale ci vivevo, appena sentivo un clacson, anche in lontananza, spinto dalla curiosità correvo in direzione della porta d’ingresso dell’ospedale per andare a vedere chi e per che cosa vi fosse stato portato. Era l’abitudine di tutti i ragazzi della ‘rruga: quando sentivamo arrivare un’auto che si apriva la strada a suon di clacson non potevamo mancare e spesso arrivavamo prima dei portantini. 


   Le corse, in quei tristi giorni, furono tante. Il paese era in subbuglio; la sera prima a mio padre, tornando con l’asino dalla “Foresta” sequestrarono una cofana di pomodori e una di fagiolini. I motivi erano sconosciuti; il paese sembrava fosse vittima di un morbo oscuro che continuava a mietere vittime e la confusione regnava sovrana.
   Fu quel giorno stesso che sul sedile posteriore di una Fiat 1100 nera, dopo essere stato tra i primi curiosi a giungere davanti all’Ospedale, vidi Pascali sdraiato a pancia in giù, lo riconobbi dalla scarpa più grossa che portava al piede.
   Mentre un infermiere lo prendeva in braccio lo chiamai, non mi rispose; alzai gli occhi e in lontananza vidi arrivare sua madre a passo svelto con un pianto straziante come quello di colei che piange un figlio morto. Mi divincolai tra la folla e corsi a casa in preda a un magone, non volevo crederci, Pascali non mi aveva risposto e non era lì per colpa di quella gamba. 

   Era rimasto vittima anche lui, e non fu il solo della sua famiglia, di quel male, quell’avvelenamento collettivo, che stava ammantando di lutto le genti di tutto il paese e aveva spento il sorriso di quel bambino dal sorriso dolce che all’asilo, non potendoci salire, si divertiva a spingere la giostra mentre io ero seduto sopra.
   Pascali si divertiva anche così e sorrideva. 

   Sorrideva sempre.

mercoledì 5 ottobre 2022

GLI EBREI A OPPIDUM E NELLA VALLE DELLE SALINE IN EPOCA TARDOMEDIEVALE E MODERNA ( di Bruno Demasi)

 
Una memoria grata nella festa dello Yom Kippur 2022

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   Dalla sera di martedi, 4 ottobre alla sera di mercoledi, 5 ottobre cade quest'anno la più grande festività ebraica che ci riporta alla memoria il secolare sacrificio di tanti Ebrei anche dalle nostre parti, la loro lotta incessante per il progresso e la pace anche su queste tormentate contrade sempre contese aspramente da qualcuno.
 E' il  giorno considerato come il più sacro e solenne del calendario ebraico, giorno totalmente dedicato alla preghiera e alla penitenza e vuole l’ebreo consapevole dei propri peccati, chiedere perdono al Signore. E’ il giorno in cui secondo la tradizione Dio suggella il suo giudizio verso il singolo.
   E' anche il giorno  in cui le memorie sepolte riaffiorano urgenti e impetuose e ci fanno riandare a ritroso nei secoli per scoprire le tracce nascoste di una civiltà, quella ebraica a Oppido e in Calabria, mai sufficientemente considerata.
 

    Popolo estremamente pacifico, quello ebraico , arrivò infatti da queste parti non con la forza di eserciti agguerriti, così come avevano fatto i Longobardi, i Franchi, i Bizantini, gli Arabi, i Normanni e più tardi anche altri, e le sue vicende sono state tramandate in forma molto episodica e pochissimo adeguata a documentare con continuità e in modo congruo la complessità delle relazioni di questo popolo con i Calabresi in generale e con gli abitanti dell’ attuale Piana di Gioia Tauro, in particolare.
       Troppo spesso, infatti, i loro contributi culturali e sociali sono stati taciuti dagli storiografi coevi e, di conseguenza, ignorati dai più. Però sono presenti nella nostra tradizione popolare, ricordati, perché da sempre, in era cristiana, vengono associati al Golgota e all’odiosa usura o al pregiudizio dell’Ebreo condannato ad errare. Se è vero che la Diaspora ha inizio nel 132 d.C., dopo la totale e sanguinosissima sottomissione romana della Palestina , è anche vero che le prime piccole comunità ebraiche giungono anche nella Piana attuale solo sotto il dominio di Enrico VI e, successivamente di Federico II. Scrive in proposito Oreste Dito: “...stanziamenti ebraici erano a Nicastro, Monteleone, Tropea, Nicotera, Seminara, nelle due piane di S Eufemia e di Palmi. Nella zona montuosa dell’estremo lembo di Calabria, sono ricordati centri giudaici ad Arena, a Galatro vicino al Mètramo, e a Tritanti, frazione del comune di Maropati.” (- O. DITO, La storia calabrese e la dimora degli Ebrei in Calabria dal secolo V alla seconda metà del secolo XVI, 1979, p. 5.).
 
     Con l’espressione “Piana di Palmi” O. Dito va a indicare sommariamente un contesto geografico ed antropologico di grande spessore culturale e mercantile, nel quale pullulano le comunità ebraiche e i loro traffici. Da N verso S, con l’ausilio degli studi condotti dalla professoressa Roberta Tonnarelli dell’Università di Bologna, possiamo individuare almeno i seguenti insediamenti ebraici certi : Nicotera, Rosarno, Laureana, Galatro, Maropati e Tritanti, Melicucco, Cinquefrondi, Polistena, Gioia Tauro, San Giorgio Morgeto, Cittanova, Seminara, Santa Eufemia d’Aspromonte e Oppido che per la sua posizione strategica sulla Piana in epoca tardobizantina favorisce una posizione economicamente dominante anche per la comunità giudaica in esso ferreamente radicata.

  Si giocano su questo territorio che amministrativamente ha ancora come epicentro Oppudm (l'antica Hagia Agathè) mille storie di uomini e donne che gestiscono banchi di prestito, lavorano la seta e tinteggiano i tessuti, specie con l'indaco. Un popolo che ha dovuto far fronte ai primi problemi con gli Angioini, alla diffidenza della Chiesa, all'accusa di deicidio, ma che ha lasciato inevitabilmente tracce eloquenti della propria permanenza da queste parti.

Federico II, nel Parlamento generale di Messina, nel 1221 aveva esteso al proprio regno le disposizioni adottate nel quarto Concilio lateranense, nel corso del quale erano state stabilite le assise “contra judeos, ut in differenzia vestium et gestorum a christianis discernantur”. Tali disposizioni, volute da Innocenzo III, stabilivano il diretto intervento della Chiesa di Roma contro gli Ebrei e prescrivevano che essi portassero un segno di riconoscimento che per gli uomini era analogo a quello imposto ai giocatori d’azzardo.
Carlo I D’Angiò diede inizio a quella politica inarrestabile di decadenza del Regno, il quale interruppe il processo di sviluppo, che si era realizzato sotto il governo degli Svevi. I baroni ebbero mano libera e anche la vecchia Tourma delle Saline, la Piana, che aveva vissuto sotto l’amministrazione bizantina un’epoca decisamente felice e prospera, vessata dai baroni e da un clero, che godeva di moltissimi privilegi, andò incontro a un periodo di assoluta anarchia. “A tanto giunsero i costumi degli ecclesiastici sotto gli Angioini che furono necessari alcuni provvedimenti veramente caratteristici e che ritraggono l’ambiente morale in cui vivevano le chiese calabresi »”.( Ibidem, p 139 ) .

    Furono situazioni che determinarono sicuramente un esodo generale delle popolazioni che fuggivano sia la prepotenza baronale che l’arroganza del clero, ma gli Ebrei, che non si erano immischiati nelle varie contese, continuarono a curare i loro affari, anche perché restava di loro esclusiva pertinenza l’attività finanziaria, la quale giovava da una parte ai sovrani impegnati in estenuanti quanto inutili guerre e dall’altra ai vescovi, che sugli affari dei miscredenti riscuotevano le tasse.

E' anche significativo che nel XVI secolo mentre fuori dalla Calabria e dalla Piana le numerose Giudecche furono tramutate in ghetti, con l’obbligo per chi li abitava di non allontanarvisi, specialmente di sera o di notte, dalle nostre parti di ghetti non ne vennero creati, sebbene anche in questi paesi, nei loro quartieri (Iudeche o Mellah) gli Ebrei si reggevano con ordinamenti propri e secondo le proprie tradizioni. Costituivano, dunque, una comunità a parte, regolata da leggi differenti da quelle osservate dai Cristiani, quali, per esempio, l’osservanza dello Shabbah e la celebrazione della Pasqua. Per gli atti di culto avevano la loro sinagoga, piccolissima o grande che fosse, e per l’istruzione la propria scuola, che, spesso, coincideva con la sinagoga stessa. E comunque l’attività degli Ebrei si svolgeva soprattutto in campo economico e commerciale ed era proprio per l’impulso dato all’economia che essi non erano solo tollerati, ma anche favoriti .


    Gli Angioini non furono teneri verso gli Ebrei, ma non si può neanche dire che furono dei persecutori; si adoperarono per la loro conversione alla fede cattolica, favorendo in ogni modo chi operava questa scelta.
  
   Nel Parlamento tenuto a S. Martino, la città posta proprio ai bordi dell'antica Tourma delle Saline, il 30 maggio 1283, si decretò che agli Ebrei non fossero imposti dei gravami oltre a quelli esistenti e addirittura con l’editto del 1 maggio 1294 si concedevano particolari facilitazioni a chi di loro si fosse convertito alla fede cristiana, dando luogo a una serie infinita di conversioni coatte dei “Marrani”.
     A decretare la fine di un’epoca tutto sommato prospera per queste contrade, intervenne la cacciata degli Ebrei dal Regno, nel 1510, quando alla sostanziale tolleranza della Chiesa nei loro confronti, si oppose l’atteggiamento violento e rozzo dei sovrani spagnoli che, scacciando gli Ebrei dal Regno, non solo commisero un atto di feroce xenofobia, ma assestarono un colpo fatale all’economia dell’Italia meridionale, in generale, e della Piana di Gioia Tauro , in particolare.
Testimonianze onomastiche ebraiche nella Piana


   
Nomi legati al culto: Arone (spesso volgarizzato in Barone) è molto diffuso, e, oltre che dal nome Aronne, potrebbe derivare da Aron haKodesh Cuzzupoli (greco poulos = figlio), Cuzzilla; secondo alcuni, alla stessa categoria potrebbero appartenere cognomi come Piccolo . Appartenenza a famiglia sacerdotale potrebbero denotare cognomi come Previti, Lopresti, Del Prete, Lo Previti, Lo Prete. 
   Un ruolo molto importante avevano nelle comunità ebraiche i Dayanim (giudici), e da questi potrebbe derivare tutta una serie di cognomi: sebbene Morabito sia un cognome arabo, fu portato anche da ebrei, probabilmente studiosi e sapienti venuti da paesi arabi (marabutti). Alla sinagoga, chiamata moschea, musceta, meschita, ecc., potrebbe alludere il cognome Muscetta, Moschetta, Moschella. Allo shabbat rinviano molti cognomi, diffusi nella Piana : Sabato, Sabatino. Nomi augurali sono: B[u]ono (Tov), B[u]onanno (Shana tova), Fortugno/(B[u]ona) Fortuna/(Bona)Ventura (Mazal [tov]), Calì (dal greco = Buoni, Belli, ampiamente testimoniato come cognome di ebrei calabresi), Calò (tuttora cognome ebraico in tutta Italia, forse dal greco Kalònymos = Shem tov, buon nome).
Una categoria particolare di nomi è quella dei neofiti: Cristiano, Cristiani, (Di/De) Gesù, (Di/De) Cristo. Va ricordato anche il cognome Vitale/i, appartenente al grande cabbalista Chaim Vital Calabrese: questo cognome deriva proprio dall’ebraico chaim, che significa vita.