martedì 27 febbraio 2024

ANTAGONISMO CHIESA-FASCIO A OPPIDO ( di Rocco Liberti)

     Sul periodo fascista e postfascista oppidese, e calabrese in genere, Rocco Liberti ha scritto molto e con grande  onestà intellettuale, e molto hanno scritto anche vari altri studiosi, ma un saggio sia pur breve, come questo, che scava a ritroso con convinzione per rinvenire proprio in questo estremo lembo della Penisola una salda e coraggiosa reazione della Chiesa locale contro lo strapotere politico fascista, forse ancora mancava. Ed è uno scritto tanto più pregevole quanto più si osservi che l’ azione della chiesa diocesana oppidese, almeno in questa fattispecie , marciava quasi in controtendenza con una parte della  Chiesa romana spesso preoccupata di evitare ogni sorta di disguido diplomatico con il governo dell’epoca e con le sue emanazioni territoriali, che spesso agivano in forme riottose e spavalde. La figura del vescovo Galati ne emerge, proprio per questo, gigantesca. I fatti oppidesi del 1924, che videro nel presule un inflessibile modello di coerenza cattolica, probabilmente non ebbero toni uguali, almeno nel meridione della Penisola, e furono il detonatore per il quale poco più di due anni dopo lo stesso vescovo, nel 1927, veniva promosso alla sede arcivescovile di Santa Severina e rimosso dalla sede oppidese per lui divenuta scomoda. Una pagina dolorosa per la chiesa locale, anzi per la Chiesa tutta , che contemporaneramente, approfittando della vacanza venutasi a crerare in questa antichissima diocesi aspromontana, pensava di relegarvi come nuovo vescovo quel mons. Giovanni Battista Peruzzo (Vedasi in questo blog, cliccando qui,  IL PASTORE DELLE PECORE D’ASPROMONTE - Monsignor Giovanni Battista Peruzzo, protagonista del libro di Andrea Camilleri ”Le pecore e il pastore”, vescovo indimenticato di Oppido Mamertina), che, per analoghi motivi del suo predecessore, a Mantova era stato fiero oppositore degli eccessi fascisti verso i cattolici in più di una occasione e che evidentemente anche a Oppido continuò la sua missione pastorale senza sconti per nessuno, se è vero che anche lui, dopo pochissimi anni venne repentinamente promosso all’arcidiocesi di Agrigento e a sua volta rimosso da Oppido. Ma lo studio di Rocco Liberti ci riserva un’altra graditissima sorpresa: oltre a riscrivere con assoluta esattezza una pagina oscura di questo Territorio, nella parte conclusiva, traccia una bella rievocazione dell’ incisiva, seppure sommessa, azione politica e culturale svolta già negli anni in cui lo zio era vescovo a Oppido, dal futuro onorevole e sottosegretario Vito Giuseppe Galati, vissuto a Oppido per un certo periodo. Liberti ricostruisce parte della  corrispondenza epistolare  del Galati  addirittura con Piero Gobetti e il suo contributo a quella “Rivoluzione liberale” che in qualche modo costituiva quasi una significativa premessa per la rinascita della democrazia. Come Oppidesi, e non solo, siamo davvero orgogliosi di questa corrispondenza di intenti concepita proprio a Oppido e non cesseremo mai di ringraziare Rocco Liberti anche per questo  pregevolissimo dono di informazione che pochi immaginavano. (Bruno Demasi)

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    Essendo nato sul finire del 1933, necessariamente la mia prima età si è incrociata con un passaggio epocale. Mossi i passi iniziali nella scuola del regime e all’ombra delle istituzioni di partito, in particolare l’Opera Balilla che con le proiezioni cinematografiche attirava i più piccoli, a un bel momento tutto è cambiato. Dalla tranquillità quotidiana si è subito passati ad affrontare un avvenire incerto e periglioso. Scoppiato il secondo conflitto mondiale, si sono volatilizzate di colpo sia le periodiche e accorsate manifestazioni al monumento ai caduti che le esercitazioni ginniche nella piazza maggiore. Ad allarmare la gente è stato l’oscuramento delle case. Sia il lampadario che la misera lampadina dovevano essere coperti da un velo nero di modo che non filtrasse all’esterno neppure una fioca luce. Era facile farci avvistare dagli aerei nemici! Nelle strade ogni lampione era stato messo già in condizioni d’inagibilità. Un lume allora si qualificava davvero un privilegio. Ricordo come ci si muoveva stentatamente al chiarore emanato da un lumicino, in genere un pezzo di stoffa impregnata di olio. Guai a farti sorprendere da un raggio che poteva fuoriuscire dalla fessura di una porta o finestra. La ronda che andava in giro a sorvegliare se la prescrizione veniva rispettata non stava a pensarci per intervenire.

   Ed è arrivato il peggio. A ogni allarme che lanciava la sirena della falegnameria Morizzi le mamme con i figli appresso davano il via al rifugio nelle campagne. Gli uomini erano a servire lo stato. Non bastando più tale accorgimento in quanto l’allerta si reiterava più spesso, ognuno ha pensato di trovare un ricovero più o meno stabile portandosi in qualche casamento nei campi di sua proprietà o di amici. L’unico bombardamento che ha interessato Oppido è stato pochi giorni avanti la proclamazione dell’armistizio. Delle bombe sono cadute nei pressi del cimitero, ma non hanno causato vittime o danni.

   Rientrati in paese si è fatta festa e in una serata si è dato mano alla statua della Madonna Annunziata e la si è recata in processione. La numerosa popolazione gioiva e piangeva contemporaneamente. Intanto non si sapeva nulla di mariti, fratelli, figli obbligati a offendere o difendersi sui più disparati fronti. Soltanto il Vaticano riusciva a ottenere notizie, peraltro filtrate tramite i suoi canali diplomatici. Nel dipanarsi del tempo ecco arrivare alle famiglie quanto attendevano, ma purtroppo non sempre in positivo. La crudele contesa, ma soprattutto la contrapposizione tra fascisti e partigiani, aveva determinato una lacerazione dei rapporti e il fratello ha ucciso il fratello. Pure Oppido ha contato le sue vittime. Sono andati incontro alla morte fascisti come Nino Manna, partigiani uccisi da partigiani come Tullio Tripodi e cattolici come Francesco Mittica, che ha concluso la sua vita in un lager tedesco.

    Nel novembre del 1969 il rag. Giuseppe Muscari a lungo segretario del PNF dichiarava a Enzo Verzera della Gazzetta del Sud che Oppido durante il ventennio era stata “totalmente e serenamente” fascista. Per la massima parte corrisponde al vero, ma nemmeno nel nostro paese sono mancate le intemperanze, le mascalzonate e un probabile gratuito delitto. Sin da subito si staglia nettamente la presa di posizione del sindaco Saverio Guida del Partito Popolare che, costretto con la forza da una squadra al comando del capitano Nicola Zerbi, coraggiosamente il 29 dicembre del 1922 si dimetteva ufficialmente in un apposito consiglio comunale. Molto nobili le sue parole, ma non ha evitato d’inneggiare ai nuovi tempi apportatori di pacificazione e futuro avanzamento sociale. Non è stato così e alcuni, che erano fermamente ligi al loro credo politico, hanno perso il posto di lavoro e sono emigrati. Il ferroviere Francesco Morabito, primo segretario della federazione socialista reggina, che a Reggio c’era già almeno dal 1920, anno in cui vi ha sposato Giovanna Aricò, è morto in carcere nel 1926 a 36 anni di età. Un atto particolarmente odioso è stato di sicuro quello di costringere dei rivali politici, ma parimenti dei poveracci che non esprimevano alcuna opposizione, a sorbirsi la purga di olio di ricino. Quanti vi sono incappati: Gianni Panuccio, Lofaro (non mi è chiaro chi dei due fratelli, se Micuzzu o Giuseppe). Comunque, si conosce che quest’ultimo, deceduto nel 1944, sì è buttato dal balcone del Comune allora in Piazza Umberto per sfuggire alla non richiesta bevuta) e altri. Il primo era un acceso politicante anarchico (n. 1891), ma il secondo proprio! Non avrebbe procurato alcunchè di male a una mosca. Passo dopo passo tanti, tra essi l’avvocato Carmelo Zito (questi in America, dove ha subìto un processo, è stato un attivo giornalista e antifascista), il medico Annunziato Condò e gli artigiani Michele Pantatello, Alfonso Tiberio, Alfonso Musicò e Stefano Inga sono stati costretti a portarsi all’Estero, dove hanno continuato ad esprimere la loro fede politica[1]. Dopo la guerra Inga è rientrato al paese, Pantatello ha fatto una capatina nel 1960 per alienare la casa avita sul corso Vittorio Emanuele II, quella oggi di proprietà Sgambiatterra. Nel 1967 pubblicherà negli USA un interessante diario degli eventi che lo hanno riguardato[2]. Zito, che probabilmente non ha più rivisto il paese natale, nel dopoguerra inoltrato è stato un paio di volte a Reggio ospite della nipote Prof. Filomena Monoriti Restifo[3]. Il Panuccio è incocciato invece in una ben triste fine il 20 gennaio 1945 a Seminara pare in merito a lotta intestina tra comunisti. Era stato nominato, lui forestiero, segretario della Camera del Lavoro appena costituita[4].

   A Oppido si sono verificati sin dall’inizio screzi tra i fascisti locali e il vescovo Galati, ma il clou è stato nel 1924 quando l’Ordinario ha pubblicamente stigmatizzato l’operato di determinati adepti, che, trovatisi insieme a caccia in zona prossima all’antica Oppido, avevano preso di mira un quadro della Madonna che campeggiava in un’edicola a ridosso di una strada. Pronta botta e risposta tra fascisti e clero. Il presule ha tuonato dal pulpito avverso l’inqualificabile e gratuito gesto, ma i fascisti non hanno inteso tacere e hanno replicato per le rime con un libello debitamente firmato dagli esponenti più in vista in data 23 settembre. Si trattava del trio Ing. Pasquale Musicò, Ins. Vincenzo Scarcella e Rag. Giuseppe Muscari, che tra l’altro ha voluto stigmatizzare la di lui condotta in occasione della festa dell’Annunziata. Ormai Oppido e Tresilico, pur distinte in Comuni, si stavano conurbando. Mancavano tre anni per la definitiva unione. Era usuale far giungere la processione fino al cosiddetto ponte di Tresilico o prima, ma quell’anno, per determinazione dei più si è tentato di proseguire oltre. Il Galati si è opposto vivacemente. Non riuscendoci, ha riunito preti e seminaristi, lasciando che il corteo procedesse senza religiosi e si è portato immediatamente alla sua sede. Effettuato l’inusitato il percorso, una gran folla si è riversata poi davanti al portone del Palazzo Vescovile protestando scompostamente. È intervenuta la forza pubblica e alla fine si è messo termine alla vivace agitazione. Subito i caporioni fascisti hanno preso la palla al balzo e hanno stilato lo scritto di cui s’è detto dando la sfilza a tutti i cattivi comportamenti riscontrati, soprattutto avvisando che quegli aveva tradito ogni più rosea aspettativa.
  
   Quali gli atteggiamenti che si censuravano. Seminario e Orfanotrofio non andavano affatto. In riferimento a quest’ultimo “quelle povere bimbe dormivano su un pagliericcio la cui paglia non era stata mai cambiata dacché l’orfanotrofio era stato fondato, dormivano cioè su un pugno di terra; quelle povere bimbe avevano una sola camicia ed erano costrette a rimanere colla sola veste quando dovevano lavarla; quelle povere bimbe avevano una sola coperta piccola e leggera e d’inverno non riuscivano a chiudere occhio; e con milleduecento lire al mese dovevano sfamarsi ventiquattro orfani, quattro suore e le serve. E le rendite ci sono. Povere orfane!”. La sezione fascista aveva segnalato di volersi muovere per un’inchiesta, ma si era risposto con l’immediato allontanamento della Superiora, Sr. Filomena. Con tante segnalazioni, non si era dato il via ad alcunchè di positivo. Questa la rampogna al riguardo: “I vescovi sono potenti, quando non sono pure prepotenti. Dio sia lodato!”. Ma ancora. Il vescovo non aveva aderito a dire Messa al monumento ai caduti per un difetto di forma nell’invito nonostante chiarimenti e scuse officiate dal R Commissario che reggeva il Comune. Si stimava ciò “una vendettuzza degna di un seminarista”. All’atto della celebrazione della festa delle Palme aveva abolito la stessa sol perché aveva visto i rami di ulivo in chiesa e alquanta confusione a proposito e se n’era “scappato”. Ma torniamo all’abbandono della processione dell’Annunziata. Queste alcune tra le tante frasi espresse dai fascisti inferociti: ”Sera di domenica, poi, ieri, l’avete più grossa; già mancò poco non vi bruciassero vivo. Solo perché tutti i fedeli han voluto allungare di cinquanta passi appena la processione, voi avete piantato tutto e tutti, e ve ne siete andato…Come pure per poter rincasare un quarto d’ora prima avete proibito che la madonna fosse avvicinata ai balconi per raccogliere l’obolo dei fedeli...Eccellenza troppo avete abusato della pazienza di questo civilissimo popolo; troppo vi siete creduto lecito di offenderlo impunemente finanche nelle sue più ingenue manifestazioni religiose. Eccellenza! Troppo avete abusato di questo civilissimo popolo; troppo vi siete creduto lecito di offenderlo impunemente finanche nelle sue più ingenue manifestazioni religiose. Eccellenza! questo popolo che ha una sua dignità da difendere, vi odia cordialmente. Corda tirata troppo a lungo si spezza…”.

   Al principio del libello si fa cenno al crimine dell’edicola oggetto degli spari sulla quale per santificare il luogo era stata apposta l’epigrafe “Da mano sacrilega fulminata/Dalla pietà del popolo ricomposta” inaugurata “con messa solenne, pellegrinaggio con gran concorso di popolo scalzo ed incoronato di spine, pianti e lacrime da parte di tutti i fedeli”. Si minimizza sull’iniziativa e si afferma che nel caso si era trattato solo del gesto di “un ragazzaccio imbecille che volle così stabilire la forza di penetrazione dei suoi proiettili”. In finale, parafrasando che anche mons. Galati avrebbe potuto essere ricordato con l’erezione di altrettanta edicola, si dice che su essa avrebbe campeggiato un quadro della Madonna con su scritto “Da sacrilego Vescovo abbandonata/Da devozione di Popolo raccolta”.

   Quand’ero piccolo ho sentito accennare spesso dai miei genitori a tali fattacci, ma se per quello originario si addossava la colpa a degli sconsiderati che magari avevano alzato bastantemente il gomito, per l’altro si diceva ch’era tutto dovuto al comportamento di un vescovo intollerante e pronto all’ira.

   Oppido all’epoca non era ancora “totalmente e serenamente fascista” e non poteva esserlo. I resistenti non rifuggivano dall’esprimere il loro dissenso. Infatti, il 6 ottobre susseguente sul giornale “Il Mondo” appariva una serrata replica anonima al pamphlet. Non ne conosciamo l’autore, ma è il caso di riprodurlo per intero. Non penso che alcun altro oggi ne sia al corrente. Con titolo “I Fascisti contro il Vescovo”, eccolo di seguito:

   “Per la celebrazione della tradizionale festa della Nostra Protettrice, il vescovo Galati, amato pastore, per evitare incidenti, aveva in precedenza stabilito l’ora e le vie che la Sacra effige doveva percorrere. Crediamo che chiunque avrebbe dovuto ottemperare a quanto aveva ordinato il vescovo. Ma alcuni sconsigliati, aizzati forse da qualche «ducino locale», vollero di propria volontà prolungare di circa 500 metri l’itinerario stabilito e portare l’Imagine fino alla vicina Tresilico. Il vescovo si oppose, e quando vide che contro la sua volontà la processione proseguiva, essendo già notte avanzata, constatando che le autorità non intervenivano, abbandonò insieme a tutto il clero la processione e si ritirò nei suoi appartamenti.

   Il gesto del vescovo irritò quei pochi sconsigliati, i quali, finita la … processione, si diedero a fare grandi schiamazzi (erano tutti avvinazzati) sotto il palazzo vescovile, guardato dai RR. CC, Tutto sembrava finito, quando all’indomani apparve in Oppido uno strano indecente libello, che a prescindere dallo stile «cremonese» (l’antigrammatico fa progressi anche tra noi!) è un monumento di malafede e una teoria nauseante di menzogne inqualificabili.

   Il libello porta la firma dell’ingegnere Maricò (sic! Musicò), comandante la milizia fascista, quella del rag. Muscari, membro del direttorio del fascio, già commissario del comune di Platì, dimissionato d’autorità (il perché lo sa l’avv. Fera, segretario del fascio di Plati) e quella del prof. Scarcella, già seniore della milizia fascista ai tempi del «consolissimo», anche lui dimissionato d’autorità.

   Vuolsi che detto libello è dovuto alla penna acidula di quest’ultimo, il quale si ricorda non è alle sue prime armi in lettere contro vescovi e preti. Non siamo gli ufficiosi della Curia, anzi siamo dei «settarii» a dire dei «ricostruttori», ma contestiamo, per obbiettiva giustizia, al «ras» locale il diritto di erigersi a vindice e difensore della religione cattolica delle pratiche religiose, perché, se la memoria non ci falla, lui, oltre ad essere, come si dice, ateo, pare che alcuni anni or sono avrebbe ferito un prete. Non sappiamo se il «ras» si sia convertito al cattolicesimo dopo la sua inscrizione al fascio, ma se tutto ciò fosse vero – e stentiamo a crederlo – si vuole che sia sempre uno scomunicato, perché un paragrafo del diritto canonico dice testualmente così: «Si quis contra clericum aut fratrem ecc. ecc. anatema sit!» E uno scomunicato che difende la religione è il colmo.

    È inutile dire che lo scemo, per quanto farinaccesco, antigrammatico, libello ha prodotto un senso di compassione verso chi lo [ha] scritto ed ha fatto l’effetto contrario a quello che si proponeva. Ha prodotto un plebiscito di affetto e di devozione verso il Pastore così ingiustamente ingiuriato ed oltraggiato nell’esercizio del suo ministero che non guarda a partiti, ma ama tutti come teneri figli e che soffre e perdona.

    All’illustre Prelato, che ha fatto tanto bene nella diocesi, giungano i sensi della generale e più rispettosa ammirazione e il consenso di tutti alla sua mirabile opera evangelica e cristiana”.


   “Il Mondo” era un battagliero periodico di un certo successo fondato da Giovanni Amendola in seno al Partito Radicale Italiano nel 1922. Soppresso con tanti altri dalla dittatura mussoliniana nel 1926, è ritornato a farsi leggere nel 1945.

   Alla fine, nel 1927, comunque a pagare per tutti è stato il presule, che ha dovuto fare le valigie per Santa Severina. Ma sono trascorsi soltanto nove mesi ed altro evento di gran rumore è venuto a scuotere la cittadinanza oppidese, l’uccisione nel 1928 del seniore della milizia Vincenzo Scarcella, ma è stato attinente a un episodio di carattere puramente familiare. Il tutto si è verificato, guarda un po’, esattamente il 25 marzo a lato della piazza maggiore, sull’allora via Oratorio, oggi Marconi. Era il giorno clou della festa in onore della Madonna Annunziata. Conseguenti al delitto le scenate dei componenti della famiglia Scarcella avanti alla casa dell’uccisore con riferimenti di episodi presunti e la pubblicazione di tutto in un opuscolo distribuito a man larga in paese[5]. Ulteriore misfatto con di bel nuovo protagonisti dei cacciatori che, forse anche loro dovevano aver bevuto abbondantemente (?), è accaduto nel 1931, ma stavolta c’è scappato il morto, un povero bambino che vi si trovava per pura combinazione e che da uomini pravi sarà stato ritenuto un bersaglio. Almeno così si è tramandato. La voce popolare ci ha consegnato, come per il primo caso, nomi di possibili autori, ma…Che dire! Quel che resta chiaro è che il 5 aprile decedeva presso il locale ospedale Giuseppe Sprovara di a. 6 e 4 m., appartenente a famiglia di contadini. Il fatto stesso che nel registro dello stato civile l’annotazione sia stata inserita nella parte seconda e non nella prima riguardante tutti i residenti deceduti naturalmente, la dice lunga. Invero, non si fa soverchio uso di parole e l’avvenimento è offerto come normale: a ore pomeridiane otto e minuti quaranta del giorno cinque del sudetto mese in detto Ospedale sito in via Francesco Maria Coppola è morto Sprovara Giuseppe di anni sei e mesi quattro, nato in Oppido, residente in Oppido, da fu Rocco e di Lentini Teresa, contadini, residente in Oppido. L’ufficiale dello Stato Civile P(asquale) Feis”.

   Allo stesso anno rimonta l’impennata tra clero e fascismo a riguardo della chiusura dei circoli cattolici. Alte le proteste in seno al clero con in primo piano il can. Vito Cina, cui si ascrive la frase “Sono passati i Greci e i Romani, passerete anche voi” pronunziata avanti al portone centrale della cattedrale all’indirizzo di una manifestazione fascista offerta al centro della piazza sottostante. Lo ha testimoniato l’arciprete di Varapodio d. Antonino Demasi anche in una monografia. Ho conosciuto mons. Cina negli a. 50 per una fortuita combinazione. Era settembre e mi trovavo a Taurianova per la tradizionale festività della Madonna della Montagna e lui era in compagnia di altri sacerdoti anche oppidesi. Moltissimi anni dopo, nel 2009, ho partecipato al suo paese natale, San Nicola da Crissa, a una manifestazione in suo onore. Il prof. Antonio Galloro presentava una monografia che lo riguardava.

    A Oppido accanto a Mons. Galati ha vissuto per qualche tempo il nipote Vito Giuseppe, futuro sottosegretario alle Poste e Telecomunicazioni nei governi De Gasperi del 1947, 1952 e 1953. Ne abbiamo notizie da cittadini che lo hanno conosciuto, ma soprattutto da alcune lettere ch’egli ha inviato a Piero Gobetti, con cui era in ottimi rapporti, nel 1925. Profondamente cattolico e liberale, è nato a Vallelonga nel 1893 ed è morto a Roma nel 1968. Per il suo comportamento nella prima guerra mondiale si è meritata una medaglia al valor militare. Conclusosi l’aspro conflitto ha fatto residenza a Torino quale giornalista professionista e ha collaborato, tra l’altro, con la Gazzetta di Torino, l’Avvenire e il Messaggero. Nel 1921 ha fondato a Catanzaro con Antonino Anile, Francesco Caporale e altri il Partito Popolare. L’anno successivo ricoprirà il grado di direttore de “Il Popolo”, ma la durata del periodico non supererà il 1925. Ha collaborato indi con “Rivoluzione Liberale” di Gobetti e nello stesso anno parteciperà al V Congresso Nazionale del Partito. Nel 1928 ha pubblicato con Vallecchi il notissimo lavoro “Gli Scrittori della Calabrie”, che avrebbe dovuto risultare primo di una cospicua serie e che reca la prefazione di Benedetto Croce. Ha partecipato all’Assemblea Costituente del 1946 ed è stato nominato sottosegretario alle Poste e Telecomunicazioni nei governi De Gasperi (1947, 1952, 1953). Presentatosi sempre per la DC nel 1958, non è stato rieletto per una manciata di voti. Nell’ultima tornata l’ho visto a Oppido in compagnia dei fratelli Mittica ed altri esponenti della DC, ma anche con altre persone, che ne ricordavano la permanenza a Oppido tantissimi anni prima.

   La presenza del giovane Galati a Oppido è chiaramente documentata da alcune lettere inviate a Piero Gobetti tra l’11 aprile e il 7 maggio del 1925. Si trovano presso il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, dal quale ho avuto cortese e sollecito invio. La prima reca la data dell’11 aprile e in essa il giovane pubblicista riferisce in merito a una biografia di Machiavelli, che non avrebbe potuto completare prima di un anno. Per intanto si premurava di far avere la somma di cento lire per prenotazioni già effettuate. Tre giorni dopo ritornava alla carica: “le restituisco le bozze corrette e il ms. Ho fatto le correzioni indispensabili, non ho aggiunto che una breve nota e tolto qualche rigo. Tutte le correzioni sono necessarie: ne raccomando l’esecuzione più scrupolosa”. Nella stessa lettera, dalla quale si apprende che la prefazione dell’opera sarebbe stata scritta da Antonino Anile, si evidenzia chiara la richiesta di rispondergli nella sede di Oppido. Il futuro deputato ritornava alla carica il successivo 3 maggio sul medesimo argomento reiterando la richiesta di avere “Rivoluzione Liberale” e il “Baretti”. Quest’ultimo era il quindicinale di critica letteraria e cultura fondato appena nel 1924 dal Gobetti. L’ultima missiva è del 7 maggio e l’argomento è sempre lo stesso. Vi si relazione sulla composizione del lavoro, che avrebbe dovuto essere offerto in tre parti: I nuovi cattolici, La crisi politica italiana (1919-1922) e Cattolicesimo e Fascismo (1922-1924)[6]. Il Gobetti non andrà lontano e appena due giorni dopo l’arrivo a Parigi, località scelta per trascorrere l’esilio da lui stesso cercato, verrà a morte nel febbraio del 1926.

Rocco Liberti

[1] Sulle traversìe dei due e di altri compaesani in America e su tutto il periodo fascista a Oppido ved. R. Liberti, Fascisti e antifascisti di Oppido Mamertina tra Calabria e America, Il mio libro, 2014.
[2] Diario-Biografico L’ultimo Immigrante della Quota 25 novembre 1922, USA 1967.
[3] Dalla Prof. Monoriti ho avuto la foto dello zio.
[4] Il Panuccio è stato arrestato nel 1933 e ha fatto la trafila tra vari posti di confino: Favignana, Lampedusa, Ustica. A Favignana gli sono stati sequestrati quattro quaderni di carattere utopico più che di vita vissuta. Qualche frase conseguenziale alla presa di Addis Abeba:
“Cosa ci riguarda di quello che fa la patria nostra! Per noi non fu madre, ma matrigna, perché nulla abbiamo di comune … che tutta l’Abissinia sia sottoposta all’Italia, a me non riguarda un fico secco …
È inutile il socialismo, il comunismo ed altri cataplasmi del genere …
… la bestia nera mi ha in potere da ben trenta anni, trenta anni di sofferenze e di lotte per un principio di santa umanità per essere ribelle a questa società di sudici ladri di sporcaccioni ritinti”.

Oscar Greco, Dizionario biografico online degli anarchici italiani, alla voce.
[5] Ho avuto copia in visione dalla buonanima di un amico, ma, una volta letto, mi sono talmente schifato che ho evitato di farne copia. Non sono cose da tramandare o tenere in casa dato che riguardano l’onorabilità delle famiglie. Il titolo dell’opuscolo stampato nel 1929 era “L’orrendo assassinio del prof. Vincenzo Scarcella, seniore della M. V. S. N., avvenuto in Oppido il 25 marzo 1928. La causa del delitto spiegata attraverso documenti inoppugnabili”.
Purtroppo, se, come a fil di logica, vai a riscontrare nelle documentazioni ufficiali, queste ti mettono subito fuori strada. Lo Scarcella nel registro dei morti del Comune è registrato nella parte riservata a quanti sono deceduti in modo naturale. Infatti, vi si afferma ch’egli, nato il 26-12-1891 è deceduto nella casa di via Oratorio. E stoppete! Vai a fidarti dell’ufficialità! Lo stesso è accaduto anche per il bambino Sprovara, ma nel caso qualcosa riesce a trapelare all’occhio di un attento ricercatore.
[6] Centro Studi Piero Gobetti, Lettere di Vito Giuseppe Galati, fasc. 411; Centro Studi Piero Gobetti Torino, a cura di Silvana Barbalato, Franco Angeli, Torino 2010, passim.

mercoledì 21 febbraio 2024

ARMEL FAKEYE E “UNA DONNA SCONOSCIUTA” DI NOME AFRICA O FORSE CALABRIA ( di Bruno Demasi)

    Ho conosciuto Armel Fakeye per un caso: era giunto dal suo convento francescano di Roma fino  a Siderno agli inizi di ottobre dell’anno scorso per accompagnare (soprattutto con la sua preghiera) un altro frate cappuccino come lui, e originario dal Benin come lui, che era stato invitato a tenere un brevissimo ciclo di conferenze carismatiche e di evangelizzazione insieme ad un altro relatore proveniente dalla Città del Vaticano. Quest’ultimo però si era ammalato e gli organizzatori pensarono di sostituirlo proprio con Armel, che in quei tre giorni, anche se colto alla sprovvista, diede vita nel grande salone del convegno a qualcosa di straordinario che stupì tutti. Era un predicatore eccezionale ed umilissimo, un artista della fede concreta, viva ed efficace , ma anche della parola minuscola e maiuscola: la parola cioè come strumento di comunicazione e di emozione, la Parola, come Scrittura, come espressione biblica, della quale si palesava davvero appassionato cultore e maestro. Un uomo dai carismi eccezionali ed eccezionalmente sincero, capace di trasportarti in un universo di suoni , di colori, di immagini che hanno segnato indelebilmente la sua vita di ragazzo cresciuto nella semplicità con una sola ricchezza rigogliosa  insieme alla vegetazione del Benin:  il sogno mai realizzato del riscatto della sua splendida terra. 


   Dopo alcuni mesi capitai di nuovo a Siderno, dove appresi che Armel avrebbe contribuito ad animare un nuovo momento di evangelizzazione insieme ad altre figure giunte da varie regioni d’Italia. Stavolta era seguito personalmente da un piccolo gruppo di suoi amici italiani provenienti dal Veneto, dall’Emilia e dal Friuli che lo conoscevano da qualche anno ed avevano pensato bene di organizzare a loro spese un piccolo pullman con il quale lo avevano prelevato a Roma e accompagnato in Calabria. Neanche stavolta le aspettative andarono deluse: i suoi insegnamenti e le sue preghiere scossero ancora una volta tutti per la loro semplicità, ma soprattutto per i frutti palpabili che ne manifestavano la profonda e concreta efficacia.

   Un aspetto inedito della sua predicazione mi colpì attraverso le confidenze che nelle pause di lavoro raccolsi dalle donne e dagli uomini che lo avevano accompagnato fin lì: Armel aveva tantissimi carismi da spendere, ma era anche un poeta! Un africano prima convertito alla fede in Cristo, poi consacrato frate cappuccino, quindi ordinato sacerdote, infine strappato alla sua terra per completare i suoi studi a Roma, sempre in giro nelle poche ore libere a predicare e incarnare la parola di Dio, sempre pronto nei pochi minuti liberi a scrivere su poveri fogli raccattati dove capita i suoi versi di accorato rimpianto per la donna conosciuta e amata prima di partire, l’immagine della sua terra violata dalla sete di dominio degli sfruttatori e costretta poi a veder fuggire quasi tutti i suoi figli… 

     Ho parlato con Armel, soprattutto per capire cosa avesse trascinato insieme a lui fino alle propaggini dell’Aspromonte quella gente che lo accompagnava. Ho discusso con Armel soprattutto di fede, ma la sua semplicità disarmante ha fatto subito venir meno in me ogni impeto dubbioso di discussione. Ho chiesto almeno una delle sue poesie ad Armel per capire quale sovrumana e tenera nostalgia lo legasse ancora alla propria terra lontana e gliene facesse sentire gli echi di sofferenza proprio nella nostra Calabria, ed egli me l’ha data:

DONNA SCONOSCIUTA

Una volta, avresti sorvolato
Colline e montagne di tutte le storie
Per incidere la storia delle tue avventure
Un tempo, avresti prestato la tua voce
Al cantante dei tuoi sogni
Per cantare l’inno delle tue imprese


Ma il mondo visto da te
Esprimeva mille pensieri
La natura scrutata
Dipingeva mille facce
E l’amore vissuto
Designava solo uno
Il volto della Donna Sconosciuta


La Donna dei miei desideri
La Donna dei miei sogni
La Donna delle mie speranze
La Donna delle mie emozioni
La Donna della mia giovinezza


Tutta bella, tutta radiosa
Tutta candida, tutta splendida
Tutta sublime, tutta adorabile
Tutta aggraziata, tutta nobile
Tutta pura, tutta luminosa


  
  Donna Africa che incarna nei versi di Armel tutti i sogni di una fanciullezza e di una giovinezza che non conoscono sete di dominio, ma vengono presto soffocate dai dominatori senza scrupoli. La breve stagione di una vita che non concepisce altro se non la purezza e la bellezza di un viso, la libertà di un continente, il progetto di un futuro sognato a lungo e mai realizzato.

Una volta, avresti scambiato
A scapito della tua verginità
La virtù dell’ospitalità
Un tempo, avresti sacrificato
Il velo dell’innocenza
Per cancellare la vergogna dell’ignoranza

All’alba del sole della tua libertà
Sull’antico letto dell’umanità
Tutto quello che avevi era il velo del ridicolo e del disprezzo
Per coprire l’ultima scintilla della tua dignità
Che il cielo si era degnato di concederti

Nelle profondità della foresta dell’Universo
In un angoletto c’era uno spiraglio
Quella di Lucerne accese
Si intravedeva una silhouette, quella di una donna
La donna sconosciuta
Senza i suoi gioielli
I cui piedi e le cui mani
Trascinavano le vestigie di dolore e di sfruttamento


  
     Una donna, una terra antica vergini entrambe di ogni furbizia, ricche di ogni possibile innocenza, che non concepiscono vergogna in quella che i paesi “civili” chiamano ignoranza e non povertà e nemmeno sfruttamento.
    Una donna, una terra che, dopo aver subito ben altre vergogne e sovrumane violenze, trascina ancora con dignità e coraggio ferite e ricordi dolorosi  di violenza senza fine, di fuga dai villaggi, di esodo  attraverso i deserti.

Seduto sulla riva del fiume della speranza
Meditando, al bordo del tempo
Errando con lacrime agli occhi
Cercavo disperatamente tale Donna
Una volta, vestita in tessuti d’oro
Il cui corpo era il riflesso
Di una terra ricchissima

Andavo in giro alla ricerca
Di questa perla sepolta
Sotto le macerie della colonizzazione
Cercavo
Quel giglio che sbocciava di nuovo
Nei campi con colori colorati


    Una terra ricchissima depredata da una colonizzazione impietosa che ancora divora, che ancora distrugge che  tenta persino di soffocare i fiori che , malgrado tutto, hanno il coraggio di sbocciare ancora  sotto le macerie.

Non vedo l’ora di riscoprirti
Tu sei l’illustre poesia
Della quale il mio cuore si ricorderà incessantemente
Tu sei l’ultima melodia
Che per tutta l’eternità
Vorrà canticchiare la mia anima

Donna Sconosciuta
Lontana da me
La tua casa m’è molto vicina
La tua storia, la tua vita, le tue lacrime
Sono storia mia, vita mia e la mia preghiera
Donna Sconosciuta, sarà sempre la mia Africa
E un giorno l’Infinito ti conoscerà.


 
    E' l’Africa abbandonata e violata, la donna sconosciuta amata e benedetta, la terra senza storia dalle mille storie, ma è anche la Calabria che ha  avuto per tanti secoli lo stesso destino dell’Africa: dal depauperamento delle sue risorse  all'esodo delle sue braccia migliori. E’ la terra dei padri e di nessuno che diventa in questi poveri e grandissimi versi preghiera che si fa carne. Quella preghiera fruttuosa e speciale in cui è maestro Padre Armel.
Grazie!
              Bruno Demasi 

giovedì 15 febbraio 2024

O’ TEMPU DI’ CANONICI ‘I LIGNU (IV parte) – Vita sociale mamertina (di Rocco Liberti)

    Dopo le riuscitissime dodici puntate di “Mémoires mamertine”, qui via via pubblicate e successivamente riunite in un agile e pregiato volume col medesimo titolo, già presentato e offerto da Rocco Liberti al vasto pubblico di amici e di estimatori il 9 dicembre scorso in occasione del suo novantesimo compleanno, l’Autore completa adesso con questa pagina una breve antologia in quattro parti di cronache paesane di prima mano. Sono cronache da lui direttamente registrate, dunque doppiamente preziose perché poi narrate con quel rigore storico al quale egli non rinuncia mai in tutte le sue ormai sterminate pubblicazioni. Stavolta è di scena l’arrivo anche a Oppido, e nemmeno tanto in ritardo rispetto ad altri centri maggiori,  di una ventata di progresso che veniva a scompaginare inesorabilmente quell’ingenuo modo di vivere ancorato al passato che dà il titolo a questa quadrilogia: il tempo dei “canonici ‘i lignu” quando tutto sembrava inesorabilmente fermo e statico. Ecco l’apparire della radio e poi del primo televisore e delle automobili, emblemi di un modo di vivere nuovo che per un certo tempo però convive con le consuetudini sociali del passato ancora tenaci: dalla presenza del banditore all’uso dei quadrupedi nei trasporti e negli spostamenti. Ne nascono quadretti originalissimi improntati ad un elevato livello di socializzazione che si sviluppa per le strade e le piazze del paese, ma  che presto lascerà il posto a quell’ottuso individualismo che adesso, insieme al pauroso calo demografico, è il male peggiore dei nostri paesi e sul quale l’Autore pone con grande rammarico il suo accento.

    Un ringraziamento vivissimo per questa ennesima pagina struggente di cronache oppidesi e l’auspicio che questo web-log possa ancora a lungo onorarsi di ospitare altre preziose pagine di Rocco Liberti.
(Bruno Demasi)

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    E torniamo al senatore Cassiani e al suo telefono di notte! Come sono cambiati i tempi! Oggi, dovunque ci troviamo, non sentiamo altro che squilli e non ci meravigliamo più di tanto, anzi ne vogliamo sempre di più. Tramandava mia madre che negli anni venti, quando l’ing. Ferraris ha portato in Oppido il primo apparecchio radio la gente vi si riversava in massa e la voce corrente piena di stupore si offriva: Cummari, ‘mu si dici e ‘mu si cunta! Pàrranu a Roma e si senti a Oppitu! A breve distanza di tempo un secondo l’ha fatto arrivare il Bar Liberti e a poco a poco varie famiglie se ne sono via via dotate. Ma non tantissime. Per la gran parte contadini, gli abitanti pervenivano a casa a sera dopo un giornata di indefesso lavoro e avevano altro da fare che ascoltare la nuova diavoleria. Peraltro, non c’era nemmeno la vocazione a proposito. Di radio si sono provvisti via via i circoli e gli artigiani che tenevano bottega. Ricordo soprattutto il sarto Pìstoni che negli assolati pomeriggi la faceva cantare a tutto spiano con delizia, non sappiamo quanto, dei vicini. Ho ancora nella testa quell’ossessionante ritornello di Zazà zazà, cumpagnia mia. A un bel momento c’è stato il siparietto per gli alunni delle scuole e i maestri come Meligrana ci esortavano a seguire l’apposita trasmissione nelle ore stabilite per poi riferire in apposito compito scritto. Chi non aveva alcun apparecchio si portava a casa di chi n’era dotato e si qualificava quindi ennesima occasione di socializzazione.

    Diversamente è avvenuto con la televisione, ma i tempi erano ormai anni luce lontani da quelli del primo novecento. Un iniziale televisore è stato offerto alla visione dal rivenditore Graziano Gatto, originario di Varapodio. A sera diventava un vero appuntamento soffermarci sulla strada di fronte e fissare incantati quella scatola luminosa che irretiva l’attenzione. Poco tempo dopo vi si è aggiunto altro esercente, Francesco Liberti e pian piano una sparuta schiera di quanti si potevano permettere di spendere soldi per un simile svago. Molto frequentata la sede della POA. Ch’è successo di conseguenza? Che in tanti, alla sera, ci portavamo da parenti od amici onde poterne usufruire, soprattutto al giovedì e al sabato. Era il tempo del Musichiere e di Lascia o Raddoppia, fortunate e calamitanti trasmissioni. Fin qui niente di male! Si usciva dalle case e si aveva modo di relazionare con amici e conoscenti. Tutto è cambiato con una proliferazione senza precedenti. Le persone sono pervenute a guardare la televisione a casa propria e addio alla vita in comune del passato. Chi s’è visto s’è visto. Ognuno si è rinserrato nel suo guscio e ha fatto a meno di una vita sociale.

    Dopo la scuola al mattino, finito di pranzare, in tanti ragazzi ci si riversava a frotte quasi a un segnale e si giocava distinti in gruppi. A predominare era soprattutto il gioco con i soldi, se c’erano, diversamente con i bottoni strappandoli addirittura a camicie e giacche. Tra i giochi di tal genere predominavano ‘a singa o’ quatrettu o a bàttiri. Nel primo caso tutto consisteva nel tracciare per terra un tracciato dentro cui far arrivare la moneta o il bottone. Nell’altro uno lanciava la moneta sul muro, che subito ricadeva a una certa distanza. Un competitore agiva ugualmente cercando poi con la battuta di far ricadere la sua moneta il più possibile vicino a quella già a terra. Secondo una misura realizzata con un rametto inizialmente stabilita tra l’una e l’altra il secondo otteneva la palma della vittoria e si prendeva lo spicciolo dell’antagonista. In successione l’azione si alternava. A lungo sono rimaste su una parete tinteggiata della casa di mia nonna le miriadi d’impronte di monete a varia misura prodotte da un intenso batti e ribatti giornaliero. Meno male che una buona cerchia di giovincelli veniva avviata dai genitori a un doposcuola privato o al mastro. In tanti difatti frequentavano le botteghe degli artigiani, il sarto, il falegname, il forgiaro, dove si comportavano, come si dice, con due piedi in una staffa. Il mastro sostituiva in pieno i genitori ed era temuto più che il genitore stesso. Gli allievi imparavano certamente il mestiere, ma era loro demandato anche qualche servizietto extra a pro della maìstra come andare ad attingere l’acqua alla fontana, acquistare qualcosa in un negozio, recare un’imbasciata. Sulla piazzetta si affacciavano i maistri Barca, maestre di telaio che contemporaneamente seguivano bambini in età scolare.

   Nei nostri paesi ‘u vandiaturi non poteva proprio mancare. Senza di lui come fare per essere edotti di ciò che necessitava o di quanto avveniva nella comunità! Erede degli antichi araldi, a lui si poneva carico di tutto e per le vie di tanto in tanto, in genere in sul far della sera, lo sentivi urlare alternativamente quasi cantilenando. Era senzaltro il messaggero del Comune, ma all’occorrenza se ne servivano un po’ tutti. Se un tale smarriva qualche oggetto lui ne informava ai quattro venti, così se in un certo vicolo era stata appesa la frasca, vistoso segno atto a indicare che vi era stato aperto un locale provvisorio per la vendita di vino casaloro, ma pure per tantissimi altri motivi. Instancabile, toccava i punti più nevralgici offerendo il suo messaggio. Ma che succedeva? La gente non sempre era fuori ad ascoltare o non lo comprendeva appieno, per cui l’un l’altro a domandarsi cosa avesse annunciato (cummari, u sentistivu ‘u bandu, chi diciva?). Per lo smarrimento di un oggetto l’espressione era univoca e salmodiante: Cu’ vitti na gaìna (na chiavi, na tovagghia, o altre cose), ‘u ma porta ndi mia ca nci dugnu ‘u cumprimentu. Per avvisare per vino nuovo: arretu a’ vineja ‘i cicca mìsiru ‘a frasca, si vindi vinu novu o… bbonu. Scomparso poco prima degli a. 40 u ‘zzì Leu, netturbino, il pondo è toccato a un collega, Peppi C... Non so che dizione esprimesse il primo, ma il secondo era un vero disastro. Era incomprensibile ai più tanto che alcuni lo chiamavano ‘u Giapponi. Di tanto in tanto l’impegno spettava a Violinu, un tale allampanato e poco fermo sulle gambe finito malamente sotto un camion o ad altro soggetto provvisorio. L’ultimo banditore, Angiolino, è piovuto a Oppido dalla Francia. Finalmente uno che parlava in italiano e si faceva ben comprendere. Un suo handicap: non conosceva le lire, ma i franchi e quindi si esprimeva come di sua abitudine. Da principio la gente non afferrava, ma alla fine ci ha fatto il classico callo.

   A Oppido c’era solo un bar e si apriva sulla piazza principale, il bar Liberti poi Sella. Più tardi dopo la guerra ne ha avviato altro Giocolano di Gioia Tauro sul corso Vittorio Emanuele II. Oltre che in questi posti c’era opportunità d’incontrarsi in altri più accorsati, nei quali le persone affluivano maggiormente, il circolo cosiddetto dei Signori ovvero Casino di Società e anche Circolo Unione, il circolo operaio e il circolo dei cacciatori, che si aprivano nella stessa piazza e offrivano ai soci di scordare per qualche ora le pene quotidiane. Di norma si giocava a carte, ma almeno nei primi due non mancava un biliardo. Peraltro, si formavano combriccole e si discuteva del più e del meno, talvolta anche in maniera agitata, specie quando la passione politica o sportiva perveniva all’acme. Animatissime le discussioni sportive tra i fratelli Pandolfini, Maisano, Rocco De Zerbi e altri che stravedevano per Coppi e quelli che all’opposto parteggiavano per Bartali, come pure tra juventini e torinisti. Duravano ore e attiravano un mare di curiosi. Non parliamo se giocava la Mamerto, la squadra locale. Vi si radunava con gran tifo una massa di cittadini. Sani passatempi ormai bell’e scomparsi! Il circolo operaio è il solo a sopravvivere anche se l’afflusso rasenta ormai il minimo.

  E i non associati ai circoli come trascorrevano le ore libere? Si evidenziavano altri luoghi di ritrovo. Quello dell’Associazione Cattolica accoglieva moltissimi giovani e ragazzi e, oltre alle adunanze di rito, si giocava al biliardo, al ping pong, alla dama, agli scacchi, passatempi sani. E gli altri meno interessati cosa facevano? Per loro, operai e lavoranti in genere, restavano le cantine. Ce n’erano tante, forse troppe, ma le più bazzicate erano quelle di Suriceju così detto per la statura minuta e di Gajuzzu, siffattamente apostrofato storpiandone il cognome, ma anche lui tutt’altro che un gigante. Vi si recavano nel tardo pomeriggio o in serata operai che avevano finito il lavoro quotidiano od anche nullafacenti. Tra chiacchiere e confidenze smaltivano la stanchezza o altre pene sorbendo un bicchiere di buon vino accompagnato da ceci abbrustoliti, fave, castagne secche le note pastije e lupini. Non c’era di sicuro allora roba sofisticata! Alla seconda accedeva una popolazione di ceto inferiore, per cui si poneva nel mirino tanto ch’è rimasto il detto appiccicato in varie occasioni a luoghi poco consoni: pari ‘a cantina ‘i Gajuzzu.

    In passato le auto in Oppido si contavano sulle dita di una sola mano. Erano quelle in dotazione ad autisti di professione, che le facevano uscire solo in occasione di viaggi o di accompagnamenti in chiesa per un matrimonio, un battesimo e altre cerimonie similari (tra i tassisti ricordo ‘u Milordu, Barletta, Liberti, Sereno, Creazzo, ‘u Mìttaru). Ma non è che i pericoli non si rilevassero analogamente. Erano di tutt’altra specie. Al posto delle auto c’erano i cavalli, i muli e gli asini. Spesso anche loro si qualificavano una calamità pubblica. Quanti muli e asini scapulati non hanno rappresentato una grave minaccia per la gente che se ne stava tranquilla sul marciapiede o camminava spensieratamente per strada! Quando riuscivano a staccarsi dal giogo erano guai e bisognava starsene dentro sigillati fino a che tutto non fosse rientrato.

 Rammento uno strano episodio verificatosi nell’immediato dopoguerra. Era una discreta serata e la gente si era portata in cattedrale a seguire una solenne cerimonia. Nel mentre dentro e fuori era tutto tranquillo, un mulo imbizzarrito con tutto il carretto a cui era legato improvvisamente si è dipartito dalla piazza e ha attraversato a gran velocità tutto il corso senza far danni. Immaginarsi il timore della gente! Bene. Ha proseguito a galoppo persistendo in linea retta. Arrivato però accosto all’ufficio postale di Tresilico ha invertito la rotta eseguendo una subita deviazione a sinistra e abbattendosi sul titolare dello stesso che con la figlia era appena uscito per fare quattro passi. Quindi, si è calmato ed è stato subito bloccato dal padrone che di corsa gli andava dietro per come possibile. Ma, ormai il guaio si era verificato e per il povero direttore C… non c’è stato nulla da fare. Sull’episodio la gente naturalmente ha detto la sua almanaccando ipotesi anche di natura misteriosa perché il malcapitato era lontano dalla chiesa. Nella casualità si vuole vedere la mano di un preciso punitore se non del destino. Ci si domandava: perché l’animale ha percorso quasi un chilometro senza dirottare e poi ha deviato improvvisamente quasi portatovi d’istinto per fermarsi solo dopo aver combinato il pasticcio? La gente, non riuscendo a spiegarsi il perché di particolari avvenimenti da che mondo è mondo ricorre facilmente a giustificazioni che non stanno né in cielo né in terra.

Rocco Liberti