sabato 10 febbraio 2024

LA FARSA CARNEVALESCA CALABRESE COME METAFORA DI LIBERTA’ (di Giovanni Russo)

     A differenza della fascia ionica  della provincia di Reggio Calabria , quella tirrenica non è mai assurta ai fasti di una letteratura popolare e carnevalesca. A “Retumarina” infatti la poesia contadina, e in particolare le rime carnascialesche, che rappresentano in modo mirabile l’animus popolare, annovera grandi letterati, fra i quali amo ricordare Micu Pelle di Antonimina, Giuseppe Coniglio di Pazzano, Pasquale Cavallaro di Caulonia e soprattutto Salvatore Filocamo e Franco Blefari. Parimenti abbondante e importante la critica letteraria che ha raccolto lo spirito dei versi di questi e altri poeti quasi sconosciuti per consegnarlo ai posteri.Tra tutti doveroso ricordare Giuseppe Falcone, Gianni Carteri, Walter Pedullà, per non parlare di Mario La Cava e dello stesso Saverio Strati, acuto osservatore e conservatore dì ogni serio tentativo letterario popolare.
    Sulla fascia tirrenica invece, se escludiamo il monumentale lavoro storiografico e critico di Antonio Piromalli che ha tracciato una fondamentale rassegna della letteratura calabrese nel suo insieme, ed alcune belle pagine bio-bibliografiche di alcuni studiosi di storia locale, non conosciamo molti autori che nello specifico si siano occupati della produzione letteraria orale e scritta nata dal popolo e rivolta al popolo, come le importantissime composizioni carnevalesche di strada, la cui origine si perde nella notte dei tempi e che fino a pochissimi decenni fa facevano bella mostra di sé nei crocicchi dei paesi e si tramandavano di generazione in generazione nella memoria della gente.Una lacuna terribile!
    Ma c’è uno studioso polistenese che tra i suoi tanti lavori di scavo e di ricerca appassionata di storia, arte e letteratura, ha pensato bene di immortalare in una originale ricerca la tradizione carnevalesca non solo del suo paese , ma dell’intera fascia tirrenica reggina che può ampiamente riconoscersi nelle belle pagine di questo studio:
“Il carnevale e la maschera a Polistena”. Si tratta di Giovanni Russo, fondatore e cultore appassionato della biblioteca di Polistena, oggi studioso quasi a tempo pieno delle nostre memorie locali, che non sono mai fini a se stesse, ma assurgono a paradigmi del nostro passato e del grande travaglio che sta attraversando la cultura calabrese nel suo insieme.
    Giovanni Russo ha così consegnato ai posteri un lavoro che mi sembra emblematico di quanta cultura e tradizione siano state volutamente smarrite e fagocitate da quella che Lombardi Satriani definiva “cultura dominante”, ieri riferibile al prodotto interessato di una classe sociale al potere, oggi all’incuria, quando non all’ignoranza, di una classe di amministratori e governanti sempre meno qualificata.
    In questa pagina, che mi sembra emblematica della cultura calabrese intera , e non solo in tema di poesia carnascialesca, l’Autore oltre a fare un breve e documentato excursus storico sulle composizioni e sugli autori di composizioni carnascialesche locali, fissa l’attenzione sull’animo popolare che non aveva altro modo di esprimersi se non nella libertà del tempo che precede la Quaresima, e attraverso la tradizione del proprio paese traccia una sintesi globale nella quale possiamo riconoscerci tutti. Ne viene fuori un’altra Calabria che le nuove generazioni forse non sospettano nemmeno sia esistita e che pure ha dato alla nostra cultura una dignità e una fisionomia incredibilmente vive che vale la pena riassaggiare mediante questa analisi del Carnevale nostrano come metafora di libertà e non solo tempo di becera allegria
(Bruno Demasi)

_____________ 

    Il Carnevale rappresenta da sempre una festa di popolo, che si contrappone alle festività religiose ufficiali. E’ il tempo destinato ai sollazzi e agli spettacoli popolari di ogni specie. È un momento in cui vige la più assoluta libertà e tutto diviene lecito: ogni gerarchia decade per lasciare spazio alle maschere, al riso, allo scherzo. Lo stesso mascherarsi rappresenta un modo per uscire dal quotidiano, per disfarsi del proprio ruolo sociale: cioè per negare sé stessi per divenire altro. Il Carnevale del 1855, per il sacerdote polistenese Vincenzo Rovere, che dovette assistere meravigliato ad un mutamento di costumi, di comportamenti, di fogge, e di modi di mangiare, era diventato, per dirla con il Prof. Antonio Piromalli, segno di follia e di guasto.

   Appartenente alla ritualità connessa al Carnevale, la “maschera” o meglio quel pezzo di autentico teatro popolare, rappresenta uno dei punti fondamentali della cultura folkloristica locale, una sorta di commedia dell'arte che impegna improvvisate compagnie locali in recite di vere e proprie "farse" singolari e allegre ma anche satiriche e pungenti. E' una forma di teatro di strada che affonda le sue radici nel medioevo, agli albori della lingua italiana e sul modello delle sacre rappresentazioni. Infatti, era allora un teatro con delle caratteristiche proprie e peculiari perché era composto da gruppi di improvvisati attori (per lo più contadini, artigiani) che a dorso di some giravano le fiere e i mercati raffigurando lo sberleffo più volgare e pure le angherie più abiette che la povera gente subiva dai potenti. Era l'occasione, insomma, perché la gente potesse finalmente aggirare i pericoli della forca e dire la sua, senza impedimenti e soprattutto senza rischi, aiutata in questo dalla maschera e dall'abbigliamento, e soprattutto dal fatto che in questo periodo tutto per lo più fosse lecito. Qualche riferimento al modo di celebrare il Carnevale nell’antica Polistena lo si evince, anche se in maniera non ben precisata, attraverso qualche superstite documento della Famiglia Milano, Signori e Feudatari del luogo. Nel loro teatro, eretto nel palazzo di corte, non mancavano in occasione del Carnevale, musiche, balli e recite di commedie per le quali vi era la partecipazione diretta del Principe.

     Lasciando queste brevi e stimolanti attestazioni seisettecentesche, la documentazione ottocentesca da noi rintracciata, ha caratteristiche varie. La moda del 1855 a Polistena diventa “Carnevale”, cioè segno di follia, leggendo la poesia del Sac. Vincenzo Rovere: “Lu Carnalevari di lu 1855”. “La moda - così il prof. AntonioPiromalli - componimento vivace per la mobilità delleosservazioni sulle cose, sull’abbigliamento. Il Rovere assiste meravigliato ad un mutamento di costumi, di comportamenti, di fogge, di modi di mangiare. Era un elemento di progresso che giungeva nell’immobilità del Reame e in ritardo rispetto agli altri territori ma la visione del Rovere è moralistica, non si collega con la realtà dei tempi. La forza di opposizione è, in questo caso,di retroguardia….”

   Ma finalmente, per la fine dell’Ottocento, viene fuori un pezzo della più autentica forma di teatro popolare polistenese, raccolto e pubblicato nel 1888 da Apollo Lumini ne: Le farse di Carnevale in Calabria e Sicilia (Nicastro, 1988, alle pp. 37-39). “Un contrasto drammatico – così il Lumini – può dirsi una “Farsa da dirsi in questi giorni di Carnevale: Due mendichi, cioè marito e moglie”, sciocchezza in sestine e in ottave, senza capo e nè coda che io ebbi da Polistena, ma che l’autore, mezzo analfabeta pare tenere in gran conto perché in fine dà consigli agli attori: Non vi manca modo ma garbatamente dimostratela che bene vi riuscirà. Il marito sciocco e brutto lamentandosi della moglie più brutta di lui, giunge con lei ad un palazzo e chiede la carità al padrone, ma invano; e la moglie dice: 

…ndindi avimu ajiri
ca chisti genti non fannu caritati,
Hannu l’arma e lu cori cu li pili
E vorrenu mu ndi vidinu abbrusciati
Vasciu a lu mpernu chini di suspiri
e di Caronti spruppati e mangiati…
 

- il marito sciocco vanta la sua furberia e sapienza citando, senza dir quali sieno, sentenze di San Crispino e il Vangelo di San Giovanni; ed enumerando al pubblico le bruttezze della donna e sue:

…Non dicu poi pe’ mia chi m’avant’eu,
portu paura a cù mi guarda puru
A la figura paru Maccabeu,
Pe lu sapiri cu nuju affiguru,


Ndaju la testa comu Melibeu,
Ma però dura cchiù di chistu muru
chi si mi sentarrissivu parrari
Paru nu ciucciu quando vò ragghiari.

- E la moglie, mutando metro e canzonandolo...:

Si sciogghi chija lingua
mi pari Salamuni
Non chiju lu saputu
ma lu cchiù stupiduni.

Mi pari chija cani
chi no muzzica,ma baja
Intantu iju si teni
Pe n’angialu di staija
.

La farsa finisce con un’esortazione morale”.

    Secondo noi questa farsa potrebbe attribuirsi al poeta dialettale polistenese Giovanni La Camera, autore, qualche anno dopo, di una raccolta di poesie che hanno molto in comune con la nostra farsa ... A partire dal 1915, troviamo anche testimonianze documentarie di recite che si effettuavano nell’orfanotrofio femminile, sorto dopo il terremoto del1908... Il Carnevale, quindi, non solo come occasione di sollazzi e giochi di ogni specie, ma anche come momento di divertimento intellettuale. E Polistena non era avulsa da una certa realtà culturale e teatrale che aveva origini molto remote... I testi, specie quelli del dopoguerra, esorbitando dal contesto della battuta facile, strappa risate, proponevano una satira tagliente per l’ambiente politico. Una tradizione, quindi, che punta al sorriso, al sarcasmo e all’ironia, per denunciare, specie in tempi poco facili, soprusi, fame, miseria ed angherie che il popolo soffriva, a differenza della classe abbiente che, come abbiamo potuto notare relativamente al 1906, navigava, per contro, nei lussi.

    Le maschere ufficiali o meglio legali, cioè soggette ad una approvazione preventiva da parte della questura e degli organi autorevoli locali, avvenivano su carri ben addobbati e trainati da buoi che in alcuni stabiliti quartieri tradizionali sostavano per dar modo agli attori improvvisati di poter declamare, ognuno nei propri limiti artistici, le parti loro assegnate. In detti punti o quartieri vi era l’usanza di innalzare l’albero della cuccagna, tradizione ben documentata già nell’arco del Settecento, consistente in delle pertiche unte di grasso alla cui cima vi erano collocati prodotti alimentari. Colui il quale, dopo vari tentativi, riusciva a raggiungerli se ne impossessava, offrendo alla propria famiglia l’occasione di un buon Carnevale...

    Il Novecento offre, come dicevamo, la possibilità di documentare cronologicamente le varie maschere recitate sui carri o casa per casa da giovani mascherati. Queste ultime si integravano con le maschere ufficiali. Resta ancora oggi una significativa traccia di tale usanza, nell’espressione indigena: “Ricivìti màscari?”. A questa richiesta, solo alcune famiglie provate da lutti o altro rispondevano negativamente, mentre tutte le altre accettavano che le recite, in dialetto, fossero rappresentate da questi attori improvvisati ed ambulanti che, in cambio, ricevevano carne di maiale, salsicce, polpette ed abbondante vino.Questo era possibile, sempre nei limiti delle facoltà familiari, mentre anche i poveri non rinunciavano a questa evasione annuale se è vera quell’altra espressione dialettale: “Di l’ardaloru cu non ndavi carni simpigna u figghiolu”...

   Qualche anno fa sopra ad uno dei carri allegorici, lo scenario presentava una sala operatoria, in mezzo alla quale giaceva, visto da tutti, un enorme fantoccio raffigurante Carnevale. Intorno medici, infermieri di ambo i sessi, erano intenti a salvare Carnevale, finito in sala operatoria in seguito ad un’abbondante scorpacciata di salsicce ecc.; in un canto la moglie disperata lanciava improperii e maledizioni contro il marito che per soddisfare la sua ingordigia consumava tutte le sostanze familiari in leccornie e lasciava sul lastrico i figli, i quali, accanto alla mamma ridevano a crepapelle nel vedere uscire dal ventre del padre padelle, bicchieri, salsicce. A questo punto la moglie Quaresima, così apostrofa il marito, senza alcun riguardo alle sue precarie condizioni di salute:

Tingiutu ti consasti
Pè festi e lavuranti
Undi trovu lu sapuni
Mu ti lavu li mutanti ?

Stasira lu me lettu
Vogghju mu ndi spartimu
Pecchì sta puzza i vinu
M’arriva ntra lu pettu.

La doti chi portai
Tutta la cunsumasti
La famigghia rovinasti
No’ sacciu c'aiu fari. 

 
    Alle insinuazioni della moglie, risponde Carnevale che ancora si dibatte tra la vita e la morte, sul letto operatorio: 

Smalidicu lu momentu 

Di quandu ti spusai;
era megghju ntro conventu
mu ciangiu li mè guai.

Fimmani comu a ttia
La terra nò ndi fici
Malidittu sempri sia
Cu mi misi stu carici.

Cu tuttu ca jeu moru
No' provi cumpassioni
E fai sulu 'nu coru
di chianti e mprecazioni. 

Giovanni Russo