sabato 30 marzo 2024

LA PASQUA DIMENTICATA DELLA CALABRIA BIZANTINA ( di Bruno Demasi)


   Non è una favola, anche se ne ha la suggestione: la grande tradizione pasquale bizantina ha  impregnato di sé tante delle nostre contrade calabresi permeandole di struggenti rievocazioni della Passione e della Resurrezione e riempiendole di contenuti culturali che hanno lasciato il segno. Erano liturgie sontuose, fisse nel tempo, mai improvvisate, che hanno risuonato a lungo nelle chiese e soprattutto nei monasteri della Calabria bizantina nei quali i riti pasquali raggiungevano il massimo del loro splendore e del loro pathos. Per averne una sia pur pallida idea oggi avremmo qualche possibilità recandoci nel monastero di S.Elia e Filarete di Seminara o, forse di più, nel monastero di San Giovanni il Mietìtore (Theristis) a Bivongi dove ancora vivono i monaci aghioriti che l’hanno fondato provenendo direttamente dal Monte Athos. Quello di San Giovanni a Bivongi è un monastero unico in Calabria, anzi in Italia, che conserva non solo nella tradizione e nella dottrina, ma persino nelle sfumature e nelle suggestioni liturgiche, tutto ciò che è stato il rito greco nelle diocesi bizantine, come Oppido e Reggio, e che tanta civiltà ha fecondato e cullato in questa terra. 

    Come oggi per noi , anche ieri la sontuosa Pasqua bizantina rappresentava l’acme dell’intero percorso liturgico annuale: “la” festa, madre di tutte le altre feste dal momento che l’intero anno liturgico nel mondo greco è ed era completamente proiettato verso la Pasqua e contemporaneamente da questa festa traeva il suo inizio ciclico. La grande vittoria di Cristo sulla morte per i cristiani d’Oriente ieri, come oggi, era ed è motivo concreto di grandissima gioia per tutti, non solo una ricorrenza, non solo qualcosa di simbolico. Addirittura le settimane di Quaresima avevano ed hanno inizio il lunedi, per poi cambiare repentinamente ed iniziare dalla domenica , a partire appunto dalla Pasqua.
                                                           
  E dalla domenica prendevano inizio anche i cicli delle letture bibliche e degli otto toni, cioè gli otto modi musicali che commentavano e sottolineavano le parole della liturgia, dando ad esse un carattere che la semplice lettura non potrebbe mai rendere. Di tutti i modi musicali possibili la Chiesa bizantina, anche in Occidente, ne aveva scelti otto, ancora oggi usati nei monasteri di tradizione orientale, per la loro capacità di sollevare l'animo verso la contemplazione delle realtà celebrate.

    La dirompente gioia pasquale, che riempiva davvero i cuori  semplici di tutta la gente, si rendeva visibile nelle contrade del nostro territorio medinte vari segni e simbologie presenti nelle prescrizioni e nelle tradizioni liturgiche in uso  prima dell’abolizione del rito greco:

· Ogni momento della liturgia pasquale era scandito da testi esclusivamente cantati e proclamati in maniera gioiosa e solenne;

· La gente aspettava la profonda e commovente catechesi di San Giovanni Crisostomo che, senza alcuna improvvisazione,  apriva la festa e veniva letta con tono solenne dal sacerdote e che, sebbene fosse ripetuta ogni anno, era ansiosamente attesa dal popolo perché ribadiva la Misericordia del Signore pronto ad accogliere anche l’ultimo dei poveri nel banchetto della fede con tutte le sue succulente vivande. Una catechesi che ribadiva  che con la Pasqua la morte non doveva essere più temuta poerchè era stata sconfitta per sempre dalla gloria di Cristo;

· Esattamente a mezzanotte iniziava la processione e tutti i fedeli, recando in mano una candela accesa, confezionata con cura e sacrificio con la cera fornita loro dalle api allevate in grande quantità, giravano intorno alla chiesa o al monastero, mentre all’interno venivano accese tutte le candele possibili e si iniziava a bruciare una gran quantità di profumatissimo incenso;

· Si spalancavano le tre porte dell’iconostasi, la parete di legno decorata dallo splendore di mille icone, che divideva la parte sacra riservata ai sacerdoti da quella destinata ai fedeli, e le stesse rimanevano aperte fino al sabato successivo, simboleggiando che la resurrezione di Cristo rende tutti uguali

· L’icona pasquale, elaborata secondi gli stilemi dell’icona originaria conservata in un monastero del Monte Arhos ( rappresentava il Cristo vittorioso sulla morte,  che, porgendogli la mano, riaccoglie nel suo regno di gloria Adamo, mentre Eva rimane ancora in attesa di essere chiamata. Dietro questa scena , ordinati in due gruppi, i giusti dell’ Antico Testamento) veniva esposta la notte di Pasqua e vi restava per quaranta giorni;

· La Resurrezione , culmine della fede, veniva celebrata gioiosamente attraverso la lettura e il canto dello Stichirà, un testo liturgico e poetico risalente al VI secolo nel quale la gioia pasquale veniva cantata monodicamente ribadendo il perdono fraterno e i passaggi più salienti delle vibranti omelie pasquali di Basilio Magno, Gregorio Nazianzeno e Giovanni Crisostomo;

· La celebrazione eucaristica aveva le proprie specifiche  antifone e, nel canto solenne,  il Vangelo veniva proclamato in varie lingue per significare la gioia universale scaturente dalla Resurrezione;

· Il saluto pasquale: Christos anesti! Alitos anesti! che reiterava all’infinito la Resurrezione di Cristo, si udiva sulle bocche di tutti non solo all’interno della chiesa, ma anche come semplice saluto per le strade. 

                                           
           

     Una gioia sovrumana caratterizzava la vita di tutti durante il periodo pasquale e veniva additata ad esempio la Madonna , cui venivano elevati inni dolcissimi e odi solenni che ne celebravano la santa e divina maternità dopo il travaglio penoso della Passione riecheggiato nel celebre canto O gliki mou ear. (O dolce figlio) rimusicato in tempi moderni e portato alla ribalta internazionale dal grande Vangelis e dalla voce sublime di Irene Papas.

sabato 23 marzo 2024

IL MARTIRIO DI UN GIOVANE CATTOLICO OPPIDESE, FRANCESCO MITTICA (di Rocco Liberti)

    Ciò che non commisero i campi di sterminio nazisti negli ultimi anni della II guerra mondiale fu portato a compimento dalle condizioni estreme di vita in cui dovevano sopravvivere i prigionieri  di guerra in Germania e nei paesi limitrofi. Francesco Mittica fu forse uno dei tanti, ma lasciò di sé un’impronta indelebile, distrutto dal freddo e dagli stenti “ di questo lurido mondo”, com’egli scriveva alla sua famiglia, consapevole della sua fine imminente. Aveva dato tutto se stesso ai compagni di prigionia, medico dei corpi straziati dalla fame e dal freddo, medico delle anime che non vedevano altro che buio, mentre egli si nutriva senza dubbi e senza reticenze di quella luce di Bene che mai lo abbandonò, in una dimensione di carità quasi sovrumana. Una dimensione fatta emergere lucidamente da Rocco Liberti in questa stupenda pagina rievocativa, che fa seguito al suo libro sulla figura di questo martire calabrese e cattolico troppo presto dimenticato. Un giovane che aveva dedicato tutta la sua vita alla dimensione cattolica, per la quale si era battuto insieme al vescovo Galati durante i noti fatti che furono da sfondo a un notevole ed inevitabile contrasto tra la Chiesa e Fascio e si era nutrito poi con Mons Peruzzo di quella linfa cristiana vera e senza orpelli che aveva animato anche questo lembo di Calabria e che, insieme alla carità silenziosa, aveva fatto dell’intransigenza il proprio unico decoro. Ancora una volta Rocco Liberti, rievocando con commozione e con pochi tratti magistrali questa figura adamantina e poco conosciuta, riesce a farci dono di esempi altrimenti sepolti che hanno reso , e forse renderanno ancora più grande in tempi migliori, il mondo cattolico.
(Bruno Demasi)


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   Dopo l’8 settembre del 1943, come noto, l’Italia si è trovata divisa in due tronconi. Da una parte c’erano le popolazioni fedeli alla nazione e affrancate dall’occupazione militare alleata, dall’altra quelle finite sotto il giogo tedesco e affidate al regime fascista repubblichino. Naturalmente, dal caotico frangente che si è venuto a creare non poteva che sortire una contrapposizione in ogni senso. Stanchi di una conflitto lungo e impopolare e spinti dal desiderio di tornare ad essere padroni in casa propria, molti giovani, per come possibile, si sono opposti e dati alla macchia inquadrandosi nelle formazioni partigiane. E in tanti hanno finito per offrire alla Patria il loro contributo di sangue.

  Di Oppidesi che hanno fatto la guerra partigiana abbiamo scarse notizie. Era notoriamente chiamato “partigiano” Enzo Surace di Messignadi, che, a quel che si sa, tra l’1-9-1944 e l’agosto 1945 dipendeva dal Comando della 4° Divisione Garibaldi nella 9a Divisione G. L. in Piemonte. Nato il 20-12-1920, è morto nel paese nativo nel 2008. Fino a questa data stimavo si trattasse di un soprannome, particolarità ricorrente a Messignadi, ma quanto comunicato anche sui giornali mi ha portato alla realtà. Si sarebbe potuto comportare sicuramente animosamente anche Tullio Tripodi, oppidese, ma questi è purtroppo incappato subito in una triste sorte. Fuggito dalla Questura di Modena, dove prestava servizio quale agente ausiliario, assieme ad altri 15 commilitoni, si è recato in montagna per raggiungere le bande irregolari forte di un documento di riconoscimento rilasciato dal Comitato di Liberazione Nazionale della stessa città. Ma il feroce capo Nello Pini, non ritenendo valido un tale atto e sotto la falsa accusa di essere delle spie, ha dato ordine di fucilare tutti i 16 agenti. I poveri giovani sono così caduti per mano di italiani il 15 giugno 1944 a Montemolino di Palagano di Montefiorino. Non è però trascorso molto perché lo stesso Pini il susseguente 31 luglio veniva giustiziato unitamente ad alcuni del suo entourage da altri partigiani insofferenti della sua riprovevole condotta[1]. Al contrario, ad essere ucciso perché fascista è stato Nino Manna. In quei tristi frangenti il fratello uccideva il fratello.

    Dallo sfacelo emerge il tenente medico dr. Francesco Mittica. 


          Francesco Mittica, che ha avuto i natali nella nostra cittadina nel 1912, era uno studioso vicino alla Chiesa. Si è laureato in medicina a Messina giovanissimo, appena nel 1938 e si è configurato un pilastro dell’azione cattolica mamertina, di cui ha difeso animosamente le ragioni durante i fatti del ’31 quando il fascismo imperante si era prodotto in un forte urto con la gerarchia ecclesiastica a proposito dei circoli cattolici. Ha principiato ad assolvere al suo impegno con passione e rigore scientifico tanto da riscontrare l’affettuoso attaccamento della popolazione. Lo dimostra appieno l’intervento degli operai oppidesi, che, per la benedizione delle spoglie in cattedrale, non hanno mancato di offrire la loro vicinanza e il loro ringraziamento.

   Nel 1942 al dr. Mittica è giunta la cartolina di richiamo e per lui è iniziato un percorso comune a tantissimi giovani. Inquadrato nella divisione Pinerolo, ha servito la patria alla frontiera, quindi in Jugoslavia e Grecia. Sopravvenuto l’armistizio, ha dovuto seguire la dolorosa trafila del prigioniero. Sballottato nei campi di concentramento di Germania e Polonia, non ha dimenticato di aver lungamente militato nell'azione cattolica e si è offerto sempre ad aiutare chiunque ne avesse avuto bisogno, restando a fianco soprattutto professionalmente dei compagni di prigionia al pari di lui sfortunati. Arrivava spesso a privarsi della razione giornaliera di viveri per darla ad ammalati in maggiore necessità. Lo hanno affermato all’unisono in maniera chiara e decisa compagni d'armi e cappellani.

   Il primo campo ad accogliere il sottotenente Mittica in quell’ottobre del 1943 è stato lo Stalag 307, dal quale egli ha inviato a casa un iniziale scritto. Indi, è stata la volta di Deblin Irena, una località della Polonia, sulla Vistola, dalla quale si è rifatto vivo. Non era di certo un posto di villeggiatura, ma ancora il peggio era lontano e pure lui, come tanti altri, avendo piena fiducia nel domani, si era giocoforza adattato. Questi alcuni squarci tratti da una lettera alla famiglia: ”Qua la vita scorre tranquilla e monotona e Dio sostiene la nostra salute. Il clima è meno duro di quanto credevo, e poi ho molti indumenti; le camerate sono da per se calde e poi abbiamo le stufe. Non ho molto da dirvi sul nostro soggiorno: esso è sopportabile.
   Posso dirvi solo che una volta fatta l’abitudine si è quanto mai rassegnati; Del resto i confort
i spirituali non mancano. Abbiamo celebrato un Natale dalle cento Messe ed in cameratesche cordialità”
.

   L’unico assillo che tormenta il prigioniero è quello di non essere edotto della situazione dei suoi in Calabria. La posta tace e soltanto con l’arrivo del 1944 può avere segnalazioni indirette dallo zio Agostino, che, operando in Vaticano, ha la possibilità di corrispondere con la Germania. Intanto, la carenza di cibo si fa sentire e si susseguono quindi gli invii di moduli per la spedizione di pacchi postali contenenti generi alimentari e le immediate positive risposte di amici residenti in particolare al di là della linea gotica

    Da Deblin Irena il nuovo passo è per il lager di Lathen, che così viene descritto da uno dei tanti suoi forzati ospiti:

 “Lathen è una landa, arida, fredda, tanto fredda, col tipico clima di queste zone del Nord-Ovest germanico. Qui il cielo è quasi sempre nuvoloso, le giornate piuttosto piovose ed è raro vedere il sole: solo di tanto in tanto qualche pallido raggio illumina le nostre desolate baracche”.

   A un bel momento pervengono le tanto attese notizie da Oppido, ma si cambia nuovamente di sede e si giunge così a Dorsten nella Westfalia e, quindi, a Kirklinde. Ma siamo ormai in un ospedale di riserva, un vero e proprio lazzaretto. E Fullen non tarderà ad arrivare e con Fullen sarà la fine.

Rientrati a casa e appreso il decesso del loro compagno d'armi ed amico, in tanti si sono fatti allora un dovere di testimoniare alla famiglia il lodevole comportamento umano e religioso tenuto dal loro congiunto nei vari lager per i quali era passato e tutti hanno officiato a una voce le sue benemerenze. C’è l’imbarazzo della scelta. Tra coloro che nella sofferenza gli sono stati molto vicini il s. ten. Francesco Pensabene di Archi, che così ha amato comunicare alla famiglia Mittica:

“A Deblin-Irena ho avuto modo di conoscere le rare virtù, la nobiltà di animo e la grande carità cristiana del mio carissimo amico.
Era noto a tutti gli ottomila ufficiali dei vari blocchi per il suo grande interessamento e per il suo buon cuore.
Era arrivato nel campo senza bagaglio personale, ma carico di medicinali.
Mentre in Infermeria del Campo non si trovava nemmeno un surrogato di asparina (sic!), il nostro Dottore aveva tutto, dai vari tipi di sulfamidici alle diverse qualità di iniezioni.
La sua borsa era nota per la farmacia di tutto lo Stalag.
A causa della scarsa alimentazione e del clima molto rigido e umido molti si ammalavano. Egli andava da camerata in camerata e da blocco in blocco senza guardare intemperie e sacrifici di sorta. Il nome di Ciccio Mittica era noto a tutti nello Stalag.
Quando si voleva qualche medicinale lo si richiedeva al Dott. Mittica.
Rispondeva sempre: Si, guarderò, credo di trovare qualche cosa! Infatti dopo aver rovistato nella borsa farmacia veniva avanti tutto contento: Ecco, diceva; trovato il medicinale prescriveva l’uso”.


   In verità, dai pochi spezzoni di lettere inviate a casa dal dr. Mittica si può dedurre quale fosse il suo modello umano e religioso di vita. Così scriveva dal campo di Deblin-Irena in occasione del Natale 1943:
“Carissimi, dolente di non trovarmi con voi, ma sempre spiritualmente a voi unito, celebro il mio Natale in Polonia, terra di Santi, invocando dal neonato Signore, per voi, le più elette grazie del cielo, nella fiducia di ritrovarci tutti uniti, quando a Lui piacerà… I conforti spirituali non mancano”.
  
     E così in data 15 luglio 1944 dal campo di Dortmund, in altra lettera dalla quale traspare tutto il suo amore per il prossimo e particolarmente per quello che aveva più esigenza:

“Non vi prendete ormai pena di me che sto bene … Ma se è volontà di Dio che io muoia, certo ci sono dei pericoli, io sarò contento e da voi non desidererei altro che cristiana rassegnazione … Vi ringrazio del vostro costante ricordo e delle vostre preghiere: pregate sempre per tutti questi poveri soldati, vere anime in pena, che vivono solo di speranza…”.

    L’ultima lettera che il dr. Mittica ha fatto tenere ai familiari in punto di morte è una rara prova di fede cristiana. Così egli vergava dietro i reticolati quando sentiva che non c’era più nulla in cui sperare:

“Carissimi, scrivo per confortarvi quando leggerete questa mia sarò sparito da un pezzo dalla scena di questo lurido mondo.
Da tempo mi sono ammalato e temo di malattia grave. A ciò contribuì soprattutto il clima umido poco adatto a me, l’animo agitato durante gli allarmi notturni al ricovero e, più di tutto, la mia pessima abitudine, quando stavo bene, a far dello strapazzo per mantenere il mio corpo nei limiti, essendo costretto a vita sedentaria. Iddio punisce la vanità! Il pensiero che mi addolora è dover lasciare voi che riponevate su di me tanto affetto, tante speranze.  
...
Avevate fatto tanto per me primogenito ed ora giungeva il tempo di remunerarvi. Non piangete per me; perdonatemi, sono troppo contento della mia sorte perché tutto viene dagli imperscrutabili voleri divini 
… 
Fate qualche opera di carità per me, specialmente a quegli ammalati che soffrono nella miseria e senza possibilità di cure. Godetevi la parte dei miei beni e ricordatemi sempre suffragando la mia anima.
… 
Saluti ed auguri a tutti i parenti vicini e lontani. Ricevetevi tutto l’affetto di cui sono capaci, oggi più che mai aumentato per Voi e l’ultimo abbraccio per sempre”.

    Questi era il dr. Francesco Mittica: veramente una gran bella figura e di raro esempio.

Rocco Liberti

[1] GIORGIO PISANÒ, PAOLO PISANÒ, Il triangolo della morte: la politica della strage in Emilia durante e dopo la guerra civile, Mursia, Milano 1992, p. 214; ERMANNO GORRIERI, La Repubblica di Montefiorino, edizioni Il Mulino, Bologna 1966.

mercoledì 13 marzo 2024

LA PROFONDA IMPRONTA EBRAICA NELLA STORIA DELLA CALABRIA MERIDIONALE (Di Augusto Cosentino)

    Dopo secoli di oblìo il mosaico della storia ebraica nell’attuale provincia reggina diventa sempre più elaborato e chiaro via via che progrediscono studi e ricerche anche attraverso l’impulso fortissimo impresso da Cesare Colafemmina , da Vincenzo Vilella, da Felice Delfino e da vari altri ricercatori. Tanto rimane però ancora da scrivere e da ricordare, come, ad esempio, la vicenda singolare di decine e decine di famiglie ebraiche locridee riparate nei secoli passati in Grecia, dove – come ricorda Klaus Davì - “… sopravvisse per secoli un piccolo e importante pezzo di Calabria, ma i primi a non saperlo sono i Calabresi”. Torneremo su questa incredibile storia perché interessa tutti da vicino, ma intanto la parola passa , al prof Augusto Cosentino, di ascendenti oppidesi, profondo conoscitare del mondo e delle lingue classiche, ma anche studioso attento delle vicende ebraiche nella nostra terra di cui viene qui presentata una sintesi rigorosa e lucida. Un excursus omnicomprensivo forse non tentato prima, sicuramente mai considerato nei suoi collegamenti con i tempi e i modi dell’evangelizzazione cristiana di questo territorio. Ringrazio il prof. Cosentino per questo dono speciale a questo blog e auguro vivamente che i suoi brillanti studi su questa materia continuino a produrre frutti come questi e sempre più abbondanti. ( Bruno Demasi)





     Il problema della religione nella Calabria meridionale tardoantica si è imposto ai nostri occhi in questi ultimi anni con grande urgenza e, a leggere i dati in modo complessivo, con una grande varietà di sfaccettature. Il ritrovamento della sinagoga di Bova Marina è l’ultimo tassello di un quadro variegato e composito che comprende nella zona gran numero di culti e di varianti di culti che testimonia di una complessità altrimenti sconosciuta e finora pressoché ignorata dagli storici.
    La sinagoga di Bova Marina è datata ai secoli IV-VI d.C. Si tratta di un periodo in cui è avvenuto forse uno spostamento dei gangli vitali ed economici della regione. Sembrerebbe che Scyle, che dovrebbe corrispondere al nostro centro bovese ubicato nella zona di San Pasquale, avrebbe avuto il sopravvento sui più antichi centri di Leucopetra e Decastadium (rispettivamente Lazzaro e Melito). Il quarto secolo sembra inoltre un’epoca cruciale per la storia degli Ebrei della zona, ma anche per quanto riguarda la cristianizzazione della Calabria. Nello stesso secolo abbiamo altre due testimonianze che, seppur di minor importanza monumentale rispetto alla sinagoga bovese, rappresentano pur sempre due segni coevi di presenze ebraiche nella zona: da un’area cimiteriale di Lazzaro abbiamo una lampada in terracotta con il simbolo evidentemente giudaico della menorah[1].  Da Reggio proviene invece un frammento di iscrizione in greco[2], leggibile [Sunagwgh t]wn Ioudaiwn[3]. Sono queste le più antiche e sicure testimonianze della presenza di popolazioni giudaiche nella Calabria meridionale. Anche San Girolamo, nel suo epistolario, parla di "gente ebrea per nazione approdata su queste terre".

     Alla stessa epoca appartengono pure i segni certi e incontrovertibili della presenza cristiana in questo lembo dell’attuale Calabria. Sia le fonti storiche, sia quelle epigrafiche più antiche sono databili appunto a quest’epoca cruciale per quanto riguarda l’intera storia della cristianità con l’epocale svolta costantiniana.
     Già testimonianza di cristianesimo appare  il    rescritto costantiniano del 21 ottobre 312-313. Inoltre nel VI Sinodo di Sardica, del 342 o 343, troviamo citati i vescovi delle Eparchie dei Bruzi[4]. Due documenti epigrafici cristiani fortunatamente datati e di indubbio carattere cristiano provengono da Taurianum (del 348) e da Locri (del 391). Altri sono databili per caratteristiche epigrafiche a questo secolo (uno da Taurianum della metà del IV; forse databile ancora al IV l’iscrizione conservata in un apografo cartaceo con la frase si deus pro nobis quis contra nos? tratta dall’epistola paolina Rom. VIII, 31).Ancora al nostro IV secolo è attribuibile il primo impianto attorno al sepolcro venerato di San Fantino a Palmi.Inoltre il Morisani nel suo Marmora Rhegina cita alcune catacombe che sarebbero emerse a Reggio, mentre il Frangipane cita un cubicolo funerario, ritrovato nei pressi dell’attuale Capo d’Armi, in cui sarebbe stato affrescato un paleocristiano Daniele tra i leoni.
 
      Un altro elemento da notare riguardo alle culture ebraica e cristiana nella Calabria meridionale, è il loro legame con il mondo dell’Africa settentrionale. Alcuni studiosi notano la pertinenza dell’edificio sinagogale bovese con le coeve costruzioni di tale tipo della Palestina. La presenza degli Ebrei nella Calabria meridionale dovette essere in relazione con la felice posizione geografica nei confronti dell'Africa settentrionale[5].

     Anche se non è possibile affermare che gli Ebrei detenessero il monopolio dei commerci con quelle terre, dovettero però senza dubbio avere una posizione di grande importanza in quei flussi economici. I segni dei legami con la cultura nord-africana sono numerosi. Probabilmente lungo quegli stessi canali commerciali, che facevano dei porti della Calabria dei punti di approdo intermedi sulla strada sud-nord in direzione di Roma, dovette viaggiare pure la cristianizzazione. La comunità ebraica di Roma, con sporadiche presenze già in età tardo repubblicana, ebbe un periodo fiorente durante l'impero di Augusto. Alterne furono le sue fortune nel I sec., fino alla massiccia immigrazione forzata che seguì la distruzione di Gerusalemme del 70. Alcuni studiosi sottolineano inoltre come l’asse sud-nord dei commerci si muterà, con gli stravolgimenti dei secoli IV-VI (in particolare con l’invasione vandala), in un asse est-ovest, che porterà alla bizantinizzazione della Calabria. Segno di questo nuovo asse commerciale è dato nell’archeologia dalla parziale sostituzione della sigillata africana con quella anatolica del tipo ‘Late Roman c’, ben presente negli strati archeologici di fine V secolo (ad esempio a Scolacium).Inoltre lo storico Paul Arthur ha a lungo insistito sulla possibile produzione calabrese delle anfore di tipo Keay LII, ben note in Calabria, delle quali in vari scavi di Roma sono stati ritrovati molti esemplari segnati con la menorah e con il chismòn.
    Intendo inoltre segnalare alcuni interessanti segni di culti di altra natura testimoniati in Calabria. Presso la collezione Capialbi di Vibo Valentia sono conservate alcune gemme incise e iscritte relative ai culti di divinità gnostiche (tipo Abraxas), raccolte e pubblicate dallo stesso erudito vibonese. Altre tre gemme similari sono state pubblicate dal Marchese Taccone sempre nell’800, ma oggi se ne sono perse le tracce. Questi oggetti di squisita fattura artistica potrebbero provenire dal mercato antiquario e non dirci nulla riguardo al territorio. Ma potrebbero pure essere relative a scoperte fortuite avvenute nella zona ed essere quindi arrivate in mano ai due eruditi calabresi ottocenteschi che le pubblicarono.
Inoltre nella grande messe di notizie utili che possiamo desumere dalle Epistole di papa Gregorio Magno, intendo segnalarne due che sembrano andare in questa stessa direzione. Se in quella in cui si scomunica un presbitero accusato di idolatria possiamo riconoscere i segni delle persistenze pagane o di una sorta di sincretismo pagano-cristiano nella regione, in un’altra troviamo la notizia della presenza di manichei nella zona di Squillace.Dunque senza dubbio nel IV secolo troviamo in questa zona della Calabria la presenza di cristiani e di ebrei. Certo la ben nota casualità dei rinvenimenti archeologici in territorio calabrese potrebbe essere complice di questa ricostruzione. Il silenzio attorno al periodo precedente non è necessariamente prova certa di una mancanza. Non possiamo insomma negare che già in precedenza essi fossero presenti in questo territorio. Possiamo solo dire che non abbiamo sicurezze storiche. Certo però, pur nello scarso numero di testimonianze, non paragonabili ad altre zone d’Italia, è rilevante il fatto che siano così numerose quelle concentrate nel secolo IV, periodo che senza dubbio fu protagonista di grandi eventi e sconvolgimenti che portarono all’epocale passaggio dall’antichità al medioevo. Se dunque non possiamo dire che sicuramente furono quelli di IV secolo i primi cristiani ed ebrei a mettere piede in questa zona, possiamo però affermare senza ombra di dubbio che fu questo secolo che vide il fiorire di queste presenze in contrasto con la sporadicità dei tre secoli precedenti. 
 


    Per dovere di completezza storica dobbiamo comunque citare le testimonianze, seppure incerte, delle epoche precedenti. Per quanto riguarda la presenza di Ebrei in Calabria, abbiamo la Cronaca di Achimaaz, un testo databile forse all'XI sec., che riporta la memoria di una diaspora nell’Italia meridionale connessa con l'arrivo di prigionieri deportati dopo la distruzione di Gerusalemme del 70[6]. Questo elemento è abbastanza generico e la fonte è troppo tarda per essere di grande utilità. Alcuni studiosi sembrano propendere per una certa veridicità della fonte. E' probabile che, in uno scalo commerciale importante lungo le rotte che conducevano dal medio-oriente e dall'Africa settentrionale a Roma, come era Reggio, esistessero già delle comunità o singoli che svolgessero la loro attività di mercanti o mediatori[7]. Certo è comunque che dopo la riduzione di Gerusalemme a colonia romana e la dispersione dei figli di Israele nell'Impero le loro presenze aumentarono sensibilmente nelle varie città italiane[8]. Ma nota giustamente Ariel Toaff come "there is no definite evidence of the presence of Jews there until the first half of the fourth century"[9].
    Anche per quanto riguarda la prima evangelizzazione cristiana della zona abbiamo una data riferibile al I sec. d.C. Si tratta dell’ormai nota biografia del proto-vescovo e proto-martire reggino, Santo Stefano da Nicea, che sarebbe stato nominato da San Paolo in persona insieme con un ausiliario dal nome incerto (Suera) a capo di una modesta comunità. Il martirologio del vescovo e di alcuni correligionari è contenuto nel Sinassario Costantinopolitano ed è databile all’VIII-IX sec.

    Non è questa la sede adatta per riproporre una discussione che seppur spesso viziata da posizioni preconcette, non è giunta ancora oggi a dare un parola definitiva sulla fondatezza o meno della tradizione episcopale reggina. Ora la sinagoga bovese sembra scomparire nel VI secolo. La distruzione del centro è stata da qualche studioso collegata con la guerra greco-gotica. La fedeltà degli Ebrei ai Goti, che portò alla totale distruzione della ricca comunità di Napoli ad opera delle truppe bizantine, potrebbe essere messa in relazione con l’abbandono improvviso della nostra sinagoga?
Comunque sia abbiamo uno iato notevole nella presenza ebraica nella nostra zona e in genere in tuta la Calabria. Le successive testimonianze di presenze ebraiche sono relative al X secolo. Quella più certa è relativa alla Calabria settentrionale, che fu certamente influenzata dalla ricca comunità ebraica pugliese. Infatti sappiamo bene come il colto medico ebreo Shabbatai ben Abraham Donnolo si trasferì in Calabria da Oria nel 940, dove venne in contatti non sempre amichevoli con San Nilo di Rossano (Bios). Piuttosto sporadica sono invece due testimonianze del cronista arabo Ibn al Athir e dello storico tedesco Thietmar, riguardanti un giudeo di nome Kalonimos, che combattè e morì per Ottone II nella battaglia di Stilo dell’anno 982. Ancora il Brebion di Reggio, databile all’XI secolo, ci informa della presenza di una Ebraikh, cioè probabilmente, secondo il Mosino, di una sinagoga, nel territorio, altrimenti ignoto, di Soumpesa[10].
 

    Due secoli dopo le attestazioni della presenza di Ebrei in questa zona diventeranno finalmente numerose, come testimoniato da due documenti, entrambi del 1276 (Cedula subventionis in Justitiariatu Vallis Crati et Terre Jordane; Taxatio generalis subventionis in Justitiariatu Calabrie), relativi al gettito fiscale di 14 comunità ebraiche calabresi[11]. Si noti che tra queste troviamo citata anche la Iodeca de Bova. La distanza cronologica tra la nostra sinagoga e le testimonianze è eccessiva per mettere in relazione i due fatti, ma non possiamo escludere totalmente una lunga sopravvivenza, con alterne fortune, di una comunità di Ebrei. D’altro canto si noti come la comunità bovese è affiancata da un grande numero di altre giudecche presenti nella zona: Reggio, Pentedattilo, San Lorenzo, Motta San Giovanni, Bianco ecc. Di queste comunità oggi non resta traccia se non vagamente nella toponomastica (e, secondo il Dito, nel dialetto). Tra i termini ancora oggi usati in Calabria abbiamo quelli di Judeca, Sinagoga, Schola e Meschite. Nella toponomastica troviamo alcune località come Judeu e Judiu, mentre la vie reggine Giudecca e Aschenez segnalano la zona occupata anticamente dal ghetto di quella città, lungo le mura a sud della porta Mesa.
      Tali comunità così numerose, diedero origine ad una fioritura culturale senza precedenti, legata particolarmente all’industria e al commercio, primo fra tutti quello della seta, il cui allevamento e lavorazione furono importate proprio dagli Ebrei in queste terre. Si sarà sempre trattato di comunità ben distinte tra i Gentili, secondo la tradizione di gran parte della Diaspora ebraica, ma anche ben integrate nella vita economica dei vari centri, fino a divenirne, in alcuni casi, veri punti di forza.
    La grande importanza culturale del centro ebraico reggino porterà all’edizione del primo libro ebraico a stampa. Si tratta del Commento alla Torah dell’erudito Rashi di Troyes, edito a Reggio Calabria nell’anno 1475 da Abraham ben Itzchaq ben Garton.

Augusto Cosentino