sabato 23 marzo 2024

IL MARTIRIO DI UN GIOVANE CATTOLICO OPPIDESE, FRANCESCO MITTICA (di Rocco Liberti)

    Ciò che non commisero i campi di sterminio nazisti negli ultimi anni della II guerra mondiale fu portato a compimento dalle condizioni estreme di vita in cui dovevano sopravvivere i prigionieri  di guerra in Germania e nei paesi limitrofi. Francesco Mittica fu forse uno dei tanti, ma lasciò di sé un’impronta indelebile, distrutto dal freddo e dagli stenti “ di questo lurido mondo”, com’egli scriveva alla sua famiglia, consapevole della sua fine imminente. Aveva dato tutto se stesso ai compagni di prigionia, medico dei corpi straziati dalla fame e dal freddo, medico delle anime che non vedevano altro che buio, mentre egli si nutriva senza dubbi e senza reticenze di quella luce di Bene che mai lo abbandonò, in una dimensione di carità quasi sovrumana. Una dimensione fatta emergere lucidamente da Rocco Liberti in questa stupenda pagina rievocativa, che fa seguito al suo libro sulla figura di questo martire calabrese e cattolico troppo presto dimenticato. Un giovane che aveva dedicato tutta la sua vita alla dimensione cattolica, per la quale si era battuto insieme al vescovo Galati durante i noti fatti che furono da sfondo a un notevole ed inevitabile contrasto tra la Chiesa e Fascio e si era nutrito poi con Mons Peruzzo di quella linfa cristiana vera e senza orpelli che aveva animato anche questo lembo di Calabria e che, insieme alla carità silenziosa, aveva fatto dell’intransigenza il proprio unico decoro. Ancora una volta Rocco Liberti, rievocando con commozione e con pochi tratti magistrali questa figura adamantina e poco conosciuta, riesce a farci dono di esempi altrimenti sepolti che hanno reso , e forse renderanno ancora più grande in tempi migliori, il mondo cattolico.
(Bruno Demasi)


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   Dopo l’8 settembre del 1943, come noto, l’Italia si è trovata divisa in due tronconi. Da una parte c’erano le popolazioni fedeli alla nazione e affrancate dall’occupazione militare alleata, dall’altra quelle finite sotto il giogo tedesco e affidate al regime fascista repubblichino. Naturalmente, dal caotico frangente che si è venuto a creare non poteva che sortire una contrapposizione in ogni senso. Stanchi di una conflitto lungo e impopolare e spinti dal desiderio di tornare ad essere padroni in casa propria, molti giovani, per come possibile, si sono opposti e dati alla macchia inquadrandosi nelle formazioni partigiane. E in tanti hanno finito per offrire alla Patria il loro contributo di sangue.

  Di Oppidesi che hanno fatto la guerra partigiana abbiamo scarse notizie. Era notoriamente chiamato “partigiano” Enzo Surace di Messignadi, che, a quel che si sa, tra l’1-9-1944 e l’agosto 1945 dipendeva dal Comando della 4° Divisione Garibaldi nella 9a Divisione G. L. in Piemonte. Nato il 20-12-1920, è morto nel paese nativo nel 2008. Fino a questa data stimavo si trattasse di un soprannome, particolarità ricorrente a Messignadi, ma quanto comunicato anche sui giornali mi ha portato alla realtà. Si sarebbe potuto comportare sicuramente animosamente anche Tullio Tripodi, oppidese, ma questi è purtroppo incappato subito in una triste sorte. Fuggito dalla Questura di Modena, dove prestava servizio quale agente ausiliario, assieme ad altri 15 commilitoni, si è recato in montagna per raggiungere le bande irregolari forte di un documento di riconoscimento rilasciato dal Comitato di Liberazione Nazionale della stessa città. Ma il feroce capo Nello Pini, non ritenendo valido un tale atto e sotto la falsa accusa di essere delle spie, ha dato ordine di fucilare tutti i 16 agenti. I poveri giovani sono così caduti per mano di italiani il 15 giugno 1944 a Montemolino di Palagano di Montefiorino. Non è però trascorso molto perché lo stesso Pini il susseguente 31 luglio veniva giustiziato unitamente ad alcuni del suo entourage da altri partigiani insofferenti della sua riprovevole condotta[1]. Al contrario, ad essere ucciso perché fascista è stato Nino Manna. In quei tristi frangenti il fratello uccideva il fratello.

    Dallo sfacelo emerge il tenente medico dr. Francesco Mittica. 


          Francesco Mittica, che ha avuto i natali nella nostra cittadina nel 1912, era uno studioso vicino alla Chiesa. Si è laureato in medicina a Messina giovanissimo, appena nel 1938 e si è configurato un pilastro dell’azione cattolica mamertina, di cui ha difeso animosamente le ragioni durante i fatti del ’31 quando il fascismo imperante si era prodotto in un forte urto con la gerarchia ecclesiastica a proposito dei circoli cattolici. Ha principiato ad assolvere al suo impegno con passione e rigore scientifico tanto da riscontrare l’affettuoso attaccamento della popolazione. Lo dimostra appieno l’intervento degli operai oppidesi, che, per la benedizione delle spoglie in cattedrale, non hanno mancato di offrire la loro vicinanza e il loro ringraziamento.

   Nel 1942 al dr. Mittica è giunta la cartolina di richiamo e per lui è iniziato un percorso comune a tantissimi giovani. Inquadrato nella divisione Pinerolo, ha servito la patria alla frontiera, quindi in Jugoslavia e Grecia. Sopravvenuto l’armistizio, ha dovuto seguire la dolorosa trafila del prigioniero. Sballottato nei campi di concentramento di Germania e Polonia, non ha dimenticato di aver lungamente militato nell'azione cattolica e si è offerto sempre ad aiutare chiunque ne avesse avuto bisogno, restando a fianco soprattutto professionalmente dei compagni di prigionia al pari di lui sfortunati. Arrivava spesso a privarsi della razione giornaliera di viveri per darla ad ammalati in maggiore necessità. Lo hanno affermato all’unisono in maniera chiara e decisa compagni d'armi e cappellani.

   Il primo campo ad accogliere il sottotenente Mittica in quell’ottobre del 1943 è stato lo Stalag 307, dal quale egli ha inviato a casa un iniziale scritto. Indi, è stata la volta di Deblin Irena, una località della Polonia, sulla Vistola, dalla quale si è rifatto vivo. Non era di certo un posto di villeggiatura, ma ancora il peggio era lontano e pure lui, come tanti altri, avendo piena fiducia nel domani, si era giocoforza adattato. Questi alcuni squarci tratti da una lettera alla famiglia: ”Qua la vita scorre tranquilla e monotona e Dio sostiene la nostra salute. Il clima è meno duro di quanto credevo, e poi ho molti indumenti; le camerate sono da per se calde e poi abbiamo le stufe. Non ho molto da dirvi sul nostro soggiorno: esso è sopportabile.
   Posso dirvi solo che una volta fatta l’abitudine si è quanto mai rassegnati; Del resto i confort
i spirituali non mancano. Abbiamo celebrato un Natale dalle cento Messe ed in cameratesche cordialità”
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   L’unico assillo che tormenta il prigioniero è quello di non essere edotto della situazione dei suoi in Calabria. La posta tace e soltanto con l’arrivo del 1944 può avere segnalazioni indirette dallo zio Agostino, che, operando in Vaticano, ha la possibilità di corrispondere con la Germania. Intanto, la carenza di cibo si fa sentire e si susseguono quindi gli invii di moduli per la spedizione di pacchi postali contenenti generi alimentari e le immediate positive risposte di amici residenti in particolare al di là della linea gotica

    Da Deblin Irena il nuovo passo è per il lager di Lathen, che così viene descritto da uno dei tanti suoi forzati ospiti:

 “Lathen è una landa, arida, fredda, tanto fredda, col tipico clima di queste zone del Nord-Ovest germanico. Qui il cielo è quasi sempre nuvoloso, le giornate piuttosto piovose ed è raro vedere il sole: solo di tanto in tanto qualche pallido raggio illumina le nostre desolate baracche”.

   A un bel momento pervengono le tanto attese notizie da Oppido, ma si cambia nuovamente di sede e si giunge così a Dorsten nella Westfalia e, quindi, a Kirklinde. Ma siamo ormai in un ospedale di riserva, un vero e proprio lazzaretto. E Fullen non tarderà ad arrivare e con Fullen sarà la fine.

Rientrati a casa e appreso il decesso del loro compagno d'armi ed amico, in tanti si sono fatti allora un dovere di testimoniare alla famiglia il lodevole comportamento umano e religioso tenuto dal loro congiunto nei vari lager per i quali era passato e tutti hanno officiato a una voce le sue benemerenze. C’è l’imbarazzo della scelta. Tra coloro che nella sofferenza gli sono stati molto vicini il s. ten. Francesco Pensabene di Archi, che così ha amato comunicare alla famiglia Mittica:

“A Deblin-Irena ho avuto modo di conoscere le rare virtù, la nobiltà di animo e la grande carità cristiana del mio carissimo amico.
Era noto a tutti gli ottomila ufficiali dei vari blocchi per il suo grande interessamento e per il suo buon cuore.
Era arrivato nel campo senza bagaglio personale, ma carico di medicinali.
Mentre in Infermeria del Campo non si trovava nemmeno un surrogato di asparina (sic!), il nostro Dottore aveva tutto, dai vari tipi di sulfamidici alle diverse qualità di iniezioni.
La sua borsa era nota per la farmacia di tutto lo Stalag.
A causa della scarsa alimentazione e del clima molto rigido e umido molti si ammalavano. Egli andava da camerata in camerata e da blocco in blocco senza guardare intemperie e sacrifici di sorta. Il nome di Ciccio Mittica era noto a tutti nello Stalag.
Quando si voleva qualche medicinale lo si richiedeva al Dott. Mittica.
Rispondeva sempre: Si, guarderò, credo di trovare qualche cosa! Infatti dopo aver rovistato nella borsa farmacia veniva avanti tutto contento: Ecco, diceva; trovato il medicinale prescriveva l’uso”.


   In verità, dai pochi spezzoni di lettere inviate a casa dal dr. Mittica si può dedurre quale fosse il suo modello umano e religioso di vita. Così scriveva dal campo di Deblin-Irena in occasione del Natale 1943:
“Carissimi, dolente di non trovarmi con voi, ma sempre spiritualmente a voi unito, celebro il mio Natale in Polonia, terra di Santi, invocando dal neonato Signore, per voi, le più elette grazie del cielo, nella fiducia di ritrovarci tutti uniti, quando a Lui piacerà… I conforti spirituali non mancano”.
  
     E così in data 15 luglio 1944 dal campo di Dortmund, in altra lettera dalla quale traspare tutto il suo amore per il prossimo e particolarmente per quello che aveva più esigenza:

“Non vi prendete ormai pena di me che sto bene … Ma se è volontà di Dio che io muoia, certo ci sono dei pericoli, io sarò contento e da voi non desidererei altro che cristiana rassegnazione … Vi ringrazio del vostro costante ricordo e delle vostre preghiere: pregate sempre per tutti questi poveri soldati, vere anime in pena, che vivono solo di speranza…”.

    L’ultima lettera che il dr. Mittica ha fatto tenere ai familiari in punto di morte è una rara prova di fede cristiana. Così egli vergava dietro i reticolati quando sentiva che non c’era più nulla in cui sperare:

“Carissimi, scrivo per confortarvi quando leggerete questa mia sarò sparito da un pezzo dalla scena di questo lurido mondo.
Da tempo mi sono ammalato e temo di malattia grave. A ciò contribuì soprattutto il clima umido poco adatto a me, l’animo agitato durante gli allarmi notturni al ricovero e, più di tutto, la mia pessima abitudine, quando stavo bene, a far dello strapazzo per mantenere il mio corpo nei limiti, essendo costretto a vita sedentaria. Iddio punisce la vanità! Il pensiero che mi addolora è dover lasciare voi che riponevate su di me tanto affetto, tante speranze.  
...
Avevate fatto tanto per me primogenito ed ora giungeva il tempo di remunerarvi. Non piangete per me; perdonatemi, sono troppo contento della mia sorte perché tutto viene dagli imperscrutabili voleri divini 
… 
Fate qualche opera di carità per me, specialmente a quegli ammalati che soffrono nella miseria e senza possibilità di cure. Godetevi la parte dei miei beni e ricordatemi sempre suffragando la mia anima.
… 
Saluti ed auguri a tutti i parenti vicini e lontani. Ricevetevi tutto l’affetto di cui sono capaci, oggi più che mai aumentato per Voi e l’ultimo abbraccio per sempre”.

    Questi era il dr. Francesco Mittica: veramente una gran bella figura e di raro esempio.

Rocco Liberti

[1] GIORGIO PISANÒ, PAOLO PISANÒ, Il triangolo della morte: la politica della strage in Emilia durante e dopo la guerra civile, Mursia, Milano 1992, p. 214; ERMANNO GORRIERI, La Repubblica di Montefiorino, edizioni Il Mulino, Bologna 1966.