mercoledì 18 dicembre 2019

L’ARTE DI RICCARDO CARBONE DI COSTRUIRE CON LE PAROLE RISATE E SORRISI



 
di Bruno Demasi
 
 
Per oltri quarant’anni cumbattìa
cu travi, cu pilastri e fundazioni,
cu strati e cunettuni nda la via,
cu acquedotti e cu irrigazioni…
Pe’ tutti st’anni fici stu misteri
chi m’impegnau tutti ‘i sentimenti.
Cu sindaci e cu tanti cittadini
cu genti ‘ntelligenti e cu cretini.
Cu funzionari ‘i tutti li maneri
o Geniu civili e a la Regiuni,
e chiji chi parivanu chiù seri
eran’i cchiù ìgnuranti 
e i chiù cazzuni,
carcunu ti squatrava paru paru
pemmu capisci ch’era mazzettaru.

    
    Era esattamente il 19 dicembre di cinque anni fa quando veniva assegnato il prestigioso “ Premio Calogero” per la poesia, in particolare vernacola, a Riccardo Carbone, ingegnere e insegnante fino al midollo nella vita, ingegnere e insegnante delle parole, soprattutto di quelle calabre, nei grandi edifici poetici da lui costruiti con insolità facilità e rigorosa eleganza. 

    A cinque anni esatti da quel premio, che non è una di quelle decine di bomboniere inutili confezionate in ogni stagione nei nostri paesi da tanti dilettanti in cerca d’autore, ma è sicuramente un serio riconoscimento all’arte poetica tra i migliori a livello non solo calabrese, l’arte di Riccardo Carbone continua a sgorgare feconda e costante, connota il passato non solo del suo paese, Varapodio, ma di tutti i piccoli centri dell’Aspromonte, ne ricorda l’ingegno e le culture, da quella contadina a quella degli artigiani e dei piccoli imprenditori, la grandezza di un popolo che ancora un sessantennio fa, pur nella subalternità ai rozzi e superbi proprietari del latifondo imperante, sapeva scrollarsi di dosso ogni laccio e alzare la testa.

   E, quando un figlio del popolo operoso sapeva imboccare e percorrere una dignitosa strada senza scendere a compromessi con nessuno, per molti agrari in declino, pigri e indolenti, come per molti parvenu che cercavano di farsi strada con la peggiore politica, di allora come di oggi, era uno schiaffo:


Avanti popolo alla riscossa
Non c’è ‘na strata senza ‘na fossa.
Li cittadini ndannu gunchiati
Li cosi ‘ sutta chi su’ ‘mmucciati.

A Taurianova se vo’ mu vai,
passi sicuru dducentu guai!
Nu disagiu che tocc’a tutti,
e la Provincia chi si ndi futti.

Non avi sordi pe’ parti nostri,
avogghia u ‘ cali li paternostri!
O si futtìru o i spostaru
E pe’ sta zona non c’è riparu!

Subitu dopu du pont’ i Iona,
preg’o Signuri ‘ u ta manda bona.
Nc’è nu sdarrupu, tu dicu a vuci,
se vo’ mu passi fatti la cruci!

Nda’ chimmu guardi e chimmu vidi
Ammenz’a curva di li Caridi;
nesci sula di la to bocca
‘na malanova pemmu li stocca.

Ndavi ddu’ anni che nc’è ‘na frana
E la protesta risulta vana.
Nci sunnu fossi cu acqua e senza,
e spasci sempi la cunvergenza.

A Taurianova, se poi arrivi,
cerca ‘na Chesia pemmu ti scrivi
nda lu registro di li graziati,
di tutt’i genti miraculati!

Quandu ci sunnu l’elezioni
Sceglimu sempri chiji chiù boni!
Perzuni novi ndam’a mandari,
Sti cosi lordi nd’amu ‘ a jettari.

L’amu a mentiri tutti a la gogna,
non si pigghiaru mai di virgogna.
Stezziru a Riggiu mu fannu st’arti,
e cu li vitti cchiù di chisti parti?

Votamu tutti genti valenti
E unu ‘n gamba pe’ presidenti,
Cogghimu voti, votamu pari
A la Provincia l’amu a mandari.

Avanti popolo, alla riscossa,
volimu strati senza ‘na fossa.

    Chi legge è come se stesse ascoltando la gente in piazza, per le strade, nell’intimità delle case. L’’Autore quasi si annulla per far emergere la vis popolare. E non è mestiere facile: di poeti, reali o presunti, ne abbiamo a migliaia ormai, ma pochi sanno annullare se stessi e la propria vanità per dar voce alle persone con quella immediatezza discorsiva, con un naturale spirito scherzoso, con la puntualità narrativa e di ricostruzione dei fatti che è pari soltanto allo spontaneo rigore del verso, anche sotto l’aspetto metrico. 
   C’è chi si arrovella per ore o giorni a trovare una rima, che non è mai spontanea e risulta stentata e artefatta, c’è chi invece se la ritrova pronta di getto. E’ il caso, ad esempio di un grande cantore calabrese, Ciccio Epifanio, ma è il caso anche – sia pure in una dimensione tutta propria  – di Riccardo Carbone che sembra voler dire ai tanti poeti improvvisati:

Finiìu lu grandi scornu
Stuiativi li mussi!
Nci sunnu sempri attornu
Li pulici ca tussi!

    Si direbbe che i versi e le prose di Carbone siano come il grande archivio di un notaio dei fatti di paese, di una geografia intera dell’Aspromonte più imprevedibile e migliore che assurgono nella loro semplicità . quasi sempre ironica, quando non comica, a emblemi di una grande civiltà sconosciuta ai più se non attraverso i luoghi comuni di tanta letteratura giornalistica ripetitiva e ipocrita. 


    E anche quando l’Autore narra di cose familiari o personali, scrollandosi di dosso tanta seriosità che distrugge l’arte e il riso, riesce a trovare una dimensione impersonale che non solo non stanca il lettore, ma lo avvince di curiosità e lo conduce a leggere fino in fondo gli aneddoti e le storie che egli imbastisce in perfetta lingua italiana. E’ il caso di opuscoli autobiografici, ma soprattutto del romanzo d’amore “La Virago” in cui ricostruisce una dolorosa storia personale che si conclude in maniera insospettata.

    Ma è soprattutto il caso delle tante composizioni vernacole che costruiscono pazientemente e con forza un mosaico di aneddoti ed emozioni di paese, il più delle volte condivisi dalla sua gente. E se non sempre veri, sicuramente verosimili.

    Ricordi, episodi di vita colmi di comicità ,e spesso anche di pathos, che ricorrono in tutte le corpose pubblicazioni di Riccardo Carbone:

· “VERSI SATIRICI”;

· “QUASI UN ANNO O…FORSE PIU” ( poemetto autobiografico);

· “C’ERA UNA VOLTA”

· “DI(A)LETTANDO”


      Quattro originalissime raccolte di versi, in prevalenza endecasillabi, cui si aggiunge il romanzo di cui si diceva prima, “LA VIRAGO”, prima sua fatica in prosa. 


  C’è da credere che nella  sua fucina  il  Carbone ancora stia covando e presto sforni altri versi, altri accordi scanzonati di chitarra sul filo della memoria, con la giocosa vena satirica che gli è propria, con il ritmo regolare e mai stentato delle sue strofe, con lo spirito impareggiabile del maestro che non pretende di dare lezioni ipocrite sebbene dalla morale di ogni episodio narrato sappia trarre un insegnamento gioioso, perché in fondo 

‘Na vita di rinunci è ‘na cazzata,
è peju di ‘na vita scioperata!
E quandu sta’ morendu e resti sulu
‘nu medicu ti dici “vaffanculu”.
E cu l’urtimu sordu non spendutu
Ti jettanu ridendu ndo tambutu!