mercoledì 14 luglio 2021

GELOSIE E CONFESSIONI MAMERTINE

di Bruno Antonio Demasi

    L’oppidese don Sasà Lacquaniti, figlio unico viziatissimo e viziosissimo di ricchi possidenti di Oppido , prima di sposarsi era mingherlino e ossuto come una spagnatura di vigna, ma appena convolato a nozze cominciò a ingrassare in modo rapido e spaventoso, fino ad assumere dalla vita in su la conformazione in un grosso uovo ornato di baffi all’umbertina e di basette con riporti che gli sporgevano spavaldamente dalle guance spiovendo sul collo taurino, mentre le gambe ormai apparivano quasi rachitiche, arcuate e gradualmente sempre più corte. E man mano che ingrassava aumentava con pari velocità la sua gelosia morbosissima nei confronti della moglie, che, molto prosperosa all’epoca del matrimonio, era poi scolata come una candela di giorno in giorno riducendosi presto a una coraisima.
    Durante il fidanzamento Donna Pavolina, come tutti la chiamavano quando giungeva a Oppido sul suo lussuoso calesse, si beava a pavoneggiarsi prima per la strada e poi sui balconi sotto lo sguardo vigile del promesso sposo, ma già dal primo giorno dopo la celebrazione delle nozze, avvenute nella grande casa padronale che sbirciava la piazza, alla donna fu fatto espresso divieto dal coniuge di affacciarsi per qualsiasi ragione ai balconi, a meno che non vi si fosse affacciato anche lui che, se capitava, puntava gli occhi aguzzi su chi passava di sotto e faceva di tutto, saltellando rapidamente di qua e di là, a coprire con la propria mole il corpo di uccellino della donna . Ben presto donna Pavolina preferì non affacciarsi più per evitare quella sarabanda di movimenti e di giravolte del marito che le facevano venire il vomito. Ormai trascorreva quasi tutto il suo tempo in cucina, oppressa dal fatto che non arrivavano figli, a preparare da mangiare al ventre insaziabile del marito, che solo a tavola abbozzava un sorrisetto di soddisfazione. Il resto del tempo la povera donna lo trascorreva dedicandosi ai lavori di cucito e ricamo o alle preghiere. Sicchè le varie volte in cui don Sasà, per metterla alla prova, faceva finta di montare in sella alla mula e dichiarava di andare in uno o nell’altro podere, per poi invece fare un rapidissimo dietrofront alla Gebbia, rientrare di nascosto in paese , attraversare furtivamente e rapidamente la piazza per appostarsi a controllare da lontano i balconi della sua casa , mai ebbe modo di cogliere di sorpresa la povera donna affacciata.

   Don Sasà si rodeva anche per la presenza continua in casa, sia pure sotto il suo sguardo vigile, ora di qualche fattore ora di qualche guardiano o colono che venivano a rapporto o per portare o ritirare qualcosa e più spesso per rappresentare problemi a tutte le ore del giorno e spesso anche di sera tardi.  E ogniqualvolta ciò succedeva , specialmente quando la moglie incauta e ingenua si faceva vedere, egli sentiva le budella stringersi e non vedeva l’ora che le incombenze o i colloqui si concludessero, diventando scorbutico e offensivo se si protraevano oltre lo stretto necessario. Non era cosa!
    Iniziò quindi a licenziare accampando le scuse più strampalate tutto il personale maschile di cui si era avvalso fino a quel momento. Incominciò dal fattore del fondo del Mulino Sdarrupato e di altri fonduscoli viciniori che accusò apertamente di latrocinio ai danni di diversi carichi di olive di cui si sarebbe appropriato nel viaggio dalle campagne ai frantoi. Per sostituirlo chiamò Michina, la donna tuttofare di casa, che sarebbe stato più opportuno chiamare Micona per la sua corporatura massiccia e i suoi modi sbrigativi, e le chiese a bruciapelo se la sentisse di fare le veci del fattore. La donna inizialmente non credette alle proprie orecchie, poi per poco non si mise a ballare la tarantella per la gioia limitandosi ad annuire violentemente col capo. E da quel momento il paese la ribattezzò “ La Fattora”.
   Poi fu la volta del guardiano delle tre vigne e del palmento di San Vastiano, che aveva fama di essere un donnaiolo e che venne violentemente accusato da don Sasà di avere svenduto di nascosto diversi barili di vino buono sostituendolo con vinello e acqua. Chiese a Francisca Giacca, gran lavoratrice di bucato e stireria a palazzo, vedova e madre di quattro figli maschi se se la sentiva di andare ad abitare nel grande alloggio che c’era dietro il palmento per le varie operazioni connesse alla vinificazione e alla guardianìa delle tre vigne. Anche Francisca rimase contentissima e dopo aver riunito tutte le masserizie in grandi trusce di canapa issate da lei e dai quattro figli sulle teste, la famiglia partì a piedi per la nuova destinazione, in fila indiana come le papere.

   Chiamò poi il colono dell’uliveto di Sant’ Onofrio, Michele Tàbbiti , e quello dello Scialè, Giovanni Spulica, e senza mezzi termini manifestò a entrambi il suo disappunto per il modo in cui mandavano avanti quelle proprietà intimando loro di andarsene con le buone se non volevano essere deferiti alla Legge per furto continuato di galline, conigli, porcellini d’India, capre e appropriazione indebita di olio, vino e altri prodotti agricoli. I due furono sostituiti rispettivamente dalle tre sorelle Gialardo, che non si facevano posare mosca sul naso, maneggiavano destramente asce e coltelli e andavano benissimo per S.Onofrio, e dalla vedova Piscioneri , una donna remissiva e silenziosa, ma sicura del fatto suo, che con l’aiuto dei figli avrebbe benissimo portato avanti la proprietà dello Scialè.
   Stessa sorte toccò dopo qualche settimana al conduttore dei due grandissimi uliveti di Cannamaria , Pasqualazzo Sartaiani, che aveva fama di persona di rispetto , ma che si vide denunziato ai carabinieri per furto continuato notturno di olio dalle grandi zirre tarantine interrate in un grande deposito in campagna dove nottetempo si appostarono due militi che lo colsero sul fatto. Venne sostituito dalla vedova Fetuso che aveva una mandria di figlie grandi, tutte di pochissime parole e in grado di organizzare in un baleno un plotone di esecuzione con gli schioppi di cui giravano armate notte e giorno anche quando andavano a fare i loro bisogni.
   Per quanto riguardava i braccianti invece Don Sasà diede ordine tassativo sacramentando che da quel momento in poi non si permettessero di bussare al portone del palazzo per nessuna ragione: le loro visite di lavoro o per i pagamenti, se strettamente necessarie, sarebbero state effettuate nei locali delle stalle e dei magazzini che provvide a separare dal palazzo vero e proprio e, a tale scopo, si fece allestire in un angolo delle stalle, con entrata dal vicolo, una specie di ufficio su un soppalco in legno invaso dall’odore nauseabondo di asini, mula, caprette, galline e conigli di ogni taglia che vi convivevano.
   Restava da decidere cosa fare dell’anziano uomo tuttofare di casa, Micuzzo, sordo, muto e analfabeta, che però era intelligentissimo, conosceva tutti i segreti di casa Lacquaniti e non li avrebbe mai rivelati a nessuno per tutto l’oro del mondo. Don Sasà provava affetto per quell’uomo silenzioso e bonario che lo aveva visto nascere e crescere e tuttavia si era imposto per principio di allontanare anche lui da casa, ma non sapeva né dove né come sistemarlo. Si arrovellò per settimane. Infine decise di mandarlo come amministratore del mulino a fuoco che tra le altre proprietà gli aveva portato in dote la moglie e che macinava per conto terzi a Pedavoli. Il vecchio a malincuore obbedì.
    Dopo la colossale operazione di bonifica maschile che aveva esperito, Don Sasà, soddisfatto del suo operato, si recò in chiesa cattedrale e disse all’arciprete Pricopo che in segno di ringraziamento voleva offrire alla Madonna Nunziata un dono prezioso, un brillocco di grande valore appartenuto alla sua povera mamma. E si mise la coscienza a posto.
   La quiete durò solo fino alla domenica successiva quando, come di consueto, marito e moglie, debitamente coperta e velata su ogni centimetro quadrato scoperto dai vastiti, si recarono insieme a messa in cattedrale attraversando rapidissimamente la piazza. Don Sasà a un certo punto, mentre era seduto in chiesa, si sentì pungere da mille pulci messe insieme: Donna Pavolina era andata a confessarsi da almeno mezz’ora, ma anziché sbrigarsi , come al solito, tardava alquanto perché dall’altro lato del confessionale c’era quella fimmanazza vedova dell’avvocato Sciarra che ogni giorno andava a fare la scimmia con qualche prete, ma questo don Sasà non lo sapeva, perciò si alzò di colpo , si spostò come un fulmine nella navata laterale e si avvicinò a pochi centimetri dalla grata del confessionale sentendo il prete che con un bisbiglio stava per impartire l’assoluzione alla moglie:
- Dominus vobiscum…
- E con l’animazza tua e sua – rispose sbattendo lo sportellino sul muso al prete e afferrando bruscamente la moglie da un braccio per trascinarla a casa attraverso la piazza gremita di gente. E da quel momento le tolse anche lo spasso della confessione, anche se, una volta sfumata la tensione, ogni domenica continuarono regolarmente a recarsi a messa. Ma in capo a qualche mese la povera donna timidamente espresse al marito il bisogno di confessarsi. L’uomo in un primo momento sgranò gli occhi infuriato e cominciò a domandarle urlando quali cazzi di peccati commettesse se non usciva mai di casa, ma subito dopo cominciò a pensare come risolvere il problema.
   Non c’erano altre soluzioni: bisognava assolutamente che un prete di santi costumi e non molto giovane si incaricasse di venire a palazzo a confessare donna Pavolina , ovviamente sotto la costante vigilanza del coniuge. Mandò subito imbasciate in tal senso tramite l’ anziana governante Angialuzza a uno a uno a tutti i preti del pase, ma non ci fu nemmeno uno che accettò se si esclude il vecchio don Filomeno Ficarra, che non aveva capito nulla perché era sordo come una campana e confessarsi da lui, gridando e scandendo le parole, era come mettersi a urlare i propri peccati dal balcone o nel mezzo di pubblica piazza, per cui tutti lo evitavano accuratamente quando si sedeva dentro il confessionale in cattedrale e vi dormiva per ore indisturbato.
   Don Sasà si recò con molto veleno in cuore in vescovado e appena il presule lo ricevette si sfogò raccontando come stavano le cose scagliandosi contro i preti che avevano rifiutato di confessare la moglie, a lui che era notoriamente uno dei più munifici benefattori del seminario. Appena tornato a casa, pensò come ripiego al prete di Tresilico, ma si convinse subito che questi era assolutamente da escludere perché non si sarebbe mai e poi mai abbassato a recarsi a palazzo Lacquaniti per amministrare il sacramento della confessione. Restava soltanto l’Arcibate di Zurgonadio che forse avrebbe acconsentito, se non altro perché spesso aveva avuto bisogno degli operai di don Sasà per scugnare nuovi pezzi di vigna o del prestito temporaneo di qualche mula per il trasporto del mosto o delle olive. Inoltre il vescovo avrebbe sicuramente perorato la causa del nobiluomo presso il parroco del sobborgo.
   L’Arcibate quando gli arrivò l’imbasciata dal Palazzo ebbe immediatamente l’impeto di rifiutare, poi cercò di calmarsi e di prendere tempo, ma alla seconda imbasciata intimativa dell’uomo , accompagnata stavolta da un bigliettino vergato di mano del vescovo che lo invitava a fare quell’opera di carità, dovette rassegnarsi e nel pomeriggio stesso partì per recarsi al palazzo di donna Pavolina. Fece la strada volutamente a piedi sia per fumare sia per riflettere e calmarsi e quando bussò al portone di palazzo Lacquaniti aveva il cuore in tumulto. Si affacciarono contemporaneamente la serva che aprì il portone guardandolo come uno spettacolo senza dire una sillaba e don Sasà che dall’alto di uno dei balconi urlava alla donna di far entrare subito il sacerdote e di accompagnarlo di sopra facendo in modo di essere visto e sentito da tutti i soliti perditempo che stazionavano sempre nella piazza e nelle sue adiacenze.
    L’Arcibate fu accompagnato dentro il grande salone bislungo alle cui pareti pendevano ritratti bui e polverosi di antenati dal colorito terreo e dagli occhi a pallina di gazzosa , tutti contornati, a seconda del sesso, da baffi e barbe o capigliature nerissime tendenti al viola. Fu accolto da don Sasà che con ampio sorriso lo ringraziò di avere accettato, abbandonandosi subito a tremende filippiche contro i preti oppidesi che avevano invece rifiutato. Lo fece accomodare su un’ampia poltrona in fondo al salone, indi afferrò un paravento orientaleggiante istoriato di putti e fannacche di fiori e frutta e glielo spiegò davanti al naso. Poi fece entrare la moglie e la fece sedere su uno sgabello dietro il paravento. Indi si allontanò e si posizionò all’altro capo del salone su una poltrona dalla quale aveva modo di vedere benissimo confessanda e confessore senza udirne le parole e afferrò dal tavolino tondo vicino alla poltrona, sulla quale campeggiava anche uno schioppo , casualmente capitato lì, un libro di preghiere che aprì facendo finta di leggere.
   Trascorsi sei minuti di assoluto, apparente silenzio, don Sasà decise che la confessione era finita, chiuse rumorosamente il libro che aveva in mano, lo appoggiò sbattendolo sul tavolino da cui l’aveva preso, si alzò e comincio a tossire rumorosamente. L’Arcibate capì l’antifona e procedette a una rapidissima assoluzione della peccatrice , mentre l’uomo faceva segno alla moglie di rientrare nelle proprie stanze e ringraziando e profondendosi in inchini, offriva un rosolio dolcissimo al sacerdote . Questi dopo aver bevuto d’un fiato storceva la bocca di disgusto e ridacchiando soppesava lo schioppo controllandone la mira e riponendolo sulla poltrona con smorfia di altrettanto disgusto. Don Sasà però bruscamente lo  accompagnò di persona al portone sul quale rimase poi a lungo con un dito indagatore dentro il naso in modo che tutti vedessero che il prete usciva da una casa in cui era presente e vigile il padrone oltre che la padrona…
   Con le stesse identiche modalità avvennero ogni mese le successive confessioni, rosolio a parte che, per suggerimento dell’Arcibate, fu prudentemente sostituito da un buon bicchiere di vino di San Vastiano. A Natale e a Pasqua vi furono due confessioni straordinarie somministrate anche al marito subito dopo l’assoluzione di donna Pavolina e il di lei felpato ritiro nelle proprie stanze.

   Una sera di maggio la povera signora dopo cena si disse mancante di respiro e dopo tanti anni chiese di potersi affacciare al balcone grande del salone, ovviamente al braccio del marito, ma appena giunta, vuoi perché non stava bene vuoi perché stordita dalle luci e dai rumori della strada che non vedeva e ascoltava da anni , svenne e per poco non andò a sbattere con la testa sulla massiccia ringhiera. Don Sasà spaventato e urlando per richiamare la servitù riuscì a trasportarla dentro e adagiarla su un sofà facendole aria col ventaglio trovato accanto al caminetto e spruzzandole acqua sul viso dal bacile che una cammarera aveva portato correndo. Donna Pavolina, paurosamente pallida aprì gli occhi, ma fece segno che ancora non riusciva a parlare mentre manifestava dei potenti ed orribili conati di vomito.
   Don Sasà pensò di correre lui stesso a chiamare il medico che seguiva ormai da qualche  tempo donna Pavolina, il dottore Lapa come tutti lo chiamavano, ma, appena giunto al portone, si ricordò che costui era assente dal suo paese, tornò indietro e intimò urlando alla povera Angialuzza di correre lei a casa del medico Grillo e di dirgli di venire subito senza perdere nemmeno un minuto. La povera donna anziana fece del suo meglio incitata e minacciata dal nobiluomo affacciato al balcone che sbraitava e urlava come un pazzo facendo accorrere dalla vicina piazza molti curiosi.
   Passarono meno di cinque minuti e si vide arrivare ansante il medico Grillo con i pantaloni cascanti  del pigiama, la giacca da camera semiaperta , grosse ciabatte ai piedi e la sigaretta in bocca sacramentando per essere stato bruscamente distolto dal sonno che, dopo una giornata di duro lavoro, stava gustando sulla sdraio al fresco del balcone. Lo seguiva la fantesca zoppicante e lamentosa, che gli apriva subito il portone e lo faceva immediatamente salire da donna Pavolina.
   Al medico, formato egregiamente alla scuola empirica napoletana, bastarono appena un esame esterno e pochi palpamenti del corpo della donna, condannati da occhiate feroci e bestemmie orribili a mezza voce di Don Sasà, per sentenziare senza tema di smentita che la donna era incinta di almeno due mesi. Indì scrisse velocissimamente una ricetta, consigliò di affidare donna Pavolina al suo medico, mandò a fanculo tutti e fece dietro front per andarsene, ma a metà delle lunghe scale si accorse di aver perso una delle due ciabatte e si mise a sacramentare tornando indietro. Don Sasà lo fissò con sguardo interrogativo e disappunto , mentre il medico ripercorreva tutto il salone cercando di recuperare la ciabatta, che sembrava volatilizzata. Il padrone di casa facendo scudo alla moglie ancora discinta sul sofà, urlava alla cammarera di collaborare alla ricerca del medico che , palesemente disgustato dalla scena, lasciò perdere e si incamminò di nuovo verso l’uscita zoppicando. E a nulla valse l’offerta della povera Angialuzza di dargli le proprie tappine. Uscì dal portone e si avviò verso casa sacramentando ad altissima voce e fumando come un turco sotto gli sguardi interrogativi e curiosi dei soliti perditempo sempre presenti in piazza., uno dei quali ebbe l’ardire di urlargli:
- Dottore , chi vi ha rubato la tappina?
- Quella tappinara di tua moglie che ne fa la collezione – rispose prontamente il medico tirando dritto per la sua strada.
   L’ebbrezza di Don Sasà all’annuncio che sarebbe finalmente divenuto padre durò tutta la serata e fino al primo sonno piombigno nel quale sprofondò dopo essersi scolato per festeggiare un intero litro di vino. Alle tre gli sembrò infatti che battaglioni interi di cimici e pulci si fossero organizzati per aggredire le sue carni e infilargli in testa mille domande, mille sospetti che lo inducevano a porsi altrettanti gravosi interrogativi:
- Come cazzo ha potuto restare incinta - ripeteva a se stesso guardando la donna che beata e discinta gli dormiva al fianco – se per sette anni interi l’ho addubbata ogni sera in abbondanza, anche quando aveva il marchese, e non è successo mai niente? Che cazzo è ? Un miracolo?
E, più guardava la donna, più era assalito da dubbi che gli facevano torcere le budella…
- Vuoi vedere che la bujana ha trovato il modo di fare entrare qualcuno in mia assenza? E chi cazzo può essere questo grandissimo figlio di rotta che si è permesso di farmela sotto il naso?
Si alzò furioso e salì nel cammarino dove dormiva l’anziana Angialuzza che svegliò di soprassalto afferrandola per il collo e facendola urlare alla vista di una montagna umana coperta da una lunga veste da notte biancastra. Le pose subito mille domande e pretese immediate risposte minacciando di strangolarla:
- Ma che dite , don Sasà? – fece la povera donna piagnucolando – Donna Pavolina una santa è. Sono anni che non vede un uomo all’infuori di voi, del prete che viene a confessarla e ogni tanto del dottore Lapa, ma quello, da quando ha in cura la padrona, è venuto si e no tre volte in questi ultimi mesi e solo quando voi eravate presente, lo sapete!

   Tornò silenziosamente a letto cercando di prendere sonno, ma dopo qualche minuto il cervello cominciò a macinare di nuovo messo in moto da fiumi di bile: gli tornavano in mente le parole lamentose di Angialuzza e a un tratto un lampo esplose come una schioppettata nella sua testa arruffata, “….all’infuori di voi e dell'arciprete che viene a confessarla…”
- Minchia, stavo dimenticandomi di quel filibustiere del confessore – cominciò a rimuginare battendosi più volte il minuscolo cranio con spaventosa lucidità- – Come ho fatto, cazzone che non sono altro, a trascurare quel grandissimo cippo del prete? Due sono le cose: se il figlio non è mio vuol dire che si è ammogliato la taralla il prete e, se lui non c’entra, sicuramente la bujana al suo  confessore non ha nascosto niente e perciò lui solo può sapere per filo e per segno  quale grandissimo cornuto si è permesso di zappuliare il mio orto…
   Ormai completamente sveglio, guardò quasi con odio donna Pavolina che dormiva beatamente al suo fianco, poi balzò dal letto sacramentando e, senza nemmeno lavarsi il viso, fece di corsa il giro della strada, entrò incazzatissimo nella stalla dando calci a tutti gli animali che si frapponevano al suo passaggio e sellò la prima mula che gli venne a tiro, infilò uno schioppo carico in una delle due cofane che meccanicamente aveva attaccato ai fianchi della bestia e partì subito verso Zurgonadio, ripassandosi mentalmente più e più volte quanto aveva da dire a quel cornuto del prete. Poi qualcosa come un lampo gli macinò nel cervello:
- E se sarà necessario affrontarlo con lo schioppo, chi mi garantisce se non lo prenderò alla prima botta, che il bastaso non mi colpisca lui finchè perdo tempo a ricaricare? Meglio prendere il duebotte.
   Tornò indietro come un fulmine, legò la mula al portone del palazzo, entrò di volata, caricò la doppietta che teneva appoggiata sul tavolino del salone, posò lo schioppo al suo posto e con quattro salti fu di nuovo in strada. Albeggiva.
   Bussò più volte risolutamente alla porta dell’ Arcibate, mentre la mula, scossa dal rumore e dall’alzataccia, pensava bene di deporre proprio sul gradino di entrata una scarica di feci mattutine.
- Che c’è? Chi sta morendo? - domandò l’Arcibate affacciandosi alla finestrella del piano superiore e guardando con orrore quel ben di Dio puzzolente che copriva la soglia della sua povera abitazione –
- Non sta morendo nessuno, almeno per il momento e  non dite puttanate di prima mattina. Ho urgenza di parlarvi – Rispose Don Sasà gelido e risoluto – vedete di sbrigarvi subito!
    Il prete fece del suo meglio a sbrigarsi, ma non rinunciò a riempire un grande secchio d’acqua che, appena aperta la porticina, lanciò con forza sugli escrementi della mula afferrando una vecchia scopa e cercando di pulire completamente il gradino, poi senza dire una sillaba, slegò la bestia e andò a legarla su una boccola nel muro di fronte al di là della strada, mentre don Sasà , spiazzato dalla scena che non immaginava, si accorgeva con orrore di aver dimenticato non solo quello che si era preparato a dire, ma soprattutto lo strumento musicale che aveva nascosto nella cofana. Entrarono:
- Parlate – disse l’Arcibate-.
- Dopo tante confessioni che voi avete fatto a mia mogliere e a me , ora è il mio turno di confessare voi, si o no?!
    Il sacerdote guardò sgomento l’uomo : più volte aveva avuto l’impressione che fosse lento di caffettiera , quindi era bene assecondarlo e farlo sedere con le buone, ma quello continuava cambiando subito tono e volume:
- Si, si, due sono le cose: o vi siete ammogliato voi personalmente il biscotto con mia moglie oppure, se non siete stato voi, sicuramente avete saputo in confessione chi è stato!
- Spiegatevi meglio …
- Non c’è minchia da spiegare – urlò l’uomo paonazzo e sudatizzo - donna Pavolina è incinta di due mesi!
   L’Arcibate si fece di mille colori, cercando di capire se l’uomo facesse sul serio e soprattutto se fosse armato…Prese tempo, ma quel breve silenzio fu interpretato quasi come un’ammissione di colpa da parte del prete e  don Sasà che si mise a fare voci, minacciando la qualunque con frasi sconnesse e orribili.
- Ma si può sapere cosa volete da me? – gli chiese l’Arcibate a bruciapelo afferrando il bavero umidizzo della camicia semiaperta di don Sasà –
- Dovete confessarvi! Dovete confessarvi subito davanti a me e davanti a Dio!
- State scherzando? Un prete che si confessa da un uomo geloso? Che cazzo avete in testa ? Siete ubriaco alle sette albe?
- O vi confessate subito o vi sparo!
    Il sacerdote prese tempo e si fece seguire in chiesa, si inginocchiò davanti all’altare della Madonna del Rosario e con la mano invitò a inginocchiarsi accanto a lui don Sasà che, sbuffando come un mantice, piegò le ginocchia.
- Prima pregate e giurate di dire la verità – intimò don Sasà –
    L’Arcibate recitò tra i denti la prima formula latina che gli venne in mente, poi chiamò a testimoni la Madonna del Rosario e San Leone Magno e, tenendo in mano un piccolo Crocifisso , giurò che lui non solo non aveva mai toccato con un dito donna Pavolina, ma che se l’avesse incontrata per strada, non l’avrebbe neanche riconosciuta perché tutte le volte che l’aveva confessata lei era rimasta sempre nascosta dietro il paravento sotto lo sguardo del marito…
- Allora sicuramente vi ha detto in confessione se qualcuno oltre me l’ha scugnata. Me lo dovete dire subito altrimenti saranno guai, è inutile che cercate di annacare il pecoro...
- Prima di tutto la confessione è segreta…
    Don Sasà non gli lasciò completare la frase, si alzò come un fulmine, passò imbufalito  nel basso, aprì la porta e corse verso la mula, afferrò il duebotte e si girò per entrare di nuovo, ma l’Arcibate aveva fatto in tempo a sbarrare la pesante porta quando arrivarono le due sventagliate di piombo, ma prima che l’uomo finisse di ricaricare con mani tremanti il fucile, aprì di nuovo, gli fu addosso, gli tolse l’arma e la gettò pesantemente dentro la cofana. Poi lo trascinò di forza dentro e lo fece sedere su una vecchia cascia.
- Non mi avete lasciato finire…la confessione è segreta e se donna Pavolina mi avesse rivelato qualcosa non ve lo direi manco con la pistola puntata. Però non mi ha mai detto niente. E’una santa donna e sono convinto che mai e poi mai si farebbe toccare da un altro uomo. Come cazzo vi possono venire certe idee, don Sasà. O la smettete o vi abbuffo io a timpuluna. E senza uso di armi, mi bastano le mani. Volete vederè?
- Se siete convinto che è una santa – riprese sbuffando don Sasà sotto il cui peso la cascia scricchiolava paurosamente - mi dovete dare la controprova.! Voi da una parte  e lei e lei dall'altra ! Andiamo subito a casa mia e la fate giurare col Crocefisso in mano domandandole apertamente se è stata con qualche altro uomo oltre me!
    L’Arcibate era sconcertato, ma pensò che forse quello potesse essere l’unico modo per far tornare in sé quell’energumeno. Lo fece salire sulla sua Millecento e partirono verso Oppido. Quando Angialuzza venne ad aprire restò a bocca aperta e pensando che la padrona stesse male, si mise a fare voci, ma l’Arcibate la calmò mentre don Sasà le intimava di svegliare subito Donna Pavolina, di aiutarla a vestirsi e  a recarsi subito nel salone.
    Quando la donna con sguardo interrogativo e smarrito entrò, il marito la fece inginocchiare come di consueto per la confessione, senza porre tra lei e il sacerdote il solito paravento, le pose in mano un crocifisso e si ritirò come aveva sempre fatto all’altro capo del salone, ma stavolta afferrò lo schioppo carico e rimase in piedi puntando l'arma contro la moglie e il confessore.
   I due se la sbrigarono in pochi minuti, trascorsi i quali la donna si ritirò con le minuscole spalle da uccellino scosse dai forti e irrefrenabili singhiozzi.
- Era come vi dicevo io, don Quaquaraquà, avete visto, testa di scecco che non siete altro? – gli sussurrò sprezzante l’Arcibate avvicinandosi - donna Pavolina è sincera e cristallina come l’acqua della montagna e non ha nessun peccato né verso di voi né verso il mondo intero. E ora torno subito a casa altrimenti vomito qui…Venite a ritirarvi la mula e non fatevi vedere mai più davanti ai miei occhi se non volete un lisciabusso di botte come mai avete avuto!
   Mezz’ora dopo don Sasà risaliva a piedi la strada da Tresilico a Oppido trascinando incazzatissimo la mula che si era categoricamente rifiutata di portarlo in sella, la cosa lorda... All’altezza della casa del podestà gli parve di vedere arrivare il suo calessino e sgranò gli occhi. Era proprio il suo calesse attaccato alla migliore cavalcatura: sul sedile c’erano donna Pavolina che teneva le redini e accanto a lei Angialuzza; sul cassoncino due enormi lenzuolate piene di roba legate ai quattro angoli.
- Dove cazzo state andando? – urlò l’uomo mentre bloccava la cavalcatura balzando a mani alzate davanti ad essa –
  La moglie rimase impettita come  una statua di cera guardando fissa nel vuoto senza dire una sillaba. Rispose  per lei Angialuzza :
- Donna Pavolina se ne sta tornando per sempre a Pedavoli, e io con lei. Non vi vuole più vedere, se ne fotte di voi e ha detto di non venire a cercarla se no vi spara.
   Don Sasà urlando e bestemmiando cercò subito di far fare dietro front al cavallo, ma donna Pavolina con sguardo glaciale alzò lo schioppo, che Angialuzza, sorreggendo discretamente la canna, aiutò a puntare tra le gambette dell’uomo, e sparò…
    E da quel momento Don Sasà Laquaniti per l’intero paese diventò Don Sasà lo Scugghiato.

sabato 10 luglio 2021

LA RICCHEZZA BIZANTINA DI OPPIDO (Parte II – Popolo e Società)

             di Bruno Demasi

     A osservare oggi con occhio disincantanto quel che resta (ed è ancora tanto malgrado la criminale incuria antica e attuale di chi avrebbe dovuto preservarla dai danni arrecati dal tempo e dalla mano dell’uomo) della fortezza tanto imponente di Oppido nella sua ultima edizione angioino-aragonese, viene da chiedersi non solo quale fosse la sua fisionomia a guardia del Castron in età bizantina, ma quale e quanta parte di popolazione essa governasse e/o proteggesse dall’alto dei suoi bastioni. Si presume un insediamento sempre consistente lungo i secoli sia pure in rapporto alla irregolarissima densità abitativa di queste contrade dall’età bruzia almeno fino all’abolizione della feudalità, ma, a ragion veduta, dobbiamo pensare che ad epoche di discreto popolamento della zona siano succeduti momenti di spopolamento quasi totale e di abbandono in gran parte inspiegabile e che con ogni probabilità il periodo di massima densità abitativa e di maggiore ricchezza sociale e amministrativa di Oppidum (ribattezzato Hagia Agathè) vada individuato nel periodo della seconda colonizzazione greca, che passa sotto la denominazione di ” periodo bizantino”. 

      Discorso a parte , anche sotto questo aspetto, meriterebbero il periodo bruzio-ellenistico e quello coevo alla Roma repubblicana nel corso della lunghissima vita di questa città, con ogni probabilità la Mamerto di cui parla Strabone, posta a mezza strada tra la colonia di Locri e Region, primo nucleo abitativo di quell’Oppidum, sorto in seguito più a monte, di cui ancora vediamo le fastigia nella loro tessitura tardo imperiale e poi medioevale. Non si hanno comunque notizie rilevanti sulla consistenza della popolazione di questa città neanche nei primi secoli dell’era volgare, sebbene gli scavi di Paolo Visonà abbiano documentato il passaggio accanto ad essa di un ‘importantissima via di comunicazione tra la costa tirrenica e il dromo, che percorreva la dorsale aspromontana con il suo punto di forza nella forezza di Tavola, e da esso alla costa ionica. Si trattava di una imponente strada risalente all’età tardoimperiale ( IV- V secolo d. C.) ancora oggi leggibilissima con i sepolcreti ai suoi margini secondo l’uso romano.


    Ed è proprio la presenza di tali e tante sepolture che fa pensare a Oppidum nella stessa epoca come a un centro non solo militare e amministrativo, ma anche commerciale di prima importanza nell’economia di quella che sarebbe diventata la Tourma delle Saline qualche secolo più tardi con l’arrivo dei Bizantini. La popolazione stanziale nel periodo in esame era sicuramente consistente, arricchita da quella transeunte dedita prevalentemente ai commerci dall’una all’altra costa di questo lembo estremo di Calabria. Poi un inspiegabile silenzio denso di misteri sia per la città fortificata più recente sia per la vicina città più antica che inizia a riciclarsi come mellah ( Cfr. IL GIALLO DI “MELLA” e “MAMERTO” : da uno pseudotoponimo alle ragioni storiche), assorbe i traffici, le attività produttive e la vitalità, mentre l’insediamento fortificato sembrerebbe chiudersi in se stesso, con una vocazione prevalentemente militaresca, e perdere il primato del popolamento che evidentemente aveva avuto in età ellenistica prima e romana poi. 

    Subentra a questo punto l’interesse di Bisanzio per il territorio di Oppidum già all’epoca della spedizione sfociata nella famosa guerra Greco-Gotica (535-553 d.C). E solo pochi anni dopo si avverte confusamente l’eco dell’arrivo dei Longobardi a minacciare il Ducato di Calabria che comprendeva anche parte della Puglia e aveva capitale prima ad Otranto poi a Reggio. Da ricordare infatti che l’espressione “ Calabria “ nella sua originaria valenza latina indicava inizialmente l’attuale Salento, ma i Bizantini in epoca giustinianea lo unificarono con la Calabria attuale deando vita al cosiddertto “Ducato di Calabria” nel VI secolo. Nel frattempo il Salento, conquistato dai Longobardi, prendeva il nome di Terra d’Otranto. Mentre i Longobardi avanzavano, la Calabria rimaneva territorio bizantino ancora nell’VIII secolo e in quello successivo si estendeva da Reggio a Rossano, mentre il resto della regione fisica, l’attuale area del cosentino, restava territorio longobardo.

   Nei primi decenni del IX secolo gli Arabi sbarcavano in Sicilia e solo in qualche decina di anni conquistavano l’isola che diventava territorio musulmano. Anche la Calabria era a tal punto minacciata. Una nuova spedizione bizantina sbarcava sull’attuale costa crotonese sul finire del IX secolo e riconquistava la parte nord della Calabria, compresa Cosenza. Ne è testimonianza la nascita nella zona di vari monasteri e chiese di rito ortodosso. E risale proprio agli albori del X secolo la conquista araba di Taormina e Reggio e soprattutto l’accordo tra Arabi e Bizantini per il versamento da parte di questi ultimi di un tributo annuo in cambio della pace. Un accordo che comunque non produceva frutti consistenti, se è vero che, proprio in questo scorcio di tempo, larga parte del territorio calabrese diveniva teatro di sanguinose scorrerie saracene ad opera di manipoli di esaltati che partivano frequentemente dalla Sicilia fino a dare vita molto presto alla marcia su Region, abbandonata dalla popolazione insieme a molti piccoli centri del suo entroterra, tra cui Sant’Agata, e si spingevano fino a Gerace sottomettendola nel sangue. 

   Risale plausibilmente a questo momento il ripopolamento bizantino di Oppidum che, secondo la consuetudine greca, viene ribattezzato col nome di un santo, nella fattispecie quello di Sant’ Agata (Hagia Agathè), con la presenza dei transfughi già stanziati nei dintorni di Region che si rifugiano nell’antico insediamento multietnico e multireligioso dell’Aspromonte pressochè abbandonato e vi creano, su una preesistente e rudimentale fortificazione, un castron capace di garantire per la sua posizione una relativa tranquillità alla sua popolazione ormai mista che nel ricco insediamento del mellah più a valle trova fonte di vita e di sostentamento.

   Lo scoppio di una guerra civile in Sicilia nel 1031-32 pone fine alle incursioni saracene in Calabria e un relativo periodo di pace e di convivenza tra Bizantini e Arabi, durante il quale il popolo del mellah a valle di Hagia Agathè può paradossalmente entrare e uscire liberamente nella rocca bizantina e vivificarla. E’ questo il momento fotografato dalle donazioni dei privati al vescovo riportate sulla pergamena scoperta e pubblicata da Andrè Guillou ( A. Guillou: La theotokos de Hagia Agathè – Oppido - , L.E.V., Roma, 1972) che ci consentono con sufficiente rigore di conoscere la composizione della popolazione nella Oppido degli anni 1050 – 1064/65 e che documentano come all’epoca il ripopolamento fosse ormai ampiamente avvenuto. L’ attenta e meticolosa analisi dello studioso francese (Ibidem) documenta in modo scientifico quale fosse la composizione della popolazione di Hagia Agathè (Oppidum) nel quindicennio considerato:
- per il 70% Greci;
- per il 17% Latini;
- per il 13% Arabi.

   All’interno di queste percentuali ovviamente andrebbero individuate delle subpercentuali di popolazione armena ed ebraica residente o transeunte, prevalentemente di nazionalità o naturalizzazione greca. 


    I nomi di sicura origine greca sono preponderanti e indicano quali dimensioni abbia potuto avere l’esodo bizantino dalla zona di Region verso l’entroterra oppidese ( li indico anche io esemplificativamente con grafia latina): Abakaletos; Agrappidès; Antonios; Arkometès; Arkoumanos; Arkophagas; Armatones; Armenitès; Atzamoros; Barbaros; Baropodeès; Christodoulos; Daniel; Dialektè; Dikouros; Georgios; Gerasimos Gregorios, Eupraxios; Eustathios; Euphemios; Elias; Theodòros; Thèodotè; Janou; Joannes; Kalabros; Kalokyros; Kappadokas; Kardoulos; Kariotès; Kasanitès; Klatzanès; Katzarès; Kiryakos; Komenos; Kometò; Konddena; Konddobasiles; Kondos; Koukkaphournès; Lachanas; Logaràs; Magidios; Manddaranès; Maurokotarès; Megalà; Metzekissès; Moukourès; Nicetas; Nicephore; Nicolas; Nikon; Nizon; Pathoi; Raptès; Scholarios;Phodelos; Photeinos; Photes; Soterikos; Spanos; Spatharès; Tosophrogaurès; Xenios; Xiraphès.
     I nomi di origine latina (molti dei quali ellenizzati nella terminazione) rispetto a quelli greci sono percentualmente pochi e indicano a quale livello di spopolamento fosse giunto il Terrritorio prima dell’arrivo dei Bizantini. Ecco i più ricorrenti dei quali, al contrario di quelli greci, si è persa quasi traccia: Aukarienos/ Aucarius (allevatore d’oche) ; Berbikarès/ Berbicarius/ Vervicarius (pastore); Egidaris/ Egidarius; Gemellarios/ Gemellus; Koloradès/ Coloretum (bosco di noccioli); Makellarès/ Macellarius; Masaritès/Masura (mugnaio); Oursos; Ploutinos; Tilirikos / Tilia (tiglio).

      Interessantissimi i nomi di origine araba che nella classifica stilata da Guillou occupano soltanto un 13% che di fatti è molto riduttiva rispetto alla realtà per almeno due ordini di motivi: i nomi arabi sono di per sè pochi e ripetitivi; gli Arabi insieme agli Ebrei erano relegati dai greci nel mellah che era ubicato più a valle rispetto a  Oppidum  ed era il luogo dove si svolgevano i traffici commerciali più intensi, spesso in forme semiclandestine.    In ogni caso Ebrei ed Arabi residenti nel mellah, nella stragrande maggioranza dei casi, oltre a non possedere ufficialmente appezzamenti di terreno, non avrebbero mai fatto donazioni liberali al vescovo cattolico di Oppidum, e ciò spiega il numero molto ridotto dei loro nomi nelle donazioni prese in esame a fronte di un numero reale che invece era sicuramente molto più abbondante. Questi i nomi più ricorrenti, anch’essi spesso ellenizzati nella terminazione: Albake..ei/ Al Baqi (residente); Asanòs / Hasan; Barchabas / Bar Haba; Charerès/ Ar – hariri (tessitore di seta); Channitès Mamour/ Ma’ mur; Moulè /Moulei ; Okhanos; Selimòs/ Selim.

 Complessivamente la ricchezza e la varietà dei nomi indicano dunque un ripopolamento del castron oppidese estremamente significativo e un volume di traffici commerciali e di rapporti sociali di tutto rispetto.,

   Quanto ai toponimi le percentuali individuate dal Gouillou mantengono sostanzialmente lo stesso andamento di quelle relative ai nomi, ma il misero 4% attribuibile ai toponimi di origine araba ( due soli: Avaria/ Abariah e Nardon) indica chiaramente la pervasività dell’elemento graco che addirittura assurge al 71%, facendo chiaramente intendere che l’elemento bizantino nel volgere di pochissimo tempo ribattezzò quasi completamente non solo la città in sè, ma quasi tutti i luoghi di nuova giurisdizione. Precisamente:


- Toponimi di origine greca: 71%;
- Toponimi di origine latina: 25%;
- Toponimi di origine araba: 4%.

    Questi i toponimi greci: Boutzanon ( barile); Dadin (torchio); Dapidalbòn ( stabile) Hagia- Agathè; Kannabareia ( canapa); Lakoutzana (palude); Lychnos ( lampada); Mystritzena ( cucchiaio di legno);Plagitana (terreno incolto); Kellibitzanos (cenobita?) Skidon (scheggia di legno); Spitizanon (luogo ospitale); Photakei; Katasykas (albero di fico); Myrosmas( deposito di salgemma?); Nomikisès; Sikelos e Sikron (unità di misure ebraiche): Sinopolis..

   I toponimi di origine latina scampati alla tempesta iconoclasta greca e presenti nelle donazioni sono invece pochissimi:; Radikèna; Roubiklon(quercia); Salinae; Friguriana; Oppidon.

    Paradossalmente qualla che doveva essere una vera e propria occupazione di una città in decadenza, si rivelò per Oppidum, nella sua nuova denominazione intitolata alla Santa siracusana per eccellenza, una rinascita vera e propria, forse il periodo di massimo splendore . La città sotto il dominio bizantino crebbe a dismisura sul piano sociale, economico, strategico e culturale con la sua rigida, ma efficace stratificazione piramidale della popolazione. Al vertice il vescovo, capo assoluto della città e dell’intera Tourma delle Saline, quindi preti, strateghi, monaci, arconti, funzionari governativi e amministrativi di ogni genere,militari, contadini e allevatori di bestiame. La mercatura, l’artigianato, la tintoria e la tessitura , la farmacopea, la medicina invece erano affidatate agli Arabi e agli Ebrei del mellah di Oppidum e di tutti i mellah che costituivano contemporaneamente la fogna e il grande tesoro di ogni centro abitato dell’intera Tourma.

lunedì 5 luglio 2021

UN GRANDE CALABRESE, TOMMASO POLISTINA, CAMPIONE DI FEDE, CULTURA E PATRIOTTISMO


di Naty Polistina

   Un'altra figura di formazione oppidese quasi dimenticata nonostante abbia ampiamente segnato la scena culturale e religiosa calabra e italiana  della seconda metà dell'Ottocento, nel ricordo commosso e ammirato di una  Oppidese che vive ancora con orgoglio e passione la propria terra nonostante vi manchi da molti anni. Abituati, come siamo, agli assembramenti sempre più caotici e inconsistenti della scena politica e culturale dei nostri giorni, siamo quasi indotti a dimenticare totalmente queste peculiari figure del passato che per coerenza e singolarità di impegno civile, ideologico e religioso, hanno lasciato tracce notevoli nella storia e nella fisionomia culturale di questa martoriata regione . E’ il caso di Tommaso Polistina. (Bruno Demasi)
 
      Nato a Favazzina, frazione di Scilla, il 4 ottobre 1844, Tommaso Polistina frequentò gli studi classici presso il valente Seminario Vescovile di Oppido Mamertina proprio sullo scorcio di quegli  anni ’60  che vedevano giungere in Sicilia e poi in Calabria le truppe garibaldine portatrici per tanti di un sogno destinato a restare irrealizzato: la distribuzione delle terre ai contadini più che l’annessione , che poi di fatto  avvenne, al Piemonte..  Anni di grandissime e rapide trasformazioni la cui eco probabilmente arrivava ovattata, ma non distorta, nelle austere aule del seminario oppidese, che la famiglia aveva preferito a quello, ben più facilmente raggiungibile, di Mileto per la formazione del loro promettente e intelligente ragazzo sia perchè i Polistina evidentemente avevano delle frequentazioni con Oppido, come molti Scillesi, alcuni dei quali poi naturalizzati nella città aspromontana, sia perchè sicuramente conoscevano il valore di quel rinomato luogo di studio e di formazione. 

Oppido nell'Ottocento
     Il giovane non deluse la propia famiglia e i propri maestri, conseguì brillantemente in Oppido il titolo di studio che gli permise poi di affrontare con entusiasmo gli studi giurisprudenziali a Napoli, dove conseguì la laurea nel 1867. Nella città partenopea iniziò la sua carriera di avvocato distinguendosi per professionalità e impegno morale, collaborando assiduamente con i più illustri maestri del Foro. Fu Presidente del nascente Circolo Giovanile Cattolico che guidò e sostenne con grande dedizione.

     Nel 1891 si trasferì a Reggio Calabria dove sposò la nobildonna Sinopoli Battaglia dalla quale ebbe numerose figlie. Nel Foro reggino occupò un posto di rilievo e, con Diego Vitrioli, Peppino Andiloro e Domenico e Filippo Aliquò fu membro del Movimento di Azione Cattolica con la ferma intenzione di trasformare la situazione locale rimasta estranea alla evoluzione culturale in atto (V. A. Tucci, Il Movimento cattolico calabrese nel Novecento, in “Rendiconti della Rivista di Storia calabrese del ‘900”.). Collaborò significativamente a importanti giornali come “Il Mattino”, “La Civiltà Cattolica” e il giornale cattolico reggino “L’Indipendente”e non si risparmiò come strenuo difensore di varie cause di cattolici in un clima di tensioni tra fazioni clericali e anticlericali. 

Scilla in una incisione ottocentesca
     Sull’onestà intellettuale e professionale di Tommaso Polistina e sulla sua testimonianza di uomo integerrimo e maestro di valori morali Gaetano de Felice pubblicò sull’Osservatore Romano parole cariche di elogio: “Forse non sono molti, specie fuori dall’Italia Meridionale, coloro che siano in grado di valutare l’entità storica della figura di Tommaso Polistina […] Esercitava, l’avvocatura come missione di bene, ed era tanto rigido nel valutare le ragioni dei clienti quanto nel misurare le sue spettanze. Mio zio gli affidò un affare, sollecitamente espletato; e gli mandò, per ringraziarlo, una lettera ossequiosa con tre biglietti da cento lire; ma, nel giorno stesso, il Polistina gliene restituì duecento, dichiarando che, per quanto aveva fatto il giusto compenso era quello! Intesa così la professione non poteva certo arricchirlo materialmente; ma lo arricchì moralmente; circondandolo della stima profonda dei colleghi, compresi quelli che bizze partigiane allontanavano da lui. Io lo seguii fin dalla mia prima infanzia; e m’è chiaro dichiarare che, se nella vita che Dio mi concesse, non breve né lieta, qualcosa di bene mi fu dato operare, in buona parte ne fu ispiratore lui, spesso con un consiglio, sempre con l’esempio [...]” (G. De Felice, Pionieri cattolici nel secolo XIX. Tommaso Polistina, in “Fede e Civiltà”, III serie, nn. 4 e 5, 22 e 29 gennaio 1936, pp. 509-513).

    Tommaso Polistina fu uomo colto e appassionato, per la sua capacità di passare agilmente dalla filosofia, alla politica, dalla religione all’arte e alla letteratura, si occupò con dedizione alla questione del Mezzogiorno, non risolta dall’Unità d’Italia e grazie alla sua facilità nello scrivere denunciò e criticò senza remore gli avversari del malinteso spirito unitario, pubblicando numerosi articoli sulla Rivista “Fede e Civiltà” di cui fu Direttore.  Nel 1869 in occasione della convocazione del Concilio Vaticano I gli fu affidato dal Pontefice la redazione del discorso augurale riprodotto ed esaltato da tutta la stampa cattolica d’Italia.  Nel 1871 cedette la presidenza dell’Accademia della Gioventù Cattolica dell’Immacolata a Biagio Roberti e dopo la presidenza del sen. Raffaele Cappelli, che aveva dato alla Fondazione un’impronta politica non gradita al Pontefice, Tommaso Polistina fu rieletto presidente dedicandosi indefessamente al rifiorire dell’Accademia. Per la stessa Accademia, nel 1875, scrisse sul tema nuovo e ardito “Dell’infallibilità pontificia nei rapporti sociali”; il suo impegno fu benedetto, lodato, sostenuto e incoraggiato dall’allora Pontefice Pio IX che gli dedicò Breve. 

Maria Mariotti
    Di lui la grande Maria Mariotti trascrive un passaggio tratto dall’elogio funebre che delinea con intensità e riconoscenza il suo impegno di uomo e pioniere cattolico, di giurista e di studioso di fama (da G. Calabrò, Tommaso Polistina, in “Fede e Civiltà”, III serie, n. 32, 7 agosto 1926, pp. 506-508):

“Il suo stile era… l’uomo; pieno, elegante, nervoso, fiorito; aveva a volte squisitezze di sentita poesia, quando toccava le delicate corde dei carismi della fede e degli affetti della famiglia e della Patria. A taluno poté sembrare che l’avvocato Polistina sentisse un po' troppo di sé; ma, per un uomo coltissimo e tutto di un pezzo come lui, era naturale un certo sorriso di compatimento per certe mezze intelligenze e certi mezzi – caratteri che, arrampicatisi faticosamente sull’albero della cuccagna si proclamavan giganti. A tal altro poté sembrare che l’avvocato Polistina avesse un po' il prurito delle polemiche andasse stuzzicando gli avversari; ma, confessiamolo, in quel tempo che specialmente nei nostri Tribunali la massoneria sfoggiava sfacciatamente il suo anticlericalismo, e i nostri migliori professionisti si chiudevano in un deplorevole silenzio, figlio di un vile rispetto umano, era pur bello questo cavaliere errante dell’ideale che si accapigliava coi colleghi, coi giudici, coi presidenti per ogni questione di religione o di morale, anche a scapito della propria causa e a danno del proprio cliente […]”
(M. Mariotti, La proposta socio-economica di un “intransigente” calabrese: Tommaso Polistina (1848-1926), in “Memoria e Profezia”, Ist. Sup. di Scienze Religiose di Reggio Calabria nel XX Anniversario di Fondazione, Tip. Zappia, Reggio Calabria 1994, pp. 433-458).

    Tommaso Polistina fu modello di cattolico militante e di professionista perfetto e visse con tanta integrità e sobrietà da sembrare addirittura eccessivo alla società del suo tempo.  Si spense a Napoli, come aveva vissuto, serenamente il 1 agosto del 1926.