giovedì 23 dicembre 2021

Storia dello strano Natale 2021 nel gelo della Calabria e del mondo (di Bruno Demasi)


La non festa nel gelo senza fine della tendopoli di San Ferdinando, della frontiera  Bielorussia/Polonia e di troppe case di Calabria.


    Non c’è poi tanta differenza tra la non  vita in tendopoli a San Ferdinando e la non vita  nella frontiera tra Bielorussia e Polonia, dove in questi giorni una donna ( ma è solo il simbolo di molte altre) ha vissuto il travaglio e partorito in silenzio e di nascosto in un sacco a pelo, ai bordi di un bosco e in un territorio pullulante di militari assistita dal marito e dal figlioletto di quattro anni, nascosta tra gli alberi con il terrore di essere scoperta.
   Nei giorni che precedono il Santo Natale 2021 succede anche questo ai margini della strana storia di questo tempo in cui i politici della civilissima Unione Europea hanno completamente dimenticato quella strana razza umana, etichettata dovunque, anche dalle nostre parti, come “migranti”, “neri”, “stranieri”, usurpatori  di lavori da reietti, da sfruttati, da “vinti” che non cerca e non vuole nessuno.

    Succede ancora a San Ferdinando nella “nuova” tendopoli che tre anni fa tra il plauso di troppi benpensanti ha preso il posto di quella distrutta dalla sera alla mattina dalle ruspe inviate dal prefetto di Reggio Calabria, lasciando nel pieno dell’inverno più di 700 disperati senza un riparo, sia pure lercio e costruito con lembi di plastica, e costringendoli a riparare nell campagne circostanti.Succede ancora in  quella  nuova tendopoli che nel giro di due-tre anni è diventata peggiore della prima: un nuovissimo inferno di malattie e di fame e di freddo e di paura. Lo stersso inferno, in sostanza, di malattie, fame, freddo e paura che intere colonne di esuli, di profughi stanno vivendo in queste ore alle porte sbarrate della Polonia,
     Raccontano che proprio in questa terra, posta ancora una volta come all’inizio degli anni ’40 del secolo scorso al confine tra un girone e l’altro dell’inferno, appena il bambino ha visto la luce, il cordone ombelicale è stato legato con un filo di lana sottratto a un maglione sdrucito e poi reciso con i denti. Se la madre e il neonato ce l’hanno fatta è solo grazie all’intervento di alcuni attivisti medici che perlustrano i boschi a ridosso della frontiera per assistere i migranti in difficoltà, perchè in questa foresta, dove migliaia di esuli si nascondono in condizioni disastrose, nessuno ha il diritto di entrare anche se di notte le temperature scendono a 6 gradi sotto zero e peggiorano ogni giorno che passa. Mancano dati certi, ma si sa che molte persone sono morte per ipotermia e ci si domanda quanti uomini, donne e bambini sono stati sterminati in questo modo perché è chiaro che il divieto di soccorrerli la causa diretta della loro morte. 

   Il bambino nato nella foresta è stato uno dei pochissimi fortunati: i soccorritori lo hanno portato in ospedale con la sua famiglia, ma molti, troppi continuano a morire di freddo e di Covid in silenzio.
   E cosa stanno facendo i politici europei per fermare questo massacro silenzioso? Cosa stanno facendo i politici italiani, a parte qualche leziosa e vacua “Legge sul caporalato”, per ridare dignità umana alle migliaia di disperati che attraversano la piana di Gioia Tauro, agli invisibili alloggiati nelle campagne dove vengono sfruttati e spesso anche lasciati moribondi ai margini delle strade sterrate investiti accidentalmente nel buio di gelide mattinate invernali mentre si recano a raccogliere clandestinamente gli agrumi?
    E’ il paradosso di questa sublime festa che è il Natale, il paradosso nuovo e antico di un altro anno terribile che si sta chiudendo mentre si è troppo occupati a inorridire di questi drammi senza fine per pensare alle tragedie silenziose in cui vivono da queste parti migliaia di famiglie calabresi con quasi nulla, prive anche del conforto della carità perchè marchiati a fuoco dagli spiccioli del cosiddetto “Reddito di cittadinanza” diventato nella grande maggioranza dei casi per inisipienza dei nostri legislatori solo un di più per chi ha le tasche piene e solo per pochi un reale mezzo di sostentamento. 

    Anche molti Calabresi sono  stranieri in patria e  in orripilantte aumento quotidiano e  non hanno niente di diverso dagli stranieri in tutte le patrie del mondo costretti a vivere nei nuovi ghetti o tentando di attraversare i confini innevati di certe nazioni della civilissima Unione Europea per il cui parlamento di tanto in tanto ci chiamano a votare.
   Sono stranieri soprattutto per i “patrioti” italici che bivaccano in certe aule parlamentari.
   Stranieri forse  anche per noi stessi che, malgrado tutto, continuiamo ad augurare Buon Natale, ma stavolta forse avremo almeno il  pudore di augurare molto improbabili “Buone feste”

mercoledì 8 dicembre 2021

LE IMMACOLATE NERE

di Bruno Demasi
   Probabilmente non sarò tacciato di blasfemìa per il titolo di questo piccolo post dedicato alle martiri dei nostri tempi malati, nere di pelle o di freddo o di fame solo da coloro che non hanno il tempo di crogiolarsi in devozionismi ed eventi  fini a se stessi tanto dimenticare la scontata semplicità della Fede che si fa carne solo nel quotidiano delle nostre    misere  contraddizioni nascoste .
    Cosa accomuna l’umiltà della fanciulla di Nazareth, e il suo si a una nuova storia, con la paura di Avin Irfan Zahir, la trentanovenne curda morta due giorni fa al confine della Bielorussia o  con l’umiltà di Confort , dal cuore di madre, e i loro  innumerevoli si alle mille piaghe che  vita  ha loro inferto da quando sono partite dalla loro terra  con la speranza nel cuore, fino all’ultimo giorno  della loro anonima vita nel tragitto infame verso la libertà o nel  ghetto - immondezzaio di San Ferdinando , ancora oggi pomposamente chiamato “tendopoli” ? 

    Forse morire un po’ alla volta, com'è accaduto a  Avin Irfan per l'ignavia dei politici europei, con un bimbo in grembo e altri cinque a cui non è stato permesso di avvicinarsi neanche per l’ultima carezza. Morire dopo avercela fatta. Settimane nella foresta, in Bielorussia. E poi finalmente il bosco polacco. Nascosti per giorni, in territorio dell’Unione Europea, per timore di venire rimandati indietro. Un’agonia di settimane, con un bimbo in grembo da sei mesi, il marito e gli altri cinque figli a non sapere come prendersi cura di lei. Forse sarebbe più giusto dire che così è stata fatta morire. Perché nello scontro tra Ue e Bielorussia, disputato con l’arma dei più vulnerabili da spingere avanti e da rispedire indietro, a rimetterci sono sempre i più fragili.Il decesso è stato registrato venerdì scorso in un ospedale polacco. Vengono tutti dalla provincia curdo irachena di Duhok. Come gli altri anche loro erano riusciti a prendere un volo per Minsk, con la promessa di un futuro in Europa. Lontano dalle repressioni, dalle minacce, lontani da qualsiasi cosa potesse sparare in direzione del loro villaggio. Poi, come gli altri, anche Avin Irfan Zahir è rimasta per giorni nella foresta, tentando invano di raggiungere la Polonia.
   E cosa accomuna la fanciulla di Nazareth a Confort, la cui foto pensosa apre questa  mia misera pagina, che ha vissuto a ritroso lo stesso martirio  qualche anno fa nella tendopoli di San Fedinando?Forse la corsa tardiva in ambulanza all’ospedale di Polistena per morire ignorata da tutti o il povero loculo permeato d’acqua che la pietà di don Roberto Meduri  è riuscito allora a farsi dare dal comune di Rosarno dopo aver elemosinato a lungo di municipio in municipio persino una bara in cui seppellirla? 

    Cosa accomuna l’umiltà di Confort dal cuore angosciato scappata dalla follia del Boko Arham  per andare a finire rinchiusa nella sua tana di stracci dentro una tenda asfissiante d’estate e gelida in questi giorni di inverno a quella Maria di Nazareth scappata dalla follia di Erode e nascosta per anni nelle periferie d’Egitto? Forse una vita silenziosa di stenti trascinata per anni insieme a un marito e a un Figlio ricercati e sfruttati da tutti?
    E che cosa accomuna al mesto sorriso di Maria il sorriso mesto di Confort dal cuore puro quando scopre che i soldi che uno a uno aveva raccolto in silenzio per tornare nell’inferno dell’Africa le sono stati rubati nell’Inferno della Calabria ? Forse la rabbia di non poter urlare al mondo e ai suoi potenti in cravatta “ DEVO vivere anch’io! DEVO, non VOGLIO, perchè la vita che mi è stata data non è mia, è anche VOSTRA, anche se VOI  la disprezzate , la ignorate, la prendete a pretesto per i vostri buonismi e le vostre elemosine di spiccioli che servono a mettervi il cuore in pace!"
 
    E che cosa accomuna i mercanti del tempio, che Maria guarda con orrore mentre il Figlio li fustiga, con i mercanti di morte che Confort e Avin Irfan  dal cuore buono ha incontrato nella sua traversata a piedi di mezza Africa e poi sul mare e poi in Calabria e poi nella tendopoli dove ha trovato la morte ignorata da tutti?

    E che cosa accomuna la sordità delle nostre istituzioni europee, ma anche  , locali, regionali e nazionali davanti alla vergogna di San Ferdinando e Rosarno elevata a sistema, nella quale non si è mai capito che fine facciano le sovvenzioni pagate dallo Stato per questa gente divorata dall’indifferenza , con la sordità volgare dei ras africani dai ventri avidi da cui questa gente scappa a fiumi per cadere nella brace dei ventri senza fondo che continuano a prosperare ovunque nell'ombra o sulle ribalte ?

domenica 28 novembre 2021

LA RICERCA “EDUCATIVA” DI UMBERTO DI STILO E LA PERMANENZA DI GIOVANNI CONIA A OPPIDO

 di Bruno Demasi

    Un educatore è per sempre!

    Mutuando lo slogan di una réclame di qualche anno fa a proposito di Umberto Di Stilo, si potrebbe dire senza paura alcuna di sbagliare che l’imprinting dell’insegnante pervade nel tempo qualsiasi sua altra vocazione: da quella di narratore a quella di storico, a quella di critico letterario. Eppure in questo studioso tutte hanno una loro dimensione originale, tutte convergono a delineare un quadro unitario di ricercatore appassionato della propria terra che nell’umiltà ha scritto e dato tanto alla nostra cultura della Piana di Gioia Tauro e della Calabria tutta, ma senza trionfalismi, senza arroganza alcuna e sempre nella linea pedagogica di chi non fa dei propri studi delle tessere fini a se stesse, ma dei veri e propri momenti educativi e istruttivi rivolti alla propria gente. E’ maestro, Umberto Di Stilo, maestro di scuola fino al midollo, ma anche maestro di letteratura, di storia, di cronaca locale. Maestro anche di giornalismo, praticato in modo non casuale per anni con le sue corrispondenze dall’entroterra aspromontano, pregne di vita e di stile fortemente comunicativo.

    Altri al suo posto avrebbero suonato a lungo le trombe roboanti dell’erudizione. Lui invece è rimasto sempre cauto e modesto, mai polemico con nessuno, educatore per vocazione e per mestiere e solo all’interno di questa dimensione ha fatto spazio con umiltà e serietà anche allo studioso, al ricercatore, al critico e al letterato, come vediamo anche in questa ultima raccolta di scritti, che non era e non è affatto scontata o banale o ripetitiva malgrado la semplicità assoluta del suo titolo VERBA VOLANT (Edisusum 2021), ma costituisce un altro tenace mattone sul solido muro che Umberto Di Stilo continua a costruire per valorizzare la VERA cultura calabrese e non le mille chimere di tanti improbabili narratori e studiosi del nostro tempo che in gran parte hanno perso di vista i valori di questa terra. 

   Una raccolta in cui trovano la loro sistemazione scritta - sempre gradevolissima e rigorosa - gli studi preziosi condotti da Umberto Di Stilo sull’Abate e poeta Giovanni Conìa, ma anche quelli su Paolano Ferrantino e la sua opera, su “ Borrello e Laureana”, su Giuseppe Rito, il poeta della terracotta, sul Natale, sulla “Voglia di Libertà” o anche su una serie di figure dell’arte calabrese sulle quali si è scritto tanto, ma non quello che Umberto Di Stilo ha vergato con passione tutta personale in questo bel libro: Fortunato Seminara, Perla Panetta, Antonio Orso, Sharo Gambino, Rocco Di Stilo, Pierino Ocello, senza trascurare nemmeno stavolta le pagine preziose dedicate alla poesia dialettale, al dialetto e ai canti dei migranti calabresi.

    Ha lavorato molto e con passione tra i banchi Umberto Di Stilo, ma ha anche scritto e dato moltissimo alla propria città e alla propria terra in termini di ricerca e di narrazione , come si può evincere dalla bibliografia essenziale riportata in calce alla presente nota. Qui però, come oppidese e minuscolo cultore di glorie patrie, voglio esprimergli la mia gratitudine per lo spazio dedicato al grandissimo Giovanni Conìa, il poeta galatrese, naturalizzato a Oppido (dove riposa dal 1839) di cui tanti critici letterari, compreso il prof. Antonio Piromalli hanno apprezzato, sia pure tardivamente, l’enorme valore ancora quasi tutto da riconoscere e divulgare e di cui qui mi piace riportare quasi integralmente qualche pagina davvero molto interessante. .

GIOVANNI CONIA E IL SUO BUSTO LIGNEO A OPPIDO


“...Rimase a Mileto fino alla morte del Vescovo Capece Minutolo (maggio 1824) e, dopo aver espletato – nella sua qualità di vicario capitolare – le funzioni di sostituto del Vescovo, chiese (ed ottenne) di essere incardinato nella diocesi di Oppido, retta da Mons. Francesco Maria Coppola, suo affettuosissimo amico da lungo tempo. 

   Sul finire del 1826 si trasferì, quindi, a Oppido ove fu rettore del seminario, cantore, tesoriere, canonico protonotario di quella cattedrale e, soprattutto, professore di teologia dommatica. Come tale, per i giovani seminaristi scrisse un trattato di teologia rimasto inedito. L’opera, scoperta dal prof. Antonio Piromalli, e subito segnalata a mons. Pignataro ( che è artefice di uno studio magnifico e dimenticato, che occorre riprendere , sulle composizioni poetiche di Giovanni Conìa, da lui ripubblicate dopo l’ edizione curata da Pasquale Creazzo n. d r.) si conserva nella biblioteca comunale di Reggio Calabria; si compone di 300 pagine e, scritta dal Conìa nel 1830, è stata manoscritta da Giuseppe Maria Carbone tre anni dopo. La trattazione dal titolo: Sacrae Theologiae speculativae compendium a Joanne Conia...si compone di sei trattati divisi in capitoli e seguiti da un’appendice su alcuni dogmi della filosofia morale.

   In quegli anni la fama di predicatore di eccelse virtù si diffuse in tutta la Calabria sicchè il Conìa, chiamato a salire i migliori pulpiti della Regione, a buon diritto ha potuto cantare

                                                               Eu currijai lu mundu
                                                                 pruppitu non dassai,
                                                               festa non c’era mai
                                                      senza di mia...

    Nel 1829 il nuovo vescovo di Gerace, mons Giuseppe Maria Pellicano, conoscendo la preparazione e la dialettica con cui Conìa rendeva infinitamente preziose le sue conversazioni, volle che fosse lui – già 77enne, ma ancora pieno di energia e di voglia di operare - a tenere il pulpito di quella chiesa cattedrale durante il periodo di Quaresima. 

    In quello stesso periodo la stima per l’uomo di chiesa e per il dotto educatore crebbe sempre più tant’è che i nobili se lo contendevano quale precettore dei loro figli. A tutti rispondeva che non aveva intenzione di lasciare mons. Coppola... Conìa infatti , sia per l’età avanzata che per la fraterna amicizia che lo legava al vescovo Coppola aveva deciso di non lasciare il palazzo episcopale di Oppido. D’altra parte aveva da assolvere ai prestigiosi incarichi che gli aveva conferito il vescovo: protonotario, cerimonista e convisitatore apostolico. A queste cariche mons Coppola aggiunse anche quelle di Esaminatore sinodale e Rettore del Seminario, come se avesse voluto compensare il privilegio che Conìa aveva goduto a Mileto nel periodo intercorso tra la morte di mons. Capece Minutoli e l’insediamento di mons. Armentano....

    Nel 1834 pubblica a Napoli, dedicandola al ministro dell’Interno del Regno delle Due Sicilie, Nicola Santangelo, una raccolta dei suoi componimenti in ricordo delle opere di pubblico bene che lo stesso Santangelo aveva fatto realizzare allorchè, negli anni precedenti, aveva ricoperto la carica di Intendente della Calabria Ulteriore I, o, meglio, come diciamo oggi, la carica di Prefetto di Reggio Calabria. In quegli stessi anni, per i suoi alti meriti letterari il principe dell’Accademia Florimontana di Vibo Valentia, Filangelo Vibonese ( pseudonimo del sacerdote Raffaele Potenza) aggregò alla stessa Accademia il Conìa con il nome di Darisbo Elidonio. Con eccessiva modestia il Poeta, per ringraziare il principe Filangelo,scriveva:

Sbagliò l’Arcadia: i suoi preziosi allòri
quanto stan male di Darisbo in fronte!
Quando questi salì di Pindo al monte?
Quando fu amico delle Muse a i cori?
...........................................................
Prence, ti dò l’omaggio a te dovuto;
ma se pensi condurm’in Elicona,
troppo hai da far: ha da parlare un muto. 
 

    All’età di 87 anni morì di “apoplessia” il 6 febbraio 1839 ad Oppido e fu sepolto nella locale chiesa del Purgatorio, che funzionava da Cattedrale, senza un ricordo lapideo che identificasse la tomba ( Il consiglio comunale di Oppido, su proposta del consigliere sac. Grillo, aveva deliberato a favore della gratuita concessione di un loculo nel cimitero comunale nel quale venissero traslati i resti mortali del Conìa perchè agli stessi venisse data degna sepoltura. Non risulta però che tale traslazione sia stata mai operata. Le ossa del poeta galatrese andarono disperse e nessuno potè onorarle con un fiore o un lumino e tenere desta la memoria del buon Abate. Il 27 maggio 1927 mons. Bruno Palaja in una lettera indirizzata al prof. Letterio Fucile, tra l’altro, scrive che nella chiesa del Purgatorio di Oppido, ove svolgeva la sua quotidiana missione sacerdotale, la tomba del Conìa non l’aveva trovata “in nessun punto”. Ed avanza il dubbio che il buon abate di Galatro possa essere stato sepolto nella fossa comune, (Vedi “Un poeta dialettale nella Calabria reggina” in “Annuario del Regio Liceo Campanella di Reggio Calabria 1927”).
. . . 

   Nel Museo Diocesano di Oppido si conserva l’ottocentesco busto ligneo che ritrae il poeta Conìa in età matura. E’ la scultura che , riprodotta a matita da Domenico Mazzullo, è stata pubblicata in apertura del volume che nel 1929 Pasquale Creazzo ha dedicato alla ristampa di tutte le poesie di Conìa che nel 1834 lo stesso poeta aveva fatto pubblicare a Napoli ( e riportata anche sulla copertina dell’ulteriore ristampa, con edizione critica delle stesse, col titolo “Poesie calabre del Canonico Conìa” pubblicata nel novembre del 1980 da Mons. Giuseppe Pignataro. N.d.r.). A quella ottocentesca scultura si è ispirato il prof. Raffaele Sergio per realizzare il busto del poeta in argilla e gesso che, poi, nel 1974 è stato utilizzato come calco per la fusione in bronzo del busto che dà corpo al monumento che l’Amministrazione Comunale ha voluto innalzare al Poeta e che è posto nell’aiuola che delimita a destra l’ampia scalinata esterna al Municipio di Galatro. 



    Il busto ligneo, dopo essre rimasto per alcuni decenni ad impolverarsi nei locali del Seminario Vescovile, nel 1920 è stato rinvenuto dal vescovo mons. Antonio Galati e, nei primi anni Ottanta del secolo scorso, ‘recuperato’ e maldestramente restaurato. La buona fattura dell’opera, infatti, è stata sminuita dall’impiego di colori troppo accesi coi quali si è voluto colorare non solo il volto del poeta Conìa, ma anche i paramenti che indossava a testimonianza del prestigioso ruolo che ricopriva in seno al capitolo della Cattedrale.

    Conìa, infatti, è raffigurato con lineamenti marcati, con sulle spalle la mozzetta rossa bordata di ermellino – caratteristica dei canonici del Collegio Capitolare Oppidese – e con in testa lo zucchetto. La fronte è increspata dagli anni, ma gli occhi vivaci e le labbra serrate, che abbozzano un sorriso, conferiscono al volto del Poeta un’espressione vagamente ironica e bonaria.

    L’abbigliamento indossato dal Poeta è concreta testimonianza che il busto sia stato realizzato negli anni in cui il Conìa faceva parte degli ecclesiastici di Oppido, perciò nei suoi ultimi anni di vita. L’opera è di buona fattura e, pur non avendo certezze del suo autore, è da ritenere che la sua paternità artistica sia da attribuire a Giuseppe De Lorenzo, sacerdote-artista che l’abate galatrese ebbe modo di conoscere quando era ancora in tenerissima età e lui, da parroco di Caridà, era solito frequentare la bottega del padre, il noto santaro Do menico Der Lorenzo, che operava a Garopoli, piccola borgata periferica di San Pier Fedele, ma assai prossima alla periferia di Caridà, tant’è che nel marzo 1928 venne incorporata proprio a quel piccolo paese, dando vita al nuovo comune di ‘San Pietro di Caridà’.

    Conìa aveva avuto modo di conoscere lo scultore nel 1788, allorchè da parroco di Orsiglia di Rombiolo, volendo dotare la sua parrocchia della statua processionale di San Raffaele Arcangelo, decise di commissionarla al ‘santaro’ più conosciuto ed apprezzato di tutta la zona, Domenico De Lorenzo.... 
   E’ certo...che Giuseppe De Lorenzo, primogenito dello scultore, dopo aver lavorato per qualche anno nella bottega del padre, nel 1815 è stato ordinato sacerdote e che ha incontrato Conìa nell’agosto del 1821 allorchè quest’ultimo, nella sua veste di parroco di Laureana e di vicareo foraneo di quella foranìa, su precisa disposizione del Vescovo, lo convocò perchè ‘da esperto di sacre sculture’(e soprattutto come figlio-testimone dello scultore) rilasciasse una perizia scritta sulla natura dell’ abbondante sudorazione che la statua di San Rocco, scolpita alcuni decenni prima dal padre, inspiegabilmente aveva emanato sera del 21 agosto, prima che avesse inizio la tradizionale processione del Santo per le vie di Stellitanone.

    In questa fortuita, ma obbligata circostanza, tra il giovane sacerdote e l’anziano parroco la conoscenza di un tempo si convertì in reciproca, sincera amicizia e in autentica venerazione del De Lorenzo verso il canuto scrittore- poeta. Nulla esclude di pensare che subito dopo il passaggio di Conìa alla curia di Oppido e la sua promozione alla dignità di canonico, il giovane De Lorenzo - sacerdote ancora libero da responsabilità parrocchiali, ma impegnato a rifinire le statue lasciate incomplete dal padre e a realizzare quelle commissionate direttamente a lui – abbia voluto fare un omaggio personale al suo autorevole amico e, perchè di Lui, insieme ai versi, rimanesse anche una memoria visiva, abbia fissato nel legno la sua bonaria fisionomia che, appena ultimata, ha donato al diretto interessato...” 
 
BIBLIOGRAFIA DI UMBERTO DI STILO

Antologia poetica (1984); Un poeta nel mirino (1985); Il Natale nella poesia di Giuseppe Blasi (1987); Il giovane dagli occhi di cielo (racconto 1987); Racconti (1988); Mella è Mamerto? (1989); La poesia di Paolano Ferrantino(1990); Arti, mestieri, professioni (nei dialettin e proverbi calabresi, 1991); Il Tempo ( nei detti e proverbi calabresi,1992); I vizi capitali ( nei detti e proverbi calabresi,1993); Le stagioni della vita ( nei detti e proverbi calabresi, 1994); ‘U ventu sparti ( norme giuridiche della civiltà contadina nei detti e proverbi calabresi, 1995); Il mio Natale ( racconti, 2000); La Divina Commedia in dialetto calabrese tradotta da Giuseppe Blasi (2001); Il Cinquecentesco Trittico marmoreao della chiesa parrocchiale di Galatro (2005 – premio ‘Calabria 2006’ per la saggistica); Vocabolario del dialetto di Galatro (2010 - Premio ‘Giuseppe Calogero alla cultura’ 2011); Il culto della Madonna del Carmine a Galatro (2011); Bozzetti galatresi ( 2013); Una chiesa, una parrocchia (2014); Un paese nel pallone (2015); Fiori di campo ( 2016); Nicola Garuffi ( 2017); Il posto vuoto (racconto 2017); Galatro (pagine di storia, 2019); Fogli sparsi (2020), Verba volant (2021).