domenica 21 maggio 2023

Mémoires 5: TRA BARACCOPOLI E BARACCATI... ( di Rocco Liberti)




     A Oppido Mamertina, e in genere in tutto il contesto preaspromontano, se si escludono le belle pagine scritte da Fortunato Seminara per Maropati, le baracche e le baraccopoli non sono più neanche un ricordo, specialmente per le nuove generazioni. Eppure si trattava – e, per i pochissimi brandelli che ne restano, si tratta ancora oggi - di testimoni muti e drammatici di un’epoca in cui alle povertà ataviche dei luoghi si erano repentinamente sovrapposte quelle del terremoto e delle guerre in un territorio che conosceva e conosce bene tutte le miserie, ma anche la voglia sovrumana di ricominciare.

     Proprio di questa situazione antica con cui dobbiamo ancora fare i conti, di questa voglia di ripartire da zero che ha sempre distinto la nostra gente ci è garante Rocco Liberti, che in questa nuova e ricca pagina di Mémoirers inedite ci riporta nel vivo di una situazione umana e sociale insospettata e tutta da riscoprire.

     Il racconto si dipana con l’abituale rigore, ma con grande simpatia per un passato doloroso, sebbene , a modo suo, non privo di spunti di allegria e il ricordo diretto ci ripropone personaggi ( si pensi tra tutti alla "Tabacchinera" o al valoroso e compianto Canonico Armino) e situazioni che vale veramente la pena far rivivere: un motivo in più per rinnovare la nostra gratitudine, e non solo di Oppidesi, all’Autore , alla sua maestria di ricercatore e storico, ma anche di testimone di un'umanità davvero perduta. (Bruno Demasi)

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 Fino agli anni '30 il nucleo centrale di Oppido era interessato da estesi raggruppamenti di abitazioni legnamate, in particolare l’odierno corso Luigi Razza, ch’era stato appositamente aperto con l’obiettivo di raggiungere più agevolmente Tresilico. Conosciuto già come Rettifilo o ‘a strata nova (la strada nuova; imperativa, a causa dei mezzi in percorrenza, la raccomandazione delle mamme ai figli piccoli: non cridu ca’ vai nd’a strata nova!), per portarvisi in antecedenza bisognava andare su altro percorso e varcare il Piliere. A siffatto scopo c’era stato perciò bisogno di allestire un ponte che collegasse direttamente, opera occlusa ad ovest in occasione della sopraelevazione della strada oggi intitolata a Geppo Tedeschi e ad est parecchi anni appresso con la realizzazione della casa Sofo. Tuttora per indicare un’area nelle vicinanze si dice: dopo il ponte di Tresilico o prima. In progressione era logico che di due paesi se ne costituisse uno. Peraltro Tresilico, in passato casale di Oppido, era stato elevato a Comune dall’amministrazione francese appena durante il noto Decennio. Nel 1927 il più piccolo agglomerato alla fine ha chiuso come entità comunale. Raggiuntasi la conurbazione non aveva più ragion d’essere. Già in una delibera del consiglio comunale di Oppido del 27 maggio 1907 si dichiarava espressamente: «Ponte Nozzenti, che è il limite tra il territorio di questo Comune e quello di Tresilico, a causa dei nuovi fabbricati già costruiti e che si vanno costruendo lungo il percorso del tratto medesimo lo rendono strada interna dello abitato…».

    Il ponte era così detto dal nome della contrada. Comunque, per diverso tempo tra Oppidesi e Tresilicesi c’è stata una certa rivalità e ricorrenti gruppi, incrociandosi, non esitavano a sfottersi apostrofandosi di volta in volta Oppitisi o Trisilicoti e scambiandosi i blasoni popolari tramandatisi da chissà quale generazione: Trisilicoti mancanti mancanti, omini e fìmmini tutti briganti oppure A Oppitu od anche a Trisilicu tri campani omini e fìmmini tutti p.... od anche A Trisilicu o a Oppitu tri cannistri omani e fìmmini tutti maistri e avanti di questo passo. In alcune occasioni si arrivava perfino alle mani. L’offesa andava lavata! 


   Ma veniamo alle baracche. Oltre a una lunga fila di edificazioni in gran parte conosciute come viennesi sulla via tra Oppido e Tresilico, altre di diversa provenienza se ne trovavano al rione Tuba, al rione Caciagna, alle spalle della chiesa di San Giuseppe, nei pressi della via Marconi, posteriormente al Municipio, negli slarghi divenuti poi piazza Mamerto oggi Albano e Concesso Barca.

 Il blocco che ha resistito maggiormente è stato quello sulla via Piliere a partire dalla chiesa del Calvario. Allorché nel 1954 il vescovo Maurizio Raspini ha compiuto l’ingresso ufficiale nel capoluogo della diocesi, con un pensiero rivolto alla precarietà della gente che vi dimorava ha chiesto espressamente di transitare dalla località dove insistevano le baracche. Non sono trascorse molte lune e il caseggiato ha raggiunto del pari una logica conclusione. Vicino vi sono stati costruiti in sostituzione alloggiamenti in muratura. Sono fra le ultime case così dette popolari dopo i complessi nati al rione Tuba, al rione Caciagna, in vicinanza della chiesa di San Giuseppe, ai lati del corso Razza e a Tresilico. I muri di alcuni abituri in una fase non sospetta sono stati ricoperti da sottili pareti in calcestruzzo che alla vista hanno celato la loro origine. Bene! In certi periodi, leggi miracolo, vi sono sorte stabili dimore. Qualche casotto ligneo è dato osservarlo tutt’oggi. Uno si può scorgere in prossimità del corso Razza, ma in territorio dell’ex comune di Tresilico, vicino a una fontana che da tempo non emette più acqua. Mi è capitato quand’ero ragazzo di entrare nelle baracche, ma ne ho una vaga reminiscenza. In una di esse operava una farmacia, la farmacia Macrì (il dr. Macrì era un varapodiese) successivamente Scarfone. Era ubicata esattamente all’inizio della via Ugo Foscolo, tra il bar Dolce Via e la panetteria Le Gioie del Pane. Ho bazzicato frequentemente presso una baracca piuttosto complessa e di tipo signorile con corridoio e vani a lato ch’era dei Longo, ma in fitto al maestro pseudo avvocato Buda. Usufruiva di due giardinetti, uno davanti altro dietro. Trovandosi a pochi passi da casa mia sul tratto che scorre tra l’ufficio postale e la residenza dei Feis, ma al tempo dei Lentini, ci mettevo poco ad appressarmici.

 

   Negli ultimi tempi a fare le spese dei monelli erano le baracche lungo via Piliere. Avendo il tetto di lamiera, era quasi un invito a nozze dare il via a una sassaiola. A subire maggiormente era la prima della serie pressoché attaccata al sagrato della chiesa del Calvario, che ospitava una numerosa famiglia. Ad ogni azione il capo di essa, un canestraio, usciva a perdifiato imprecando e cercando di acciuffare qualcuno della masnada, ma, marameo, quelle birbe si dileguavano in un battibaleno. Allora se ne avvertivano di ragazzacci in giro e anche di ciottoli, che apparivano seminati in tutte le strade! Questi ultimi erano belli e pronti e a iosa. Di norma lungo le strade principali si allestivano blocchi di pietre sminuzzate che poi i cantonieri provvedevano a spargere lungo l’asse viario dove necessario. La vita nelle bidonvilles, ce n’erano ovunque nei paesi terremotati, è stata magistralmente proposta, tra altri, da due narratori calabresi, d. Luca Asprea in relazione a Oppido (Il Previtocciolo) e Fortunato Seminara per quanto riguarda Maròpati (Le baracche).

    Non solo le famiglie usufruivano di ricoveri lignei. Anche i riti religiosi si celebravano in chiese baracche. La cattedrale detta appunto la cattedrale baracca si rinveniva su quella che oggi è la via Mamerto proprio di fronte all’asilo oggi sede di uffici dipendenti dalla diocesi. A seguito della costruzione del nuovo duomo completato nel 1935 è stata negletta e in essa, forse già alquanto ridotta, l’arciprete De Marte ci conduceva per assistere a proiezioni cinematografiche. Aveva preso il posto della chiesetta del Buon Consiglio di patronato della famiglia Grillo incorsa nel terremoto del 1908 e quindi demolita. In sua vece c’è oggi la casa canonica. Anche l’altra parrocchia cittadina, l’Abazia, aveva a disposizione una chiesa di legno come pure quelle agenti a Tresilico e Zurgonadi. 


    Le baracche hanno sopperito a lungo alla mancanza di case. Erano solide e mantenevano abbastanza tiepido l’ambiente, ma che succedeva? Per cucinare, riscaldarsi nell’inverno e compiere altre operazioni ci si doveva servire necessariamente del fuoco e la disattenzione di qualcuno poteva portare a effetti catastrofici. Non di rado perciò c’era il rischio di rimanere del tutto sinistrati. Si racconta di vari incendi scoppiati nei quartieri, ma non me ne rammento di particolari. In ogni occorrenza era la campana più grande della chiesa di San Giuseppe a chiamare a stormo la popolazione. Emetteva un suono così fragoroso e lugubre che atterriva. Oggi non si nota tanto anche perché la torre campanaria è stata schermata. Diceva mia madre che quando sentiva rintoccare da quella parte si metteva subito grande paura. Ricordo invece che in una baracca venivano di tanto in tanto tolte tavole, ch’erano accese a fine di mitigare il rigore del freddo. Ebbene, togli oggi togli domani, in una nottata particolarmente ventosa la baracca si è rotta in mille pezzi che il vento ha sparpagliato di qua e di là. Allora il vento dominava sovrano. Era in carico a Dovardo (Edoardo M.) padre di numerosa famiglia e si trovava sull’odierna via Sturzo dove ora sorge una casa popolare. Ne sono stato testimone il giorno dopo in quanto posizionata a poche decine di metri da casa mia.

    Sono stato presente a disastro completato in occasione di un vasto incendio sviluppatosi credo sul finire degli a. 40. Era una giornata in cui imperversava un fortissimo levante quando il fuoco, partito dalla casa di Marafioti, proprio a ridosso della caserma dei carabinieri, si è subito propagato ad altre due sulla stessa fila. Quella propriamente a lato abitata dalla tabacchinera e da sua figlia se non tutte e due era una baracca. La tabacchinera, com’era chiamata, era reggina e gestiva una rivendita di sali e tabacchi sul corso proprio avanti al municipio. Nonostante l’intervento massiccio della popolazione ogni cosa purtroppo è finita arsa al gran completo. Non è rimasto alcunchè di utilizzabile. Al loro posto sono sorte le case del dr. Giovanni Sposato e oggi appartenenti ad altri proprietari. Ricordo bene che a darsi da fare con gran foga fino all’ultimo dominava l’onnipresente canonico Armino, rivelatosi proprio l’anima della situazione. In mezzo a quei tizzoni ancora ardenti e col fumo che non faceva respirare aveva tutta la veste talare bruciacchiata e lui in volto appariva nero come un africano.  
Rocco Liberti