di Umberto Di Stilo

In tempi in cui nel Parlamento e nei luoghi del potere si litiga violentemente sulle rappresentanze maschili e femminili da calcolare all'interno delle istituzioni, la Piana non si accalora più di tanto: i nostri problemi veri infatti non riguardano i bilancini con cui dosare le "quote", ma la sopravvivenza della " Famiglia", violentemente fustigata dalla crisi economica e da secoli di povertà , spesso decimata ancora oggi dall'emigrazione di ritorno, quasi sempre bistrattata perchè usata, nel suo nome, come sinonimo di aggregazione ndranghetistica, mai supportata dalle istituzioni, preda di un Fisco sempere più esoso, marginalmente considerata dalla cultura dominante, che oggi tende a disgregarla piuttosto che a preservarla, e dalle stesse aggregazioni ecclesiali che sembrano ricordarsene solo in determinate "giornate" e non
Eppure... la Famiglia dalle nostre parti, nella nostra cultura, non solo sopravvive, ma continua a vivere tenacemente la sua grande storia, che è storia del nostro essere sociale, della nostra stessa civiltà, come spiega e documenta Umberto di Stilo, che ringrazio, in questa ricca pagina tratta dal suo libro 'U ventu sparti" - Edizioni ACRE, Mongiana, 1995 - . (Bruno Demasi)
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Nella società contadina la famiglia
tendeva ad organizzarsi come una unità produttiva, sia esterna - quando i
suoi componenti provvedevano a portare i prodotti della campagna al mercato -
sia interna - quando i suoi componenti si dedicavano alla preparazione dei
cibi, alla tessitura ed alla preparazione della “dote” da dare alle figlie, ai
lavori domestici -.
Questa era la famiglia patriarcale nella
quale i poteri, in maniera gerarchica, erano accentrati dal vecchio
paterfamilias che sovraintendeva a tutte le attività e curava la distribuzione
dei ruoli e dei compiti. Condizione indispensabile perché una famiglia
prendesse forma e consistenza, oltre ai due coniugi, era il domicilio. Cioè la
casa, il “loco”.[1]
E, soprattutto nella società contadina, il termine “loco”, nella parlata
popolare calabrese, per parecchio tempo, è stato sinonimo di famiglia.
Infatti, quando veniva affermato che cu’
non’avi focu non avi locu si voleva intendere che non può assaporare i
piaceri della casa e dell’affetto chi non hafamiglia.
Il significato del proverbio non cambia
se, come in diversi paesi avviene sovente, vengono invertiti i termini “focu” e
“locu”. Infatti c’è pure chi ricorda che cu’ non’avi locu non’avi focu. In questo caso è il
termine “focu”, cioè il “fuoco”, che assume il significato di famiglia. A
tal proposito è il caso di ricordare che per molti secoli proprio il
termine “fuoco” fu sinonimo di famiglia tanto che nei censimenti si
contavano i “fuochi” (dai quali, volendo, si risaliva al numero degli abitanti)
e non, come adesso, le singole persone. L’imposta più diffusa fu proprio quella
del “focatico”. [2]
In questa seconda versione il proverbio sostiene (e non senza fondamenti di
verità) che non ha stabilità e tranquillità la persona che non ha
provveduto a crearsi una famiglia.
Ovviamente il riferimento è agli uomini
giacché in una società maschilista come quella contadina, la donna viveva una
condizione di totale subalternità e non ha mai avuto potere decisionale, né
prima né dopo il matrimonio che, quasi sempre, non costituiva una sua libera
scelta, ma le era imposto dai genitori [3]
che, non di rado, sceglievano il “marito” da dare alla figlia quando questa era
ancora in fasce o, comunque, ancora bambina. Il matrimonio non era, pertanto,
l’espressione di una libera scelta, ma una imposizione paterna, frutto di
calcoli di opportunità finalizzati più che all’ampliamento della
parentela al consolidamento ed all’accrescimento dei beni immobili familiari,
del patrimonio, o della “robba”.
Forse anche per questo il proverbio
sottolineava che maritu e figghi comu Ddiu ti manda ti li pigghi. Sicché ogni giovane donna, anche se in cuor
suo era contraria al matrimonio, non poteva opporsi alla volontà dei genitori.
E andava a nozze perché sin da bambina le avevano ripetuto che ‘a fimmana senza statu è com’ ‘u pani
senza levatu. Assai discutibile preconcetto che aveva, come esatto
contrario, un altro proverbio col quale, nella spicciola cultura
popolare, faceva il paio con ‘a fimmana
maritata è di tutti rispettata (Galatro). E, quasi a completare
quello che era un vero e proprio lavaggio del cervello, contribuiva anche il
proverbio col quale si affermava che ‘a
fimmana maritata è misa all’onuri du’ mundu (Galatro),dal
momento che col matrimonio la donna si integrava nella collettività ed
acquistava quella dignità e quella indipendenza che non le erano riconosciute
da nubile, quando il solo fatto di essere signorina (e, quindi, “figlia di
famiglia”) la abbassava al rango di parassita.
Da sposata una donna faceva conoscere le
proprie capacità e, collaborando col marito nella conduzione amministrativa
della famiglia, non di rado, riusciva a mettere in luce quelle qualità che le
facevano guadagnare stima ed ammirazione da parte della famiglia e,
soprattutto, anche da parte della comunità.Ciononostante, la moglie, per un
atavico principio che attribuiva all’uomo ogni autorità ed ogni potere
decisionale, era destinata a vivere appartata, all’ombra del marito,
intenta solo ad allevare i figli, e solo raramente le veniva consentito
di presenziare alle discussioni che, per motivi di affari o di lavoro,
gli uomini della famiglia avevano con amici e conoscenti. Soltanto alle donne
appartenenti a famiglie delle classi meno abbienti era consentito sedere
a tavola insieme al marito, quando in casa erano presenti ospiti forestieri.[4]

Certo è, comunque, che il capofamiglia
dei proverbi è burbero, è duro, è “padrone” e, come tale, pretende la
cieca obbedienza da parte di tutti i figli, anche quando questi hanno raggiunto
la maggiore età e, magari, hanno già aperto una famiglia propria. Ma, nella
famiglia patriarcale, nessuno si sognava di discutere e di mettere in dubbio
l’autorità paterna. Dunque nella sua stringatezza è assai chiaro il proverbio
che ci ricorda che ai quei tempi il genitore era un vero padre padrone e
che, come tale, doveva essere riverito e ossequiato.
La presenza dell’uomo-capo
famiglia dava sicurezza e tranquillità alla casa e
la nobilitava, più di
qualsiasi blasone. Si diceva, infatti, che la casa chi non avi omu non avi nomu oppure: casa senza omu, casa senza nomu. Il
casato prendeva il nome dell’uomo. Per questo c’era chi ricordava che l’omu avi ‘u nomi. All’uomo, però,
venivano riconosciute anche altre doti. In effetti oltre a provvedere al
necessario per assicurare la tranquillità economica alla famiglia ed a
tramandare il nome del casato mediante gli eredi, l’uomo conferiva
dignità alla famiglia dimostrando dedizione al lavoro e tenendo un
esemplare comportamento sia in casa che in seno alla comunità.
(Umberto Di Stilo).
(Umberto Di Stilo).
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(1)
Nell’antichità classica il “locus “ (come domicilio domestico) era
considerato sacro. Non manca chi, estensivamente, per loco intende anche
“paese”. Il detto “cui muta locu, muta ventura ”, infatti, a Galatro è
ancora usato nel significato di “chi cambia paese cambia condizione”.
(2)
Per moltissimi anni, l’imposta famiglia si chiamò “focatico” (dal latino
medievale “focàticum “). Mediamente, ogni fuoco corrispondeva ad una
famiglia composta da cinque persone.
(3)
Volendo approfondire questi aspetti, Vedi: U. Di Stilo: Le stagioni della
vita , Mongiana, 1994, pag. 59 - 90.
(4) Vedi: Galanti: Della descrizione geografica e
politica della Sicilia - vol. 2°- (a cura di Assante e De Marco), Napoli,
1969, pag 243.