lunedì 8 agosto 2022

I FATTI DI CASIGNANA E QUELLI DI MESSIGNADI

di Bruno Demasi
 

  Casignana, in provincia di Reggio Calabria, è stato ed è  uno dei più piccoli granelli di sabbia alluvionale di cui è intessuta l’intera Calabria, un grumo pudìco di case svuotato prima dalla fame e poi dall’emigrazione da cui non ti aspetteresti mai si potesse levare una voce di protesta contro le ingiurie della storia.
   A Casignana ( come a Torre Melissa e, in parte, a Messignadi) infatti occorre fare riferimento se si vuole tornare brevemente sulle lotte contadine al Sud ed avere anche per la nostra terra i riscontri letterari che il Verga inserisce nella sua celebre novella “Libertà”, in cui racconta i fatti di Bronte, o Francesco Iovine nel romanzo “Le terre del Sacramento” con cui traccia un affrresco sull’occupazione delle terre nel Molise. 
 
   Sul villaggio rurale calabrese , protagonista di un ruggito e non di un belato di protesta, si sono fermati lo sguardo acuto, la passione politica e la penna di Mario La Cava che racconta proprio di una delle prime occupazioni di terre in Calabria. nel lavoro intitolato “I Fatti di Casignana” , a suo tempo pubblicato da Einaudi in una tiratura che raggiunse pochi lettori e recentemente  riproposto in una bella e accurata edizione da Rubbettino, editore coraggioso che sta  ridando lustro alla letteratura e alla cultura calabrese malgrado i voltafaccia di tanti intelletuali nostrani ammaliati da altre case editrici e da altre sirene politiche...
  Un'occupazione di terre   che sembra esordire in un tripudio avallato dalla Prefettura: " Fu una bella giornata, nella quale si dimenticò che la carestia avanzava, che il padrone ancora esisteva nei campi che circondavano quella foresta, e che i suoi dipendenti più fidati li seguivano passo passo sulle colline di fronte per controllare e riferire. Fu una  giornata di festa., come quando si andava a Polsi per chiedere grazie alla Madonna o per offrire voti, e si ballava, si gridava, si tiravano colpi coi fucili, per dimenticarte le pene. Anche allora il pòadrone scompariva, diventava un uomo come gli altri, bisognoso di aiuto e proltezione. E ora egli non si sarebbe più avanzato contro di loro, non  li avrebbe soverchiati con la sua potenza. Avevano il governo dalla parte loro e nessuna congiura li avrebbe sorpresi."

    All’indomani della Grande Guerra, come osserva Gaetano Cingari, «La propaganda socialista si faceva più capillare e più efficace, e a Casignana e in tutte le terre di quel comprensorio ionico giovani intellettuali e professionisti abbracciavano l’ideale socialista e la battaglia dei contadini”. Un ideale che per i contadini casignanesi si concretizza come obiettivo di lotta nella conquista per il popolo affamato nella foresta Callistro, «dove crescono i lentischi e le ginestre».
    Le loro rivendicazioni, spalleggiate da un gruppo di borghesi illuminati, che hanno alla loro testa il medico Zanco e il brigadiere Colombo, si scontrano nella intransigenza di don Luigi Nicota, tipico esponente della conservazione più ottusa. La strategia di don Luigi, spalleggiato dalle prime squadre fasciste, è semplice: cercare la provocazione, fare intervenire i carabinieri, imporre l'«ordine», riportare le lotte contadine indietro di anni. Confusamente intravista, l'alba di un socialismo umanitario è presto sopraffatta dalle tenebre del regime che va consolidandosi. 
  Quanto avveniva sul litorale ionico di questa disastrata provincia, su quello tirrenico, a parte qualche qualche barlume registrato, come si diceva a Messignadi,  era forse soltanto un sogno destinato a restare tale o a trasformarsi in un incubo persistente tutt'oggi.
 

   Il 21 settembre 1922 carabinieri  e fascisti aprono il fuoco contro i braccianti della piccola cooperativa "Garibaldi", che stanno occupando le terre; rimangono uccisi l'assessore socialista Pasquale Micchia e due contadini, Rosario Conturno e Girolamo Panetta, mentre il sindaco Francesco Ceravolo resta gravemente ferito. Questo eccidio concluse tragicamente l'occupazione .

     Dopo appena quindici giorni da questi fatti all'inaugurazione del Fascio di Casignana partecipò  il gerarca fascista Giuseppe Bottai. Era preoccupato per la nascita di una nuova classe dirigente in grado di liberare i contadini dal predominio dei proprietari terrieri e, dunque, di ottenere un ampio consenso. Quando il gerarca fascista lasciò Casignana per andare alla stazione ferroviaria di Bianco qualcuno, nascosto dietro le rocce, esplose due colpi di rivoltella, uno dei quali ferì all’avambraccio sinistro un giovane fascista. Quasi immediatamente molti pensarono ad un finto attentato, ma l’episodio venne usato come pretesto per danneggiare la casa di Giuseppe Naim, presidente della Cooperativa Garibaldi.
    Il quadro tracciato da La Cava è di  grande significato: fa intendere con chiarezza che le grandi lotte non furono e non sono mai necessariamente giocate nelle grandi città, ma   evita anche  le secche di una generica esaltazione romantica o populista.
    E meno male…! Perché oggi  l'accusa sciocca di  “populismo” per molti , moltissimi conservatori italici travestiti ancora da progressisti,  è   il marchio a fuoco di ogni lotta sociale che si rispetti…! 
 
    Dopo l’occupazione delle terre a Casignana e l’arrivo del Fascismo ogni desiderio di terra venne barbaramente soffocato e occorrerà arrivare al dopoguerra per registrare una lotta simile e nuova che nel 1950 si conclude in maniera ugualmente tragica a Melissa e a Petilia, nel Crotonese, ma  quella è una pagina  a sè stante (cfr anche  qui  GIUDITTA LEVATO NON SI TOCCA !), una pagina cruenta anche quella che però fu foriera di grandi entusiasmi nella piana di Gioia Tauro e in vari centri del reggino. La lotta per l' occupazione delle terre a metà secolo si accese  infatti sulla costa ionica da Caulonia e Focà, Stignano, fino a Canolo,  Bova, Palizzi; si accese nel circondario del capoluogo a Ortì, Arasì,Cannavò, Straorino e sulla costa tirrenica, oltre Messignadi,  interessò, sia pure in modo alterno e con esiti quasi sempre deludenti Barritteri, Cannavà,   Gioia Tauro, Melicuccà, Molochio, Palmi,  Polistena, Rosarno, S. Ferdinando, S. Martino, Seminara,  Taurianova e Tresilico. 
 
    Annota Domenico Caruso in un suo articolo (Assalto alle terre e questione meridionale Il servizio di Domenico Caruso è stato pubblicato su "Calabria Letteraria" - Soveria Mannelli CZ - Anno XLIX - n. 7/9 Luglio-Sett. 2001 e su "Arianova Metropolipiana" - Taurianova RC - Anno VI n. 34 - Giugno/Agosto 2001). “In un volantino firmato "Il Contadino", distribuito nella Piana di Gioia Tauro, si legge testualmente: "Compagni, contadini della provincia di Reggio Calabria! Lunedì 6 marzo i vostri fratelli di fatica e di speranza di Rosarno, S. Ferdinando, Gioia Tauro,…per la prima volta nella nostra provincia sono scesi in lotta per rivendicare il diritto al pane e al lavoro occupando le terre incolte e malcoltivate, gli uliveti e gli agrumeti dei grossi proprietari delle loro zone, così come hanno fatto i vostri fratelli di Catanzaro e Cosenza. Essi chiedono la vostra solidarietà e vi invitano ad unirvi nella lotta in modo che sia certa la vittoria contro gli agrari sfruttatori delle loro e delle vostre fatiche e sia dato inizio alla riforma agraria, contemplata nella Costituzione Repubblicana, ma negativi della Democrazia Cristiana e dal governo dei ricchi". 
 
    Secondo Enzo Ciconte ( "All'assalto delle terre del latifondo" - Comunisti e movimento contadino in Calabria - (1943 - 1949) - (F. Angeli Ed. MI - 1981): "Presero parte all'invasione delle terre circa 14.000 lavoratori, uomini e donne. Sono state occupate terre, in maggior parte oliveti, per una estensione di circa 8.000 ettari di cui sono stati richiesti in data precedente alla invasione 2.142 ettari tramite tre cooperative, mentre la rimanente estensione è da richiedere. In totale il movimento, dal 6 al 12 marzo 1950, si è esteso in 45 Comuni e ad esso ha preso parte una massa di circa 25.000 lavoratori. La lotta è stata condotta con entusiasmo da parte dei lavoratori a cui non sempre corrispose quello dei dirigenti. In alcuni centri come Rosarno, Palmi e S. Ferdinando la lotta ha assunto aspetti drammatici per i continui soprusi della polizia che spesso intervenne violentemente per spezzare il movimento nei centri più combattivi. La polizia, non essendo in condizioni di controllare e comunque dominare il movimento, ha cercato di decapitarlo fermando ed arrestando i dirigenti sindacali ed i lavoratori più combattivi". In particolare a S. Martino di Taurianova, organizzati dalla Camera del Lavoro, una ventina di contadini si recarono nella località 'Figurelle'. Quivi giunti limitarono un vasto appezzamento di terreno con dei pioli ed iniziarono a potare gli olivi. Ma, in serata, furono dispersi dai Carabinieri che riuscirono a rilevare i nomi di alcuni lavoratori per denunciarli". 
 
     Nella carestia del dopoguerra “... i nostri contadini, - continua Domenico Caruso in una sua bella pagina  - affamati di terra e pieni di fiducia nelle istituzioni, si erano recati nelle proprietà degli agrari per lavorare e sopravvivere. Furono scacciati con le armi ed i campi si macchiarono di sangue. Hanno, quindi, intrapreso in massa la via dell'esilio - rappresentata dall'emigrazione - con le valigie legate con lo spago; hanno sbattuto sul suolo i tacchi per liberarsi delle ultime tracce di terra e per non tornare; hanno conservato nel portafogli le immagini dei propri cari e quelle dei loro Santi. Sono partiti arrabbiati e con le lacrime agli occhi, ma fieri delle loro antiche origini. Sono rimasti i vecchi e i bambini a pregare e ad implorare un prossimo ritorno. Sullo stesso treno ma in prima classe, perciò lontano da occhi indiscreti, il deputato si recava a Roma per riferire che si era liberato dei "cafoni" dopo aver loro sottratto il voto. La nostra penna - intanto - rendeva certa la speranza dei diseredati, dei "cafoni" che avevano ragione dei ricchi:

"'Gnuri e pezzenti"
Amaru cu' non havi 'nu pertusu
e 'nu lavuru pe' tirari avanti,
veni trattatu da cani rugnusu
puru da li perzuni 'nteressanti.
Su' propriu chisti 'gnuri senza cori
chi 'nci fannu provari gran dolori:
ma veni 'n jornu chi la rota gira
e lu pezzenti arriva la so' mira!” 
 

    Se, come si è visto,  i tentativi di occupazione delle terre si moltiplicarono nel secondo dopoguerra nella provincia reggina, quello accaduto a Messignadi, frazione di Oppido Mamertina fu sicuramente singolare e  degno di attenzione ed è di certo il più vicino per analogie di vario genere ai "Fatti di Casignana" tragicamente avvenuti molti anni prima.
   Come per la Foresta Callistro di Casignana  anche a Messignadi si trattava di occupare e di distribuire una considerevole estensione di terreno denominata "Bosco Faraone", in gran parte incolta, ma fertilissima, della quale molti contadini locali coltivavono spesso di strafono i lembi più marginali sfidando il piombo e le angherie dei "guardiani" che a ragione, ma più spesso senza alcuna legittimazione, si arrogavano il diritto di controllare quelle terre di cui era affamatissima la gente del borgo vicino a Oppido Mamertina.  Gente tradizionalmente legatissima al lavoro e alla terra e capace di faticare molto duramente pur di strappare alle pietre i frutti elementari per la sopravvivenza.
   Non si sa da dove e come partì l'idea di occupare  "Farone", ma essa nel brevissimo volgere di pochi giorni, se non di ore, fu sposata quasi da tutti e il paese si mobilitò  dietro  Francesco Zimbè, dirigente locale  della CGIL che era riuscito a creare in paese una sezione socialista con ben oltre un centinaio di  iscritti e moltissimi simpatizzanti, donne comprese.
   L'amplissimo  terreno quasi interamente incolto  da occupare e distribuire alle famiglie messignadesi, costituite esclusivamente da braccianti,  si estendeva  su un largo e fertile pianoro incombente con le sue falde ricchissime di vegetazione sulla fiumara Serra, più a monte denominata anche Jona e interessata, per la straordinaria ricchezza delle sue acque, da una piccola centrale idroelettrica, che produceva agevolmente molta corrente,  e da un antichissimo tratturo che da Messignadi portava a Molochio. Era un territorio che per la sua peculiarità faceva gola alla gente che viveva di niente, quand'anche fosse stato frazionato in appezzamenti piccoli o piccolissimi, e ciò aumentava di gran lunga l'efficacia della proposta di Zimbè. Diverse centinaia di persone  (le cronache parlano di duecento, ma verosimilmente moltissimi altri si aggiunsero strada facendo) in una fredda  giornata di inizio  marzo  si radunarono quasi all'uscita del paese e in modo eterogeneo e scarmigliato si diressero rumorosamente verso il Bosco Faraone. Era presente infatti gente di ogni ceto sociale, ma in prevalenza braccianti, sebbene le cronache posteriori, ispirate  dall'interessata  propaganda padronale, abbiano parlato di una ridotta presenza dei giornatanti.
 

  Non mancarono gli agitatori e coloro i quali ad arte cercarono di creare incidenti allo scopo di far intervenire le forze dell'ordine: Francesco Zimbè, sinceramente convinto di ciò che stava facendo e sicuro dell'appoggio del Partito,  per diversi giorni ebbe il suo gran da fare per spronare, mediare, calmare gli animi, tacitare i più violenti, garantire il suo oculato intervento  in quella che si profilava come una spartizione difficilissima della terra e dell'acqua di irrigazione. Gli agitatori però ebbero la meglio insieme alla fame e al freddo della gente che aveva lasciato in quella incipiente, ma freddissima primavera la propria abitazione per difendere con i denti la terra che aveva occupato e iniziato a disboscare con ogni attrezzo che di cui era riuscita  a dotarsi.     Le forze dell'ordine intervennero e sedarono rapidamente ogni focolaio di tumulto, costringendo gli occupanti a sgomberare "Farone", come già era accaduto  trenta anni prima ai Casignanesi nella Forseta Callistro.
    La reazione, come annotava qualche anno fa in un suo studio Filippo Tucci (Pagine di storia messignadese/1 – L’occupazione del Bosco Farone” in Messignadi nel tempo web log).
non tardò a celebrare parodisticamente l’occupazione con una poesia malamente affastellata mirante a ridicolizzare quanto era accaduto.

Cù Zimbedu capotesta,
Messignadi è tutta in festa.
Cu rumuri e gran schiamazzi
tutta ‘a genti va nte chjiazzi.
Arta si jiza “bandiera rossa “
e a pugni chjiusi si va a la riscossa.
A banda pilusa cu Micu 'u nanu,
cumincia a sonari chianu chjianu.
Fimmini e omini, zoppi e sciancati
caminavanu tutti mbischjati.
Armati di zappi, cugnati e furcuni
Jivanu u spartunu u voscu i Faruni...
...Jiru tri jiorna, da matina a’ notti
Zapparu a terra e pigghjiaru botti.
Poi chiamaru i carbineri nte camionetti
E u maru Zimbedu pigghiau i manetti.
Tornaru o' paisi scurnati e cumpusi,
senza banderi e a pugni chjiusi 
cantandu tutti a la bonura
“Mira il tuo popolo o bella Signura”.
 
    Svaniva anche a Messignadi, come era accaduto  a Casignana, il sogno della terra per tutti e, quel ch'è peggio, nella povera gente si insinuava quel sentimento di  sfiducia e di condanna verso le forze dell'ordine, che tanti danni avrebbe comportato negli anni a venire. Ma questa è un'altra brutta storia...!