domenica 24 agosto 2014

STORIA DI UN AMORE A PERDERE: DON ROBERTO MEDURI E GLI ULTIMI DI ROSARNO



di Giuseppe Campisi
     Rosarno (Reggio Calabria) – La funzione vespertina è terminata ed i parrocchiani fanno capannello attorno al loro giovane sacerdote, minuto inversamente che caparbio, brizzolato ma dal bisbiglio continuo, quasi come stesse recitando un rosario. Don Roberto Meduri titolare della parrocchia di Sant’Antonio del Bosco, banlieue di Rosarno, ha buone parole per tutti e tanti consigli da dispensare affatto sentendosi come Gesù nel tempio, ma ha soprattutto un’altra apprensione, quella di sgattaiolare fuori dalla chiesa per andare a celebrare un’altra messa, forse quella più importante dell’intera giornata. Difatti freme, e facendosi aiutare a raccattare il necessario - messale, camice, casula e santa comunione - ripone il tutto ordinatamente in una cesta improvvisata a mo’ di gerla e corre via sul furgonetto bianco già messo in moto nel piazzale
antistante.

     Prima tappa – dalla base del quinto stradone - è la zona industriale che lambisce il porto nella parte alta, dove sono concentrati i moduli che danno riparo agli africani di Rosarno e dove si reca per raccogliere i suoi primi “fedeli”, un gruppetto nutrito perlopiù composto da ragazzi ghanesi che lo accolgono festosamente con un sorriso che lui non tarda a ricambiare, scendendo a salutarli chiamandoli per nome, uno ad uno, come si conoscessero da una vita, sempre disponibile nella sua mise leggerissima che fa letteralmente a pugni col freddo pungente della sera. E poi di nuovo via, saettando con ansia verso la meta, il campo d’accoglienza dei migranti allestito come tendopoli in campo aperto a San Ferdinando. Lungo il tragitto, buio pesto nonostante l’imponente
picchetto di lampioni e tanta, troppa immondizia disseminata per la strada come una manciata di montagnole di cui non si cura più nessuno. Certo, sono strade interne, percorse solo dai migranti, dagli invisibili, lontano dagli occhi severi dell’occidentale infastidito. Ed ecco spiegato l’abbandono. Ad attenderlo altri “parrocchiani” - che fanno torma attorno al pulmino della “Presenza” divenuto oramai fin troppo familiare – ed una capanna bianca, tirata su con legni incerti e canne di recupero e rivestita di sacchi di nylon improvvisati. Il nuovo santuario della tendopoli, al cui interno trovano posto in una contegnosa spartanità sedie di fortuna spalmate su tappeti arabescati strausati ed un po’ sdruciti a fare da pavimento sul freddo selciato che accoglie la comunità.

     Al centro della piccola trabacca campeggia, austera ed imperiosa, una croce di legno senza Cristo, che
separa da un piccolo tavolino di plastica ricoperto da una telo morbido ingegnato ad altare ed una flebile luce alogena ad illuminare i volti e gli occhi d’ebano seppur stanchi e consumati dalla vita di uomini e donne in preghiera, stretti attorno a lui, il piccolo sacerdote, che distribuisce in un bilinguismo interpretato ed incessante, la parola di Dio ad una assemblea omogenea quanto attenta. E’ la storia di una umanità – divenuta qui - diversamente cristiana. La chiesetta scoppia di presenze raggranellate con pervicace amorevolezza e che ripagano “il don” dalle fatiche preparatorie e dalle innumerabili ristrettezze quotidiane incitandolo a perseverare nella sua missione di carità. Il clima è inaspettatamente gioioso. Una sinestesia di suoni, colori e voci con uno scopo fin troppo lapalissiano: il noi. I canti, gospel spontanei nella lingua tradizionale africana sono l’eco della raccolta ed allo stesso tempo la melodia che accompagna una così originale liturgia secolare, fatta di verbo e di preghiera partecipata.

     La vera espressione della missione cristiana che si realizza nella conferma della dignità della persona
umana, al di là della pigmentazione della pelle e delle differenze sociali. Inutile dire che - su una popolazione di immigrati “residenti” di circa 4000 persone - i cristiani presenti sono una piccola minoranza, quasi una rappresentanza, che convive come nucleo, compreso e compresso, all’interno d’una fratellanza musulmana di ben più ampia portata. In questo pullulare di mani rugose e ferventi che battono il tempo alla ricerca di un Dio in terra straniera, questo minuto missionario dagli occhiali traballanti ma col sorriso sempre irrefutabile intende applicare fedelmente il “comandamento dell’amore” facendosi un servitore della chiesa per gli ultimi. E’ lui il punto di riferimento di tanti disperati che gli si rivolgono – a qualunque ora del giorno o della notte – in cerca di conforto materiale e spirituale non rimanendo delusi.

     La celebrazione termina gioiosamente, così com’era iniziata, nell’attesa smaniosa del prossimo incontro che non tarderà a venire in vista delle prove del coro, altra punta di diamante oltre alla squadra di calcio
da cui la comune radice Koa, che sta per Knights of the Altar (cavalieri dell’altare). E’ tarda sera ormai e si riparte per fare ritorno alla chiesa di Sant’Antonio del Bosco rosarnese, nel cuore della Piana. E lungo il tragitto è facile allora riflettere per meglio comprendere che nel realizzare ghetti come questi si compie istituzionalmente il trionfo di una sorta di neocolonialismo alla rovescia. E nell’abbandono al proprio destino di questi ultimi, non solo evangelici, lo Stato autocertifica, ancora una volta, il fallimento di una presunta superiorità progressista dell’occidente, che par essere solo materiale ed inverosimilmente già morale. In queste lande desolate ed argillose non si scorgono alti papaveri porporati col sermone pronto all’uso da sciorinare nel chiuso delle comode cattedrali del perbenismo cattolico o spatàri politici di professione con la soluzione take away adattabile ad ogni stagione.

    Qui c’è solo la frontiera del vero ed un piccolo ed isolato prete di trincea che si sporca le mani ogni giorno senza nulla a pretendere, che si adopera alla bell’e meglio per rendere attuali e più vive le pulsioni essenziali dei precetti evangelici che raccomandano – manco a dirlo - amore a perdere (MNews.it - Foto di Salvatore Colloridi)
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