sabato 16 agosto 2014

LA PIANA DEVE QUALCOSA A DON GELMINI?


di Bruno Demasi
     Era il 1996 quando il comune di Scido insieme con quelli di Oppido Mamertina, Santa Cristina d’Aspromonte e Platì, nei cui territori ricadeva e ricade l’ex sanatario antitubercolare di Zervò con i suoi annessi, decideva di concedere gratuitamente alla Comunità Incontro dell’allora “don” Pierino Gelmini , scomparso in questi giorni, l’importante e grandissima struttura da poco tempo restaurata con enorme impiego di denaro pubblico.
    Si gridò da tutte le parti con entusiasmo al miracolo che avrebbe compiuto sull’Aspromonte questo uomo che era riuscito dal niente a creare un vero e proprio impero della carità sotto forma di recupero dei tossicodipendenti, e non solo in termini di accoglienza, ma anche in termini di creazione di un vero e proprio baluardo contro la ndrangheta . Nell’immaginario collettivo infatti la vecchia struttura dell’ex sanatorio, sia prima sia dopo gli onerosissimi lavori di restauro costati alla collettività un mare di soldi, era quasi una succursale del santuario di Polsi in termini di improbabile rifugio di filibustieri e ricercati di ogni risma, picciotti di giornata, capi , vicecapi e sottocapi della grande costellazione ndranghetistica posta a cavallo del Tirreno e dello Ionio. La presenza della Comunità Incontro – si diceva – avrebbe debellato questa piaga cancerosa che invece da un pezzo aveva ormai
lasciato i contrafforti aspromontani per vivere agiatamente nei grandi centri costieri e nelle grandi città.
    Quanta retorica, ricordo, per giustificare e rendere credibile un insediamento, un’operazione politico-culturale in sé discutibilissima, ma ammantata da tanto buonismo quanto votata a una “missione” di recupero che di fatto in questi diciotto anni non ha coinvolto in alcun modo utile, se non  di striscio, i paesi della Piana, alla cui estrema propaggine di S-E, su una plaga montana coperta di faggete, abetaie e pinete lussureggianti si tornava a insistere su un nuovo miracolo dell’industria della carità dopo il bluff pauroso che alcuni decenni prima aveva registrato la retorica trombona di un sanatorio antitubercolare. Un ospedale , quello, che per la peculiarità del clima molto umido non solo non curava i malati , ma li uccideva, riempiendo in pochi anni i cimiteri di Santa Cristina e Piminoro di cadaveri dimenticati e – dopo il repentino abbandono delle sue strutture – le case di questi stessi paesi e di altri, di coperte , lenzuola ,stoviglie e derrate rubati
nottetempo, che seminarono a loro volta, con una diffusione incontrollata del bacillo di Koch, malattia e morte in centinaia di famiglie…
   Gelmini prometteva il sole radioso della rinascita etica e sociale sui monti, dove ogni Ferragosto celebrava con la consueta corona di politici compiacenti, di amici, amici degli amici e di tantissima gente sempre disponibile a spellarsi le mani davanti a chi urla e promette di più, la sua coreografica messa tra i faggi. In essa egli non trascurava quasi mai di indossare i sontuosi e scenografici paramenti del suo rango di esarca  mitrato della Chiesa cattolica greco-melchita carica corrispondente più o meno a quella di vescovo della Chiesa Cattolica romana.
    Da quest’ultima egli era stato ordinato sacerdote nel lontano 1948, ma in essa , secondo i malevoli, si era stufato di aspettare invano una “promozione” a un rango pastorale superiore che non arrivava mai, tanto da decidersi a tuffarsi nella confessione melchita, che pur restando di obbedienza a Roma, risultava ben più accogliente e forse anche più accomodante.
   Gli stessi sontuosi paramenti culminanti in una pesante tiara che lo faceva spesso barcollare egli amava indossare con effetti vagamente comici allorquando, invitato più volte a celebrare la messa e a presiedere la processione della Madonna Annunziata nel mese di agosto, si recava a Oppido con pochi giovani ospiti della sua comunità di Zervò,
ostentando quasi una sgradevole forma di sfida larvata nei confronti del vescovo titolare della Diocesi, che per (discutibile) principio partecipava testardemente solo alla processione dell'Annunziata di marzo e non a quella estiva del Ringraziamento.
   Negli ultimi anni, dopo che venne investito dalle note accuse scandalistiche e decise nel 2008 di essere ridotto allo stato laicale ( si disse per poter anche continuare a gestire l’immenso patrimonio di finanze, di strutture e di esperienze che aveva creato) cominciò ad appoggiarsi per le sue liturgie plateali, anche a Zervò, all”esule” e anziano vescovo siriano melchita Hilarion Capucci che aveva trovato in Gelmini e nelle sue case il rifugio sicuro e amico per un’accoglienza senza riserve.

   Capucci era stato appena vescovo ausiliare presso l' archieparchia melchita di Gerusalemme e si era
dichiarato sempre oppositore politico dello stato israeliano , allineandosi apertamente alle posizioni dei Palestinesi Nel 1974 era stato arrestato dalla polizia israeliana per contrabbando di armi: a bordo della sua mercedes infatti egli stava introducendo in Cisgiordania dal Libano, fucili automatici, esplosivo TNT, bombe a mano , pistole e varie munizioni. Un tribunale israeliano lo dichiarò colpevole di servirsi del suo status di diplomatico per rifornire di armi l' Esercito dell'OLP e lo condannò a dodici anni di reclusione. Da quel momento l’OLP e molte altre forze diplomatiche simpatizzanti con quest’ultima brigarono per la sua liberazione, che avvenne solo quando Papa Paolo VI si assunse la responsabilità di ospitarlo in un monastero occidentale garantendo personalmente a che il medesimo non nuocesse più in alcun modo agli interessi di Israele e della Pace. Capucci fu liberato e giunse a Roma, ma pochi mesi dopo, violando i patti e tradendo la fiducia di quel galantuomo di papa Paolo VI, fece ritorno clandestino in Medio Oriente, dove non mancò di partecipare a riunioni ufficiali dell’OLP o di elogiare pubblicamente l’ayatollah Khomeini. La sua amicizia con Pierino Gelmini risale al periodo in cui egli era al centro di queste tumultuose vicende non esattamente dettate da spirito improntato al pacifismo non di parte…
    Ricordo che nell’agosto (2008 o 2009) il clero oppidese ancora una volta si recò implorante  in montagna e bussò alla porta di Gelmini per averne la preziosa presenza durante la festa dell’Annunziata. Gelmini, ormai ridotto allo stato laicale, propose qualcosa di più e di meglio, promettendo che per l’occasione avrebbe fatto arrivare a Oppido il “vescovo di Gerusalemme”. La gente si aspettava il top dell’importanza e alla messa che precedeva la processione serale, la cattedrale era gremitissima più che mai. Fece l’ingresso dal portone
centrale Capucci con veste talare e copricapo nero, accompagnato da un Gelmini abbigliato in anonimo vestito scuro e la gente pensò che l’applauso che venne lanciato dal presbiterio fosse rivolto solo a Gelmini, in quanto il “vescovo di Gerusalemme” ancora doveva arrivare… Capucci ebbe il buon gusto di non celebrare la messa, ma accettò di buon grado di tenere l’omelia, nella quale si impappinò sovente in discorsi pericolosamente altalenanti tra qualche timido e sparuto spunto teologico- evangelico e ragionamenti di politica internazionale improntati a forme di pacifismo tutte proprie… Era ormai chiaro che era lui il “Vescovo di Gerusalemme “ tanto decantato, ma ancora moltissima gente , sentendolo predicare, domandava al vicino di banc:  “ …ma d’undi cumparìu stu monacu?”
    Oggi della Comunità Incontro a Zervò restano solo macerie, o quasi, tra cui una costosa torre campanaria in metallo, dalla sommità della quale Gelmini vantava di poter vedere le gru e le luci del porto di Gioia Tauro, ma dalla quale al massimo si può osservare più o meno da vicino il nido di qualche allocco.